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Alessio Giacometti
Alla ricerca del chiodo d’oro

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clima geologia Scienza

Il riconoscimento geologico ufficiale dell'Antropocene per ora è naufragato, ma una nuova e controversa ricerca ha riacceso il dibattito su questo concetto tanto influente quanto ambiguo.

A uno sguardo inesperto, il lago Crawford non sembra avere niente di speciale: acque calme e limpide, una cintura di pini bianchi e qualche camminamento lungo le sponde. Nulla di più. Eppure è in questa piccola e serafica pozza dell’Ontario, Canada, che alcuni scienziati credono di aver individuato il marcatore dell’Antropocene, la famigerata e controversa “epoca umana” di cui tanto si è parlato negli ultimi anni. Il Crawford si è formato circa tredicimila anni fa con il collasso di una piccola ma profonda caverna che gli ha conferito la topografia di lago meromittico – il fondale e la superficie non si mescolano, i depositi precipitano in basso e la presenza di ossigeno fa sì che si calcifichino in strati ben distinti. La pozza è talmente protetta da essere una vera e propria capsula del tempo: i sedimenti che si sono accumulati nel lago per migliaia di anni sono come gli anelli di un albero, ogni linea racconta di un periodo passato e tutte assieme di come l’ambiente circostante è cambiato nel corso delle ere. C’è una linea in particolare che sembrerebbe mostrare come, all’inizio degli anni Cinquanta, la natura del pianeta abbia iniziato a cambiare per effetto delle attività umane.

La crosta terrestre è da sempre archivio di catastrofi passate – i suoi strati mostrano i segni delle collisioni con gli asteroidi, delle estinzioni di massa, delle fratture nelle placche continentali e delle grandi trasformazioni atmosferiche. Nella carota di fango asportata dal fondo del Crawford, in un certo punto che coincide temporalmente con il periodo della “Grande Accelerazione”, la chimica dei sedimenti muta in maniera inequivocabile: aumenta la concentrazione di carbonio derivante da processi industriali, cambiano gli isotopi dell’azoto dispersi dai fertilizzanti sintetici, emerge la scia delle piogge acide, e soprattutto compare il plutonio rilasciato dal primo test di detonazione di una bomba all’idrogeno nel 1952. Un paio di anni fa, tra i dodici siti presi in considerazione in tutto il mondo, il lago Crawford è stato scelto come il più adatto a ospitare il “chiodo d’oro” dell’Antropocene, un punto di riferimento globale nella registrazione stratigrafica della Terra per indicare l’inizio della nuova epoca geologica. La proposta è stata sottoposta con un dettagliatissimo report in tre parti (prima, seconda e terza) alla Sottocommissione Internazionale per la Stratigrafia del Quaternario (SQS) della Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS), il gotha della geologia mondiale, ma contro ogni pronostico è stata respinta con 12 voti contrari, 4 favorevoli e 3 astensioni. 

Un po’ come approvare un emendamento alla costituzione, modificare la Scala dei tempi geologici è un processo lungo e laborioso perché l’SQS e l’ICS sono organismi conservatori, esigono evidenze solide e sottopongono le prove raccolte a un estenuante vaglio collettivo prima di ufficializzare alcunché. Lo strato geologico presentato per la ratifica dell’Antropocene corrisponde a poco più di due centimetri di melma prelevati con scrupolo dal Crawford – a detta di alcuni addetti ai lavori, un’evidenza empirica troppo speculativa per ufficializzare l’ingresso nell’epoca umana. Il problema è che i buoi sono scappati da tempo, l’Antropocene ha scavalcato ormai gli steccati accademici ed è diventato un potente e irrinunciabile catalizzatore di dibattiti intorno all’impatto umano sul pianeta. Il termine ha anche invaso la cultura di massa, titolo catchy di album heavy metal e progetti fotografici, addirittura traccia d’esame alla prova di maturità. Ora che l’Antropocene ha raggiunto una popolarità così vasta, come rifiutarne la validità sul piano scientifico? Ma soprattutto, con quali ragioni e quali conseguenze?

Tra coloro che hanno dato una risposta a queste domande c’è Alexander Damianos, ricercatore all’Università del Kent. Damianos si è avvicinato all’Antropocene da una prospettiva giuridica, e sebbene non sia un etnografo di formazione per quattro anni gli è stato concesso di partecipare alle riunioni dell’Anthropocene Working Group (AWG), la falange di esperti che dal 2009 è stata incaricata di raccogliere evidenze per la formalizzazione dell’epoca umana nella Scala dei tempi geologici. Damianos ha potuto seguire da un punto di osservazione privilegiato come l’AWG ha discusso le prove a conferma della nuova epoca, come la proposta di considerare il “chiodo d’oro” del lago Crawford è emersa e poi naufragata, e più in generale come un collettivo di specialisti ha negoziato per oltre un decennio la “verità geologica” dell’Antropocene. 

La sua ricerca rientra in piena regola tra gli “studi di laboratorio”, un metodo di ricerca considerato tra i più venerabili e proficui della sociologia e dell’antropologia della scienza, in particolare per la sua capacità di generare risultati inaspettati. L’anno scorso Damianos ha pubblicato un primo assaggio della sua indagine nella più importante rivista scientifica di settore, e la tesi che propone ha da subito spiazzato: a suo modo di vedere, l’AWG avrebbe fatto leva sulla carica retorica dell’Antropocene non per descrivere il passato geologico della Terra, come avrebbe dovuto limitarsi a fare, ma per impostare un discorso normativo sul futuro della nostra specie nell’epoca della crisi ecologica. In venticinque anni di circolazione incontrollata, il senso dell’epoca umana si è espanso oltre ogni misura per inglobare i diversi dibattiti sulle condizioni di abitabilità della Terra, sino al punto di diventare un concetto troppo vago per essere considerato scientificamente valido. A detta di Damianos, anziché designare una nuova epoca geologica, il termine Antropocene ha finito per dare il nome a un problema – la crisi ambientale antropogenica – e ai tentativi in corso per provare a risolverlo.

“Ora che l’Antropocene ha raggiunto una popolarità così vasta, come rifiutarne la validità sul piano scientifico? Ma soprattutto, con quali ragioni e quali conseguenze?”

Per comprendere come Damianos sia arrivato a conclusioni così critiche del lavoro dell’AWG, occorre fare un passo indietro. Tra gli anni Settanta e Ottanta ebbe luogo la cosiddetta “svolta etnografica” negli studi della scienza. Ai sociologi e antropologi non bastava più studiare le carriere degli scienziati, i network nei quali interagivano, o i modi con cui parlavano del proprio lavoro. Bisognava “andare e vedere”, superare la cortina di pregiudizi che aleggiava intorno alle pratiche di laboratorio, osservare gli scienziati “in azione”. L’approccio fu da subito radicalmente costruttivista: il sapere scientifico non si genera dal misterioso incontro tra l’attività psichica degli scienziati e l’applicazione di un metodo presuntamente astratto e razionale, ma al contrario è l’esito di un processo collettivo e composito, impuro e situato. Fu una rivoluzione nella comprensione di come viene prodotta la verità scientifica, in molti non la capirono, alcuni la censurarono, qualcuno provò anche a strumentalizzarla per sostenere che ogni conoscenza prodotta in laboratorio è relativa e artefatta.

Per la prima volta la scienza guardava davvero sé stessa come oggetto di studio, in modo compiutamente riflessivo, ma ad alcuni scienziati non piacque l’idea di diventare le bertucce dei sociologi. Non bastasse, l’etnografia di laboratorio è un metodo esigente e dispersivo, il tempo e la fatica che richiede non si traducono in risultati certi, e in epoca di publish or perish agli scienziati sociali che intendono massimizzare gli sforzi conviene ricorrere a metodi più strutturati. Gli studi di laboratorio sono così finiti ai margini della ricerca sociale, in parte per ostracismo e in parte per una crescente impraticabilità. Chi si sforza di tenere viva questa nobile tradizione di ricerca merita incoraggiamento e approvazione, specie quando riesce ad avere accesso a quei luoghi che, come le riunioni dell’AWG, rappresentano i santuari del sapere e le stanze dei bottoni della scienza mondiale. Onore a Damianos, allora. E tuttavia nella sua analisi c’è qualcosa che non convince, in primis i membri stessi dell’AWG, che di recente hanno dato sfogo al loro risentimento in un avvincente articolo di replica

Damianos ammette che la scienza è sempre e immancabilmente normativa, non spiega solo com’è la realtà ma viene anche usata per cambiarla in un senso o in un altro, eppure con l’Antropocene è successo qualcosa di inusuale: anziché muovere dalle prove disponibili per descrivere i contorni di una nuova epoca geologica (“first the fossil, then the context”), si è partiti dall’idea preconcetta di un’epoca segnata dall’impatto umano sul pianeta e si sono cercati i tecnofossili che potessero confermarla (“first the context, then the fossil”). Per di più, l’articolazione dell’Antropocene è stata fin da principio politica, e solo poi si è tentato di capire se avesse o meno un fondamento scientifico. Quando Paul Crutzen ed Eugene Stoermer coniarono il termine nel 2000, ancor prima di capire se la proposta fosse empiricamente valida o no, si iniziò a discutere di come avremmo dovuto vivere nell’epoca umana, cosa avremmo dovuto fare per uscirne, e se fosse legittimo o meno ricorrere a misure drastiche di geoingegneria per invertire la china. Così, da scienza tradizionalmente constatativa, lontana dai riflettori e abituata a ragionare con pazienza sul passato profondo del pianeta, la geologia si è ritrovata improvvisamente al centro del dibattito intorno alla crisi ecologica e alle misure politiche da adottare per salvare il pianeta. Dal canto suo l’AWG, pressato secondo Damianos dalle aspettative del dibattito pubblico e dall’urgenza di giungere velocemente alla formalizzazione dell’Antropocene, avrebbe fatto di tutto per rendere la proposta dell’epoca umana irrefutabile sul piano procedurale, sebbene alcuni geologi la considerassero del tutto anomala dal punto di vista scientifico.

La pensa diversamente il primo presidente dell’AWG: Jan Zalasiewicz, geologo dell’Università di Leicester che a detta di alcuni colleghi avrebbe la fama d’essere un eccentrico, se non addirittura un provocatore. Nel 2004 Zalasiewicz aveva dato scandalo con un articolo in cui proponeva di rifondare il lessico e le procedure della stratigrafia, poi di nuovo nel 2008 con un libro in cui immaginava quale impronta noi umani potremmo lasciare sulla Terra dopo la nostra estinzione – un esperimento mentale decisamente singolare per i geologi e sgradito ad autorità del settore come Stanley Finney, critico veemente dell’Antropocene nonché segretario generale dell’Unione Internazionale delle Scienze Geologiche. Una volta al comando dell’AWG, contro il parere dello stesso Finney, Zalasiewicz ha deciso di non includere nel gruppo di lavoro solamente geologi e stratigrafi, ma di estendere la partecipazione anche a esperti provenienti da altre discipline. L’apertura dell’AWG ai contributi di umanisti e scienziati sociali ha notevolmente arricchito il dibattito intorno all’Antropocene, al prezzo però di complicarne il già macchinoso processo di formalizzazione. 

“Da scienza tradizionalmente lontana dai riflettori e abituata a ragionare con pazienza sul passato profondo del pianeta, la geologia si è ritrovata improvvisamente al centro del dibattito intorno alla crisi ecologica e alle misure politiche da adottare per salvare il pianeta”.

Teorici del calibro di Dipesh Chakrabarty, Jason Moore e Donna Haraway hanno ad esempio fatto notare che sì, le epoche geologiche hanno tutte un inizio, ma la periodizzazione dell’Antropocene ha implicazioni politiche non trascurabili, perché a date d’inizio diverse corrispondono diverse narrazioni dell’epoca umana. Secondo la celebre “ipotesi Ruddiman”, o dell’Antropocene “remoto”, la nuova epoca avrebbe avuto inizio già nel Neolitico, con la diffusione delle prime pratiche agricole: sono migliaia d’anni che gli esseri umani modificano il pianeta, non tutte le trasformazioni ambientali sono negative, e in ogni caso non c’è motivo di concentrarsi sui cambiamenti recenti della “Grande Accelerazione”. Simon Lewis e Mark Maslin hanno invece proposto di considerare come punto di rottura con l’Olocene l’orbis spike del 1610 successivo allo scambio colombiano di specie tra Vecchio e Nuovo Mondo: se così fosse, l’Antropocene racconterebbe una storia imbarazzante di colonizzazione, sfruttamento e impatto ambientale del capitalismo mercantile già ai primordi della globalizzazione. 

Lo stesso Crutzen aveva indicato di agganciare l’Antropocene alla concentrazione del carbonio atmosferico e dunque al riscaldamento globale, portando la linea d’inizio dell’epoca umana al 1784: l’anno in cui James Watt perfezionò la sua macchina a vapore e diede un impulso decisivo alla rivoluzione industriale. Optando per l’esordio recente in corrispondenza del bomb spike degli anni Cinquanta, l’AWG ha invece enfatizzato quelle che gli scienziati sociali chiamano “trappole del progresso”, vale a dire sviluppi tecnologici che minacciano una regressione su vasta scala per l’umanità. Per non parlare poi del florilegio di appellativi alternativi ad Antropocene che nei vari circoli culturali sono stati proposti per la nuova epoca geologica: Capitalocene, Novacene, Chthulucene e decine di altre etichette, in risposta alla strabordante diversità di vedute sui responsabili della crisi ecologica in corso e sul senso politico da dare all’epoca umana. Dibattiti importanti, che tuttavia hanno interferito col processo burocratico per il riconoscimento ufficiale dell’Antropocene nella Scala dei tempi geologici, e col senno di poi ne hanno forse determinato il fallimento.

Nell’articolo di replica a Damianos, l’AWG smonta l’accusa di aver anteposto finalità politiche alla fondatezza scientifica dell’epoca umana, polemizza contro la fretta con cui è avvenuto il voto che ne ha rifiutato l’approvazione su basi ideologiche, e difende a oltranza la validità empirica dell’Antropocene, corroborata da quattordici anni di ricerche sul campo in vari angoli del pianeta. L’AWG rifiuta anche di derubricare lo status scientifico dell’Antropocene da “epoca” a “evento” analogo ad altri accadimenti del passato che – come il grande evento ossidativo o l’esplosione cambriana – hanno lasciato traccia nei record geologici, ma non hanno richiesto una ratifica ufficiale. C’è chi ha suggerito di distinguere il significato esoterico dell’Antropocene, stabilito dalla comunità di geologi e stratigrafi secondo il proprio statuto disciplinare, dal suo significato essoterico, di dominio comune e non bisognoso di una particolare legittimazione scientifica per esistere. O in alternativa si è detto di considerare l’Antropocene un’epoca “ecologica” e non geologica, per continuare a dare un nome onnicomprensivo all’impatto umano sulla Terra e al modo in cui noi umani ne stiamo determinando il destino.

Da qualche giorno lo stesso Damianos ha dato alle stampe il suo libro-verità sull’operato dell’AWG, e tutto lascia immaginare che seguirà una lunga scia di polemiche e repliche da parte di Zalasiewicz e sodali. Dovranno passare almeno dieci anni prima che gli scienziati possano ripresentare la proposta di includere l’epoca umana nella Scala dei tempi geologici, forti di nuove evidenze raccolte nel fondo limaccioso del lago Crawford o in chissà quale altro hot-spot del cambiamento ambientale. Nel frattempo, c’è da aspettarsi che l’Antropocene non smetterà di essere evocato per raccontare quello che sta succedendo su questo strano pianeta, ma è importante che ciò avvenga senza scivolare nei cliché sulla fine del mondo, senza abusare del concetto e consumarlo fino a perderne il senso. La saga dell’epoca umana, ne siamo certi, continua.

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti ha un dottorato in scienze sociali e si occupa di ambiente, energia, studi sulla scienza e la tecnologia. Scrive per la televisione e per diverse riviste culturali online.

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