Uno studio su 3800 persone in otto Paesi secolarizzati rivela che persino i non credenti nutrono una preferenza inconscia per la fede. La spiegazione possibile? Millenni di evoluzione.
Per molti atei, non credere in una realtà divina è sintomo di maggiore razionalità e concretezza rispetto a chi si definisce credente. Eppure, le religioni sono una componente essenziale della storia recente (nel senso lato del tempo evolutivo) della nostra specie, ed è difficile credere – appunto – che la recente ondata di secolarizzazione possa aver spazzato via un’eredità così profondamente radicata. In effetti, la psicologia conferma che la religione continua a influire sul nostro modo di vedere il mondo: secondo un recente studio pubblicato su «PNAS» nessuno di noi – neppure gli atei più irremovibili – sarebbe del tutto libero da una certa irrazionale simpatia per la religione. Ma procediamo con ordine.
1. Effetto Knobe
Durante i suoi primi lavori di ricerca, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, il filosofo statunitense Joshua Knobe mise a punto un test per analizzare la teoria secondo cui, nel valutare l’intenzionalità delle azioni altrui, le persone non si limitano a valutare gli stati mentali dell’autore dell’azione ma si concentrano anche sul valore morale di quell’azione e dei suoi esiti.
Il test elaborato da Knobe consisteva nel sottoporre a ottanta persone, fermate casualmente in un parco a Manhattan, quattro diverse situazioni, variabili per il grado di moralità dell’azione compiuta e il grado di fortuna necessario per portarla a termine. Alle ottanta persone, Knobe chiedeva di valutare se i protagonisti delle quattro storie avessero agito intenzionalmente o meno. I risultati sono interessanti: solo il 28% dei partecipanti all’esperimento attribuiva intenzionalità all’azione moralmente irreprensibile se questa era stata portata a termine più grazie alla fortuna che alle capacità del protagonista, mentre ben il 76% attribuiva intenzionalità a un’azione il cui successo era altrettanto frutto della fortuna, ma ritenuta immorale. La storia che Knobe sottopose ai passanti era la seguente: immaginiamo una situazione in cui una persona armata di pistola spari a un obiettivo e lo colpisca. Immaginiamo alcune varianti: l’obiettivo del colpo potrebbe essere qualcosa a cui è accettabile sparare (ad esempio, un manichino in un poligono di tiro) oppure qualcosa che è moralmente inaccettabile colpire (ad esempio, un’altra persona). Inoltre, possono variare le capacità del cecchino, che può raggiungere l’obiettivo in quanto abile tiratore oppure soltanto perché baciato dalla fortuna. Ebbene, l’esperimento mostra che le considerazioni sulla moralità di un’azione impattano sul nostro giudizio circa la sua intenzionalità: infatti, i partecipanti all’esperimento attribuivano maggiore intenzionalità all’azione di un tiratore inesperto nel caso in cui colpisse, per caso, una persona (azione moralmente negativa) piuttosto che se colpisse, altrettanto casualmente, un più neutro obiettivo al poligono.
Questo esperimento filosofico è alla base del cosiddetto “effetto Knobe”, che postula che, intuitivamente, gli umani tendono ad attribuire più facilmente intenzionalità all’effetto collaterale di un’azione (effetto che, come suggerisce il termine, non è necessariamente previsto dall’autore dell’azione) se l’esito dell’azione stessa è considerato immorale, piuttosto che a un effetto collaterale che non solleva questioni morali, che è invece più facilmente considerato non intenzionale.
2. Credere nella fede: un fenomeno diffuso
È proprio dell’effetto Knobe (anche noto come side-effect effect, legato, appunto, agli effetti collaterali) che si serve il nuovo studio pubblicato su «PNAS», che analizza quanto sia diffusa, in diversi contesti culturali, una nascosta preferenza per le credenze religiose piuttosto che per l’ateismo.
Il fenomeno del “belief in belief”, cioè del “credere nel credere”, è stato descritto, più di due decenni fa, dal filosofo Daniel Dennett, convinto ateo e antireligioso, il quale sosteneva che tra gli umani fosse molto diffusa una considerazione positiva non tanto dei contenuti specifici delle religioni, quanto dell’attitudine religiosa in sé, perché ritenuta benefica per il vivere sociale, portatrice di conforto di fronte alle difficoltà e dispensatrice di princìpi morali. Secondo i ricercatori, questa ipotesi “può avere importanti implicazioni per lo studio culturale ed evoluzionistico della religione”, e vale dunque la pena metterla alla prova sperimentalmente.
E così hanno fatto: i risultati emergono dall’analisi delle risposte fornite da circa 3800 individui provenienti da otto dei Paesi più secolarizzati del mondo: Canada, Cina, Repubblica Ceca, Giappone, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito e Vietnam. Applicando gli strumenti forniti da diverse discipline (evoluzione culturale, filosofia sperimentale, metodi psicologici transculturali), i ricercatori hanno cercato di comprendere perché il fenomeno del “credere nel credere” esista, come possiamo riconoscerlo, e dove sia possibile individuarne degli esempi.
Per comprendere le motivazioni di questa propensione ad apprezzare il valore socialmente positivo delle credenze religiose, i ricercatori si sono avvalsi di alcune possibili spiegazioni evoluzionistiche. Le religioni sembrano aver avuto un ruolo nel favorire l’incredibile livello di cooperazione e coesione sociale della nostra specie: “Alcune credenze e norme religiose hanno contribuito a rinsaldare la cooperazione tra i gruppi che le condividevano”, scrivono gli autori dell’articolo. “Nello specifico la fede in grandi dèi moralizzatori può contribuire a smorzare gli impulsi egoistici e a mitigare i problemi di free riding che, solitamente, minano la cooperazione nei grandi gruppi”. Tanto è stato pervasivo, storicamente, il ruolo delle religioni nel plasmare la morale delle società umane che, oggi, sembra che molte persone “percepiscano, esplicitamente o a livello intuitivo, la religione come elemento essenziale della moralità, se non come suo sinonimo”. Da qui sorge la convinzione, radicata in molte società, che la mancanza di religiosità in un individuo possa celare anche la mancanza di moralità.
3. Ci siamo evoluti per preferire la fede?
Questo quadro sembra rimanere valido a prescindere dal rapido processo di secolarizzazione che, soprattutto negli ultimi decenni, ha investito molte società umane. Secondo gli autori, questo fenomeno potrebbe essere, paradossalmente, la conseguenza indiretta del successo sociale della religione: grazie alla sua forza di “collante” sociale, le società (soprattutto quelle occidentali) hanno potuto affermarsi e prosperare. Ma, in questo contesto di benessere generalizzato, la religione avrebbe iniziato a perdere la propria funzione consolatoria di fronte alle incertezze della vita.
Il primo effetto di tale allontanamento sarebbe stato una privatizzazione della fede, visibile, ad esempio, nel drastico calo della frequentazione delle funzioni e in un’applicazione molto meno rigida dei dettami religiosi che, in passato, avevano regolato moltissimi aspetti della vita quotidiana. Le generazioni sarebbero state gradualmente meno esposte all’evidenza del fenomeno religioso, e di conseguenza meno inclini ad abbracciare la fede. “In mancanza di indicazioni coerenti verso la fede in un determinato dio, l’ateismo potrebbe essere un risultato naturale. In linea con questo, la mancanza di manifestazioni religiose che ne accrescano la credibilità è emersa come uno stabile fattore predittivo dell’ateismo in campioni rappresentativi negli Stati Uniti, in Repubblica Ceca e in Slovacchia”.
Sulla base di questa ricostruzione, i ricercatori hanno testato l’ipotesi secondo cui, al netto del recente processo di secolarizzazione di molte società, la religione influirebbe ancora – seppure in forma carsica – su credenze e norme sociali. Se così fosse, “ci si potrebbe aspettare che coloro che vivono in società fortemente secolarizzate mostrino, comunque, un certo favore per la religione, seppure a livello intuitivo”. Insomma, proprio la rapidità del processo di secolarizzazione potrebbe aver favorito la permanenza di quelle che gli autori della ricerca definiscono “intuizioni pro-religiose latenti”, che si manifestano in una generale avversione per l’ateismo e nella convinzione (non necessariamente esplicita o razionalmente motivata) che il mondo sarebbe un posto migliore se fosse popolato da più credenti e meno atei. La convinzione implicita che sottende questa idea? Il fatto che proprio la religione sia veicolo di comportamenti prosociali e che, dunque, chi crede sia più propenso a comportarsi “bene”, rifacendosi a dettami morali superiori.
4. Anche gli atei nutrono intuitivi sospetti verso gli atei
È per validare questa ipotesi che torna in campo l’effetto Knobe: i ricercatori hanno replicato, con alcune modifiche, l’esperimento condotto dal filosofo a Manhattan, sottoponendo ai 3800 volontari due esperimenti mentali. La storia è la seguente: un giornalista ha scritto un articolo sulla religione che, una volta pubblicato, aumenterà considerevolmente le vendite del giornale. L’effetto collaterale della lettura di questo articolo è, in un caso, “convincere qualcuno che Dio non esista”, e, nell’altro scenario, “convincere qualcuno che Dio esista”. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare se, in ognuno dei due casi, l’effetto collaterale fosse voluto o meno dal giornalista. Coerentemente con le attese, la presunzione di intenzionalità è risultata molto più forte per lo scenario in cui l’articolo induce all’ateismo che per quello in cui l’articolo induce alla fede, e questa risposta è stata data trasversalmente da persone credenti e atee.
Gli studiosi hanno interpretato questo dato come la manifestazione dell’effetto Knobe per l’ateismo: “Per inferenza – si legge nell’articolo – questo [risultato] suggerisce che, a livello intuitivo, le persone considerano moralmente peggiore (e quindi più intenzionale) l’azione che induce all’ateismo che quella che induce a credere”. In altri termini, i risultati confermano che esiste una preferenza intuitiva per la fede rispetto all’ateismo, e che, inoltre, la prima è associata a qualcosa di positivo, mentre il secondo si ricolleghi a qualcosa di negativo. Tutto questo – è bene sottolinearlo – è valido anche per gli atei.
5. La secolarizzazione, solo un velo sottile
Che le persone nutrano, inconsciamente, maggiore sospetto verso l’ateismo che verso la credenza religiosa è una scoperta a prima vista piuttosto sorprendente, soprattutto se si considera che le risposte sono state raccolte in alcuni dei Paesi più secolarizzati del pianeta. Eppure, secondo gli autori della ricerca, sarebbe stato più sorprendente un risultato opposto: se non avessimo nessun tipo di simpatia per la religione, dovremmo ammettere che più di dieci millenni di religiosità quasi onnipresente non abbiano lasciato alcuna traccia nel nostro modo di interpretare la realtà.
Dunque il belief in belief potrebbe essere interpretato, con buona probabilità, come un retaggio della nostra storia evolutiva recente. Ma ci si può spingere ad affermare che sia una caratteristica innata o istintiva negli esseri umani? I ricercatori sostengono di no: per quanto radicata nella nostra visione del mondo, si tratterebbe, comunque, di un’eredità culturale, tramandata e appresa nuovamente da ogni generazione. “Alcune intuizioni legate alla religione possono nascere facilmente e naturalmente durante lo sviluppo, e successivamente promuovere l’emergere di credenze religiose, purché ci siano un’impostazione e un supporto culturale adeguati”, spiegano gli studiosi. “Altri processi intuitivi (come, secondo noi, il belief in belief) emergono come risultato di un’influenza religiosa pregressa: crescendo in un mondo che è stato plasmato da credenze, pratiche e istituzioni religiose, le nuove generazioni colgono le regolari associazioni culturali tra religione e bontà morale e, di conseguenza, tendono a sviluppare associazioni intuitive in questo senso”. Queste intuizioni di natura morale si mantengono, poi, a prescindere dalla posizione individuale sulla religione maturata nel corso della vita.
L’abbandono della fede e delle pratiche religiose, fenomeno molto evidente in gran parte delle società di oggi, sarebbe dunque, almeno per ora, solo un allontanamento superficiale: sulla base dei risultati raccontati in questo articolo, si può speculare che, ad oggi, la secolarizzazione non abbia intaccato l’eredità culturale profonda delle religioni, attorno alle quali le nostre società sono cresciute fino a oggi.