Dall'inizio dell'età moderna, gli eserciti hanno devastato l'ambiente in cui viviamo su una scala sempre più ampia: oggi dobbiamo disarmarci in nome di una nuova solidarietà universale, senza farci tentare dalle sirene del militarismo verde. Una conversazione a Pianeta Terra Festival con lo storico Sunil Amrith sul suo libro La Terra in fiamme (Editori Laterza, 2025).
Sembra un fossile monumentale, la spina dorsale di un animale estinto. Forse non è morto ma solo addormentato: un giorno si sveglierà e si scrollerà di dosso gli alberi che gli crescono sulla schiena ridotta a un manto erboso, quindi si leverà in piedi sulle note di una sinfonia epica e comparirà ai suoi piedi una lunghissima barra della salute, come il boss di un videogioco.
Sono fantasie per distrarmi dal ritardo sempre più grave e imbarazzante che mi separa dall’intervista che ho fissato, mentre le mura di Lucca scorrono dietro il finestrino della macchina su cui sono seduto da due ore. Cerco sul cellulare informazioni sulla loro storia per dimenticare l’ansia: è dall’Ottocento che sono diventate un bellissimo parco pubblico, ma quando ne vennero posate le prime pietre più di mezzo millennio fa la loro funzione era diversa. Tra le fortificazioni “alla moderna” meglio preservate d’Europa, si snodano lungo quattro chilometri di terrapieni srotolati durante la rivoluzione militare europea, quando la tecnologia si trasformò in un fattore più decisivo di quello umano per vincere le guerre. Machiavelli commentò così quella trasformazione: “L’impeto delle artiglierie è tale che non truova muro ancoraché grossissimo che in pochi giorni ei non abbatta”. Sono così ben conservate perché Lucca non fu mai assalita da un esercito regolare. L’unica armata che le mise alla prova non era fatta di carne e ossa ma d’acqua e fango: il 18 novembre 1812 il fiume Serchio esondò per una catastrofica alluvione, ma la cinta muraria e le porte della città ressero l’assedio, puntellate da paglia e materassi.
Non ha funzionato, sono ancora agitato, ma almeno questa è una divagazione più pertinente, perché la persona che attende il mio arrivo da un’ora e mezza ha scritto un libro su come la guerra ha fatto e disfatto i posti in cui viviamo, la natura e il pianeta. Abuso della sua pazienza e gentilezza perché è il 3 ottobre 2025, e una delle manifestazioni più grandi di cui ho memoria ha bloccato l’Italia e il mio treno per Firenze. In mattinata migliaia di persone hanno sfilato anche nel centro di Lucca per chiedere la fine del massacro a Gaza e un futuro di pace.
La macchina attraversa le strade che poche ore prima erano occupate dal corteo e mentre accosta vedo Sunil Amrith che si guarda intorno alla mia ricerca. Parlerà tra poco più di un’ora a Pianeta Terra Festival, l’evento multidisciplinare diretto dal botanico Stefano Mancuso e ideato e progettato dagli Editori Laterza, che hanno appena pubblicato l’ultimo libro di Amrith, La Terra in fiamme.
Se ne andrà da Lucca subito dopo, quindi devo sbrigarmi. Apro la portiera, mi precipito da lui e balbetto delle scuse.
“Ma figurati, ho saputo che ci sono stati dei problemi con i trasporti” mi risponde con un sorriso gentile stringendomi la mano: posso tirare un sospiro di sollievo. Del resto che saranno mai novanta minuti di attesa per una persona che ha ricostruito più di cinquecento anni di storia naturale della distruzione? Appena finisco di armeggiare con cellulare e pc per registrarlo, gli chiedo perché ha deciso di occuparsi di una porzione di spazio-tempo così impressionante, su cui gli storici hanno scritto intere biblioteche.
“Il coraggio necessario per scrivere una storia di questa portata è arrivato dall’insegnamento. Ho sempre scritto di storia ambientale, in particolare dell’India e del Sud-est asiatico, ma è da vent’anni che faccio lezione con una prospettiva globale, e gli studenti mi hanno sempre posto le domande più grandi: come siamo arrivati a questo disastro? Chi è il responsabile?”
Se possiamo leggere un libro così denso e ricco quindi dobbiamo ringraziare le studentesse e gli studenti di Yale, che hanno spinto Amrith ad avventurarsi fuori dal suo ambito di specializzazione.
“La sfida era scrivere una storia molto grande, ma non presentarla come un riassunto. Ho cercato di raccontare una vicenda vastissima attraverso molte storie diverse, in cui all’improvviso mi concentro su un particolare momento di transizione o accelerazione. Come storico sociale, per me era fondamentale non perdere mai di vista l’esperienza umana individuale”.

Conoscevo già la sua formazione, ma ora mi si chiariscono le idee. Ecco perché ha un approccio così fresco alla storia militare: non è uno storico militare! Glielo dico, e mentre – per fortuna – scoppia a ridere ne approfitto per puntualizzare: quando ripercorriamo le genealogie della crisi climatica, di solito ci concentriamo sui danni ambientali arrecati da tecnologie che corrispondono a diversi momenti nello sviluppo dell’economia capitalista, come le piantagioni, il motore a vapore e a combustione interna. Però sembriamo aver scordato che anche l’evoluzione tecnica delle armi da guerra ha avuto un impatto immenso sul metabolismo planetario. Perché l’abbiamo trascurata?
“La storia militare è diventata un campo specialistico, e negli Stati Uniti ci sono sempre meno storici militari nei dipartimenti di storia. Li troveresti più facilmente nelle scuole di studi strategici, infatti nella mia carriera ne ho incontrati pochissimi”. Nato in Kenya e cresciuto a Singapore, prima di Yale Amrith ha studiato storia a Cambridge e insegnato a Birbeck e Harvard, non proprio università periferiche.
“E poi la storia militare ha una certa tendenza a celebrare il militarismo – non sempre, ma credo sia una corrente predominante. È chiaro che anche le storie militari classiche affrontano la sofferenza umana in guerra, ma spesso lo fanno da una prospettiva limitata. E d’altra parte la storia ambientale non dialoga affatto con la storia militare. Io stesso non avrei mai pensato di trattare la Prima o la Seconda guerra mondiale, ma poi mi sono reso conto di quanto hanno trasformato la nostra capacità di cambiare e danneggiare l’ambiente. Tuttavia non mi sembra una novità, piuttosto abbiamo dimenticato qualcosa che negli anni Settanta era chiaro: il movimento antinucleare e quello ambientalista erano intrecciati, perché le armi atomiche incarnavano un potere tecnologico sfuggito al controllo etico umano in grado di distruggere letteralmente tutto”.
Ci torneremo, ma non è l’unico insegnamento che abbiamo perso per strada. Tra i punti di partenza di questo racconto secolare troneggia la conquista dell’America nel Cinquecento, quando il cosiddetto scambio colombiano fece transitare specie viventi, tecnologie e quantità ingenti di violenza da un lato all’altro dell’oceano Atlantico. I riassunti scolastici raccontano una triste storia di soprusi e avidità, ma non la collocano in un quadro più ampio.
“Per Colombo l’oro è la risorsa che farà vincere alla cristianità la sua guerra religiosa contro l’Islam, il nemico fondamentale in via d’espansione nel cuore del continente europeo con l’Impero Ottomano. L’esploratore, il conquistador ha una mentalità da crociato: l’oro americano finanzierà la riconquista di tutte le terre sante”.
Non è un’eccezione: altri imperi, come quello mongolo – protagonista dell’inizio di La Terra in fiamme –, quello cinese o quello Moghul desideravano ricchezze provenienti da terre lontane e hanno spostato enormi masse di animali, piante, minerali e umani. Ma l’espansione iberica avviene in una convergenza di circostanze – tra cui la rivoluzione militare moderna a cui dobbiamo la costruzione delle mura di Lucca – che amplificano la capacità offensiva occidentale. La dismisura dell’uccisione di massa dei popoli amerindi fu tale che gli studiosi si chiedono da anni se la ricrescita delle foreste tropicali nelle aree dei massacri possa avere causato la Piccola era glaciale.
Questo stravolgimento non sarebbe stato possibile senza le armi da fuoco portatili, fondamentali nelle altre razzie – di schiavi, spezie, pietre preziose – dei colonizzatori europei. “Credo che siano una delle tecnologie che hanno alimentato più di ogni altra l’eccezionalismo e il senso di onnipotenza umano”. Sono anche il mezzo con cui gli imperi europei domineranno intere ecologie per trasformarle in risorse da consumare. “Nell’America del XIX secolo milioni e milioni di bisonti vengono sterminati a fucilate in appena due o tre decenni e le loro pelli diventano le cinghie di trasmissione dei macchinari industriali. Nei loro resoconti i cacciatori raccontano delle scorrerie in treno lungo le praterie americane: si affacciavano fuori dai vagoni e aprivano il fuoco su tutta la vita che vedevano. Quella capacità di uccidere deve avere avuto un impatto enorme sull’immaginazione di chi maneggiava strumenti in grado di infliggere tanta morte. O ancora, in Sudafrica nello stesso periodo gli inglesi dicono che è proprio la mitragliatrice Maxim a consentire a pochi di loro di sottomettere dei grandi regni”.
La Prima guerra mondiale, la prima grande guerra al carbonio, fu l’apogeo di un feroce processo di accumulazione. Sebbene sia stata raccontata come il conflitto delle armi chimiche, fu di nuovo l’artiglieria a causare l’80% delle morti sul campo. Forse nessun evento al mondo è stato al centro di più ricerche, e il dibattito sulle sue cause continua a imperversare più di un secolo dopo: per alcuni fu l’ultimo sussulto di un ordine aristocratico in disfacimento, per altri la sanguinosa conclusione di una competizione capitalista per accaparrarsi i mercati globali.
“Credo che le armi da fuoco portatili siano una delle tecnologie che hanno alimentato più di ogni altra l’eccezionalismo e il senso di onnipotenza umano”.
Quando chiedo ad Amrith come la vede richiama un parere illustre: “Verso la fine del libro cito il poeta Rabindranath Tagore, il primo premio Nobel indiano. Per lui la Grande Guerra rappresentava il culmine di tutte le guerre coloniali del XIX secolo. Molti scrittori e pensatori del mondo colonizzato la osservarono con orrore, ma la interpretarono anche come il ritorno nel cuore dell’Europa di una serie di espansioni del potere militare che erano già state sperimentate in Asia e in Africa”.
Poco dopo, durante la Seconda guerra mondiale, tutta la storia ambientale dei 150 anni precedenti deflagra. I grafici che rappresentano la Grande Accelerazione si impennano subito dopo il 1945: curve a forma di mazza da hockey, linee rette che all’improvviso salgono ripide, e noi, oggi, scaliamo un picco nuovo e più alto anno dopo anno. Aumenta tutto: popolazione, PIL, uso della carta, consumo dei combustibili fossili, anidride carbonica nell’aria, acidificazione degli oceani. Raggiunge l’apice anche la letalità delle armi, dalle tempeste di fuoco scatenate dai bombardamenti alleati su Amburgo e Tokyo alle bombe atomiche esplose nel cielo sopra Hiroshima e Nagasaki. Dopo aver assistito al primo test di un’arma nucleare, il fisico italiano Emilio Segrè aveva pensato che “l’esplosione avrebbe potuto incendiare l’atmosfera e distruggere la terra”.
Fu un passaggio di scala che non lasciò nulla intatto, nemmeno le nostre anime. “Torno molte volte sull’arte e sulla poesia, non perché siano riflessi della realtà o equivalenti a fonti d’archivio, ma perché mi sembrano catturare dei cambiamenti fondamentali nella percezione”. Il linguaggio ha registrato quel sisma anche nella guerra e nella scienza. Se un tempo era il mondo naturale a fare da riserva di caccia di immagini per il mondo militare – l’Iliade è costellata di similitudini che giustappongono la forza degli eroi a quella di fiumi o incendi –, nella prima metà del Novecento le metafore si rovesciano: “Nell’Europa memore della guerra di trincea, i fratelli Bjerknes, due meteorologi norvegesi, formulano la teoria del fronte polare, ancora centrale per la climatologia: fronte come linea del fronte. Descrivono le forze atmosferiche più potenti che possiamo immaginare, masse d’aria continentali che creano cicloni, e le accostano alle armate umane, a testimonianza del potere sensazionale che avevano sprigionato sul campo di battaglia”.
La comunità internazionale contemporanea è nata attorno alla promessa di non ripetere mai più il trauma di un conflitto mondiale, anche se si è consolidata mentre le espressioni locali di una Guerra Fredda planetaria – per dirne un paio – uccidevano la popolazione vietnamita, devastavano le sue giungle e avvelenavano per decenni intere catene alimentari, e mentre nel 1961 la Tsar Bomba detonava nell’arcipelago artico e faceva sussurrare “la terra è stata uccisa” a chi vide il bagliore dell’ordigno nucleare più potente mai creato. Eppure abbiamo conosciuto meglio il nostro pianeta e il nostro ruolo nella sua vita proprio in anni in cui sembravamo sull’orlo dell’apocalisse. Tra il 1957 e il 1958 l’Anno geofisico internazionale coinvolse decine di migliaia di scienziati da sessantasette nazioni, da una parte all’altra della cortina di ferro. Fu il primo studio completo della Terra, un meraviglioso esempio di solidarietà malgrado tutto. Oggi però le circostanze globali sembrano ostili a una simile unità.
“È un paradosso, perché alla fine degli anni Sessanta si era sviluppata la metafora dell’astronave Terra, avevamo ricevuto le prime foto del nostro pianeta dallo spazio e speravamo di poter comprendere che viviamo tutti sullo stesso mondo fragile. Non è un’idea priva di potere: penso che continui a risuonare in tutto il mondo e credo sia ancora la nostra migliore scommessa per mobilitarci attraverso i confini tra paesi diversi, barriere di classe o divisioni culturali, ma non sottovaluto il potere delle forze contrarie, che rifiutano questo appello alla solidarietà. Credo che per le discipline umanistiche in cui mi sono formato sia arrivato il momento di recuperare o immaginare un diverso tipo di universalismo, dopo aver criticato gli appelli all’Umanità con la U maiuscola. Forse abbiamo perso la capacità di pensare la solidarietà a furia di decostruire le pretese di universalità”.
“Assistiamo alla prima articolazione del militarismo in un’epoca in cui la coscienza ambientale è diffusa, ci ricorda che l’ambientalismo è un’ideologia malleabile. Siamo abituati ad associarla al progressismo, ma è altrettanto compatibile con il versante opposto”.
Mi chiedo – e chiedo ad Amrith – se la mancanza di un fronte comune sia dovuta anche alla sconfitta del socialismo reale e al crollo del concetto di classe come collante internazionale. Il vuoto lasciato dalla caduta dell’URSS – un altro impero fossile – può essere colmato dall’appartenenza planetaria a cui si richiama l’ambientalismo?
“Non credo, ma forse può dare origine a un nuovo linguaggio di classe. Negli ultimi vent’anni mi sembra che sia apparso qualcosa di simile, anche se in modo fugace e frammentario. Dagli anni Ottanta molti movimenti sindacali in tutto il mondo hanno abbracciato le preoccupazioni ambientali: mi piace molto l’esempio di Chico Mendes”. In La Terra in fiamme un lungo capitolo racconta il coraggio di Mendes, un coltivatore di caucciù che combatté contro lo sfruttamento dei lavoratori nell’Amazzonia brasiliana e pagò con la vita il suo coraggioso impegno. “Mendes fu considerato un ambientalista solo negli ultimi anni della sua vita. Era prima di tutto un sindacalista e ha sempre rifiutato di definirsi conservazionista, ma gli fu utile pensare che il benessere umano era legato al benessere della foresta. Il linguaggio dell’ambientalismo oggi è depoliticizzato, in particolare nel mondo angloamericano della responsabilità sociale d’impresa, della governance ambientale, in cui ‘ovviamente tutti hanno a cuore l’ambiente’. Invece il Sud globale è stato attraversato da lotte che facevano convergere giustizia sul lavoro e giustizia ambientale. Mi sembra una riformulazione promettente per un linguaggio di classe che oggi deve suonare diversamente”.
Eppure le preoccupazioni verdi sono fatte proprie anche da attori che non hanno nulla da spartire con gli esempi virtuosi citati da Amrith. L’Unione Europea sbandiera i propri risultati sulle energie rinnovabili mentre finanzia piani miliardari per il riarmo. Diversi eserciti – compreso quello italiano – trattano la crisi climatica come una questione di sicurezza nazionale. Eppure, come ha ricordato Amrith in un pezzo sul New York Times, sono proprio loro a essere responsabili del 5,5% di tutta la CO₂ prodotta nel mondo. Se un Paese ne emettesse così tanta oggi si classificherebbe quarto tra i più inquinanti.
“Ho presentato il libro a Bruxelles di recente e c’erano diverse persone nel pubblico, forse connesse all’UE o alla NATO, coinvolte nel riarmo, che portavano il seguente argomento: ‘Non stiamo abbandonando gli standard ambientali mentre riarmiamo l’Europa’. Anche l’editoriale di Nature da cui ho tratto il dato del 5,5% ha una conclusione deludente e blanda, che raccomanda agli eserciti di essere più consapevoli delle proprie emissioni, come se si trattasse di una banale transizione. Mi sembra che si sottostimino i danni ambientali sistemici che anche un corpo d’armata dotato di tecnologie verdi può provocare. È la prima articolazione del militarismo in un’epoca in cui la coscienza ambientale è diffusa, ci ricorda che l’ambientalismo è un’ideologia malleabile. Siamo abituati ad associarla al progressismo, ma è altrettanto compatibile con il versante opposto. La letteratura storica è piena di esempi di quanto fossero green i nazisti. Oggi l’estrema destra sfrutta le preoccupazioni ambientali per giustificare certe politiche, per esempio in Gran Bretagna è diffusa l’idea malthusiana che a fare figli siano le persone sbagliate. Persino il documentarista David Attenborough è convinto che la popolazione mondiale dovrebbe limitarsi a due miliardi di persone. Oggi ci avviciniamo agli otto miliardi e per raggiungere un obiettivo del genere… beh, unisci i puntini”.
Mark Twain sosteneva che la storia non si ripete, ma fa le rime. Quali echi sono arrivati alle orecchie di Amrith da Gaza e dal resto del mondo negli ultimi tempi?
“Sono molti e diversi tra loro. Le proteste che hanno preso piede qui e altrove fanno rima con i più importanti movimenti sociali e politici del secolo scorso, rime in un linguaggio che riecheggia ancora e parla di libertà, di giustizia, di decolonizzazione. Sento anche la rima con fascismo, negli Stati Uniti e in molti altri posti, India compresa. Guardo a quello che accade nelle università americane, dove hanno iniziato a modificare i curriculum, a interrompere i finanziamenti alle ricerche scomode, a cambiare le persone che occupano le posizioni di potere. È un copione molto familiare, una cacofonia di rime”.
Il tempo che ho a disposizione sta per terminare. Quale momento migliore per la domanda più complicata? Per tutto il libro sembra che la capacità offensiva umana, perlopiù al servizio di una razionalità economica volta a soggiogare e sfruttare tutto ciò che gli capita a tiro, assuma dei tratti inquietanti e incomprensibili. In altre parole, sembra che una crudeltà antieconomica, inutile e assurda attraversi gli ultimi secoli della nostra storia e minacci il nostro presente. Un esempio su tutti è quello di Alfred Russell Wallace, socialista e naturalista inglese, co-scopritore con Charles Darwin della teoria dell’evoluzione: dopo aver viaggiato in lungo e in largo per l’arcipelago indonesiano fece spedire in Inghilterra gli scheletri perfetti di diversi oranghi. Li aveva ammazzati di persona a colpi di pistola, poi aveva ordinato che fossero scuoiati e bolliti per esporli nei musei. Che senso aveva? Non poteva farlo con degli esemplari già morti?
“Per me è stata la questione più difficile da affrontare. Torniamo a Wallace: è uno dei buoni, nel XIX secolo. Era un pensatore molto più raffinato della media dei suoi contemporanei sulle questioni razziali e le sue scoperte sul mondo naturale sono ancora importanti per noi. Ma quel che fece fu una sorta di manifestazione della supremazia di uno scienziato britannico sul mondo umano e più che umano. Non credo che Wallace l’avrebbe pensata così, ed è per questo che – per quanto sia allettante – non possiamo raccontare una storia con una morale semplice. Ci sono grandi forze sistemiche che ci orientano nonostante le nostre migliori intenzioni, ma c’è anche un residuo inspiegabile. Non si tratta della natura umana, non uso mai questo termine perché offre delle spiegazioni del tutto insoddisfacenti. Ma mi sembra che la capacità offensiva umana abbia assunto l’autonomia che possiamo osservare oggi nel mondo”.
Gli dico che è un finale cupo per la nostra conversazione, quasi mi pento che sia stata l’ultima domanda. Tuttavia conclude così: “Ma abbiamo sempre visto anche l’opposto di tutto questo, e lo vediamo ancora. Per esempio nelle strade di Lucca, oggi”.