Gli animali hanno ripopolato i libri. Il loro ritorno tra le nostre letture racconta la ricerca di un nuovo rapporto tra noi e gli altri viventi, per ridimensionare il nostro antropocentrismo.
Le librerie, da qualche anno a questa parte, si stanno popolando di bestiari. Allo stesso ritmo le nostre vite si popolano di notizie su animali, e a volte di animali in carne e ossa. A fine agosto in Abruzzo i carabinieri forestali indagavano sulla morte di un orso trovato a Ortona dei Marsi, in provincia dell’Aquila. Pochi giorni prima, in Val Rendena, un’orsa è stata investita da un’automobile ed è rimasta gravemente ferita. Si discuteva dunque dell’urgenza di creare “corridoi faunistici”, ossia ponti o sottopassaggi per prevenire incidenti. Ad aprile è stato avvistato un lupo a Milano e nel 2024 si è parlato a lungo di Ursula von der Leyen che, per vendicare l’uccisione del suo pony (e forse venire incontro alle pressioni dei pastori), ha declassato il lupo da animale strettamente protetto a solo protetto. Da tempo si discute anche della gang di orche che, apparentemente, attacca gli yacht nei pressi di Gibilterra per vendicare scontri passati. Per non parlare dei dibattiti scatenati dalla morte, nel 2023, di Andrea Papi, ucciso da un’orsa in Trentino.
La crisi climatica è un continuo irrompere, simbolico e concreto, dell’altro nel nostro mondo. Irrompono gli eventi estremi ma irrompe anche il selvatico, e irrompe anche perché – dopo aver cercato a lungo di farlo sparire – l’umano bianco sta capendo di non poterne fare a meno. Nel 1991 il sociologo francese Bruno Latour proponeva un “Parlamento delle cose”, un’immaginaria assemblea generale in cui abbiano voce anche i non-umani, mentre nel 2015 ne La sfida di Gaia, suggeriva di relazionarsi alla Terra non più come un oggetto da dominare ma come un soggetto con cui dialogare, attraverso forme di convivenza multispecie. L’anno seguente usciva Chtulucene, in cui Donna Haraway ci invitava a non affrontare da soli il trauma di questo pianeta ferito e di intessere invece relazioni materiali, affettive e narrative con il non-umano. Da angolazioni diverse, l’urgenza di fondare nuove alleanze si faceva tangibile per “sopravvivere su un pianeta infetto”, come recita il titolo italiano.
Sarà che ci siamo sentiti soli anche noi in quel 2015, quando abbiamo visto la foto di un orso polare magro e stanco su una sottile lastra di ghiaccio.
Nel suo Bestiario artico (Iperborea, 2025), Frank Westerman scrive che “a seconda dei nostri desideri, l’orso polare si è trasformato in un peluche, in un mostro, in una vittima delle emissioni di CO2”. In quel caso l’orso è diventato testimonial della lotta ambientalista, ha permesso di parlare di scioglimento dei ghiacci, di specie in pericolo. Però forse in quella foto ci vedevamo anche qualcos’altro. Ci abbiamo scorto una somiglianza, fra noi e lui – proprio lui, così imponente e feroce, lui che sta al vertice della catena alimentare e non ha predatori: il rischio di una stessa solitudine, di una stessa vulnerabilità.
“I bestiari sono un antidoto alla solitudine e alla vulnerabilità, oltre che una risposta alla crisi climatica”.
La crisi climatica ha fatto irrompere nel nostro campo visivo quell’orso delle Svalbard e le ragioni di Latour e di Haraway. Non importa che, in realtà, la popolazione di orsi polari sia in aumento e che, come racconta lo stesso Westerman, si stia rivelando capace di cambiare dieta secondo necessità. Quell’orso era solo e vulnerabile come lo eravamo diventati noi: umani bianchi, feroci, onnivori, al vertice della nostra personale catena alimentare, ma tristemente isolati sulle nostre sottili lastre di plastica e cemento. Abbiamo tagliato i ponti con tutte le specie non umane, e ora eccoci ad arrabattarci di fronte ai forti venti del cambiamento climatico, assediati dal deserto della perdita di biodiversità, come se, dopo esserci spruzzati litri di DDT tutto intorno, ci fossimo svegliati in una primavera silenziosa e ci fossimo spaventati.
In questa cornice, i bestiari sono un antidoto alla solitudine e alla vulnerabilità, oltre che una risposta alla crisi climatica. La differenza è che la solitudine dell’umano bianco è un pericolo per il pianeta.
I tanti bestiari che arrivano a farci compagnia e a parlarci di animali sono diversi dai bestiari medievali. Se quelli avevano uno scopo educativo, questi hanno a che fare con un bisogno di rieducazione, di riscoperta.
“Riammettere gli altri animali nelle nostre vite (o accorgersi che sono sempre stati lì) è un atto di radicale uguaglianza, di patteggiamento faticoso, di ridefinizione dei limiti, di resa persino” scrive Francesca Matteoni nel suo nuovo libro, uscito a luglio per Nottetempo e intitolato Animali, custodi di storie. È qualcosa che sta cambiando nella nostra cultura e nella nostra capacità di vedere. Come dice Matteoni, gli animali sono sempre stati lì, ma ricominciare a vederli implica una rivoluzione di abitudini e pensiero. Il suo è un esercizio di attenzione e ascolto: camminare nel bosco e ricordarsi degli scoiattoli, sapere qualcosa di loro, per esempio che con la loro coda fanno casa e si proteggono dal sole e dalla pioggia. E poi ghiri, lontre, gheppi, orsi.
A pensarci bene, uscire dalla solitudine è proprio un esercizio di attenzione e ascolto. Non essere soli significa vedere gli altri, conoscerli, rispettare i loro spazi. Paradossalmente, evitare un incontro può essere un atto contro la nostra solitudine. Un riconoscimento della presenza e della dignità dell’altro: non profanare l’areale di un orso, arrendersi al fatto che quel territorio è di sua competenza e che se lo varchiamo è a nostro rischio e pericolo.
Di questa lotta contro la solitudine fa parte anche l’accettazione del nostro sguardo inguaribilmente umano. “A quali profondità scorre la storia che collega le balene agli esseri umani?” si chiede Rebecca Giggs nel suo splendido libro sui cetacei, Le regine dell’abisso. Westerman le fa eco nel Bestiario artico: “È davvero possibile sfuggire allo «sguardo umano»? Alla fine, tutto ciò che si dice sugli animali non riguarda in realtà gli esseri umani, un po’ come nelle fiabe?”. Westerman racconta storie che intrecciano la migrazione delle anguille e il movimento operaio olandese, oche a rischio estinzione e gulag sovietici, narvali e terroristi. Scava nelle vite di orsi polari e lemming perché scoprire le connessioni fra noi e le altre specie ci aiuta a “sottolineare quanto siano vaste le nostre vite”. Non sapremo mai cosa si prova a essere una megattera, un lemming, uno scoiattolo. Riempiamo le nostre librerie di bestiari per essere più vasti e meno soli.
Non tanto per costruire un Parlamento delle cose alla Bruno Latour che tanto, osserva Westerman, “resterà comunque un parlamento delle persone, anche se i deputati si travestono da corvi o conchiglie”. Più interessante è la proposta degli Yanomami, riportata dallo sciamano Davi Kopenawa e dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro: dovremmo percepire ogni specie come specie umana, che è un po’ come dire che ogni specie si percepisce come soggetto. Avremo così una specie umana dei gatti, una specie umana delle balene, una specie umana degli umani, o degli alberi. Come ogni persona sa che ogni altra si percepisce come soggetto, così ogni specie è consapevole della relatività del proprio, seppur unico, punto di vista. Questa visione si chiama prospettivismo amazzonico. Se ciascuna specie vede se stessa come umana, i rapporti tra specie non possono che stipularsi alla pari, come rapporti fra nazioni.
Il tutto da intendersi senza la pretesa di poter “lasciar parlare” gli orsi, perché sappiamo parlare degli orsi solo in relazione agli umani. Lo sforzo che dobbiamo fare è di pensarli come nostri pari, né peluche né mostri, sottoposti a leggi, percezioni e immaginari diversi dai nostri. Interlocutori o alleati con cui vivere in questo pianeta, infettato da noi ma infetto per tutti.
Westerman parlava di fiabe. Spesso nelle fiabe, per riportare l’equilibrio nel mondo, bisogna liberare una fanciulla rinchiusa in una torre. Questa volta è l’umano bianco a essersi chiuso in una torre. Tutti questi bestiari, questi libri e intere collane dedicate agli animali, e questa irruzione di orsi e lupi nelle nostre vite e sulle pagine dei giornali, sono corde che ci vengono lanciate per calarci dalla torre, rimettere i piedi a terra, così che il mondo si possa riparare.
 
  
  
  
  
  
 