In tempi bui, le scuole sono i luoghi dove il sonno della ragione può generare mostri, oppure dove i semi della dignità e del perdono possono attecchire per future società in pace.
Venerdì 31 ottobre alle ore 19.00, presso BASE Milano, Laura Silvia Battaglia, documentarista e giornalista freelance impegnata dal 2007 come reporter in aree di crisi, dialogherà con Mirea D’Alessandro, giornalista e fotografa freelance classe 1999 che si occupa di diritti umani, crisi umanitarie e conflitti. L’incontro, dal titolo “A scuola di sopravvivenza, resilienza, resistenza”, si terrà nell’ambito della seconda edizione di YAWP Festival. In piedi sui banchi di scuola (31.10-01.11.2025). Ne anticipiamo qui il contenuto.
YAWP Festival è dedicato al tema dell’educazione, diretto da Benedetta Marietti e promosso e organizzato da Fondazione Francesco Morelli con il sostegno di Intesa Sanpaolo; special partner Fastweb Digital Academy. Per info e prenotazioni www.ffmorelli.it.
Non credo dimenticherò facilmente gli occhi di quell’uomo, Walid, cinquantacinque anni portati stancamente tra indigenza, carestia e guerra nella depressa regione di Hajja nel nord dello Yemen – un luogo di notevole bellezza paesaggistica non adeguatamente ricompensato dalla serenità del vivere – quando mi disse: “Lo so che non è giusto: ma do mia figlia Abigail in sposa a quattordici anni perché altrimenti mia moglie morirà di insufficienza renale”.
I mille dollari del contratto di matrimonio – era il 2017 – sarebbero serviti per un anno di dialisi ospedaliera, lì dove qualsiasi servizio pubblico gratuito, nello Yemen in guerra, è stato sostituito da un selettivo e ingiusto sistema di accesso alla sanità privata. Abigail non era particolarmente triste: frastornata, certo, ma anche rassegnata come un’eroina ritrosa, perché il suo sacrificio avrebbe salvato la madre. Non dimenticherò facilmente il quesito etico che mi sono portata appresso da quell’incontro: cosa avrebbe potuto fare, cosa avrebbe dovuto fare Walid, stretto in un tunnel senza via d’uscita dove l’unica cosa certa e inevitabile sarebbe stata la morte della moglie?
Ubi maior minor cessat: così dicevano i latini. E il male minore, in questo caso, era la rinuncia della figlia a una condizione di attesa – forse sarebbe arrivato l’uomo giusto? – per una scelta obbligata alla quale avrebbe poi fatto l’abitudine: ecco il moderno sacrificio di Isacco al dio della sopravvivenza. Potevo giudicare Walid per questo? Come ci poniamo noi, dai nostri comodi divani, dall’alto del nostro benessere conquistato in secoli di colonialismo, rispetto a contesti dove la scelta degli esseri umani è tra il vivere (male) o il morire e dove tertium non datur?
“Le vicende legate alle spose-bambine o ai bambini-soldato sono saldate a doppio nodo al concetto che le società hanno del valore della vita e delle finalità dell’istruzione: il sapere ti libera oppure ti lega”.
Certo, di mezzo ci sono bambini: gli esseri viventi più fragili e indifesi che, lì dove il gioco si fa duro, diventano adulti troppo presto. È un dovere proteggerli, ma come fare? E fino a che punto è possibile farlo quando il contesto è avverso persino alla stessa umanità e il potere è la forbice che ritaglia a suo piacimento i contorni delle vite dei senza nulla? Le vicende legate alle spose-bambine o ai bambini-soldato sono saldate a doppio nodo al concetto che le società hanno del valore della vita e delle finalità dell’istruzione: il sapere ti libera oppure ti lega. Ti “libera da” o “ti lega a”. E, indubbiamente, nelle guerre ti lega più di quanto ti liberi.
Ciò avviene quando le dirigenze capiscono il ruolo centrale della propaganda nella costruzione del consenso politico: non esplode come fuochi d’artificio ma scorre nascosto come un fiume carsico. Tanto più il credo è somministrato in modalità sotterranea, quotidiana e incessante tanto più il consenso sarà solido, fedele, convinto. E tanto più quella specifica visione del mondo viene applicata sulle giovani menti inesperte, tanto più l’amore sarà incondizionato. Lo sapeva bene mio padre, nato nel 1929, un’infanzia trascorsa a eseguire il saluto romano come “figlio della Lupa” nell’Italia fascista. Lo sanno bene i miei nipoti, di sette e otto anni, costretti a farfugliare “morte all’America” dopo ogni recita dell’inno nazionale nello Yemen del Nord governato dalle milizie filo-iraniane. Ciò che ha salvato l’uno e ciò che salverà gli altri sono gli insegnamenti privati, sussurrati, carbonari dei padri e soprattutto delle madri; microdosi di vaccini di buonsenso umano, mentre il mondo di fuori, anche quello delle istituzioni, insegna a odiare il diverso da te, prima di metterti in mano un fucile per farlo fuori senza averlo mai considerato umano.
Per questo, in quei contesti, un maestro di scuola che non si piega al rito collettivo della morte è un eroe. Per questo, un giovane o una giovane che si ostinino ad avere la forza e la lucidità per dare corpo vivo alle parole poetiche è un visionario. Per questo un artista che continui a immaginare punti e linee e colori proiettati su un muro scrostato e diruto è un architetto del futuro. Lo sanno bene i poeti di Gaza o le prigioniere politiche turche e ucraine che hanno scritto poemi anche con penneintinte nel loro sangue. Non credo che dimenticherò facilmente anche gli occhi di Souheil che resistette trentatré anni nelle prigioni siriane del regime degli Assad, scrivendo poesie sui muri. “Se ho rinunciato a odiare – mi ha detto – è solo perché ho imparato a scrivere”.