Un movimento di protesta ha fatto crollare le azioni dell'azienda di Elon Musk. Alla sua base, c'è il rifiuto di una transizione ecologica guidata dalla fame di profitto.
È successo l’inimmaginabile (o forse no?) nei primi cento giorni del secondo mandato di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e nei primi cento giorni del suo maggiore finanziatore in campagna elettorale, Elon Musk, come consulente scelto di governo. Quella di Trump e Musk si è rivelata essere da subito l’amministrazione della furia riformatrice, della distruzione reazionaria, della tecnocrazia libertaria che si mette prepotentemente al comando, ma anche dell’esaltazione spaccona di questa nuova specie di “oligarchi intellettuali” ormai assurti al potere. La mossa per ora più discussa del duo Trump-Musk è stata l’istituzione del “Dipartimento per l’Efficienza Governativa”, il fantomatico DOGE che vorrebbe tagliare la spesa federale di mille miliardi di dollari ma nella realtà ha scatenato un pesante – e prevedibile – backlash nei confronti della principale fonte di reddito per Musk, la Tesla.
Negli ultimi mesi il risentimento verso l’insolenza con cui l’uomo più ricco del mondo si è fatto largo nella politica americana e internazionale si è condensato in un tenace movimento di protesta, il TeslaTakedown, che ha dato il la a numerose azioni di guerrilla marketing, boicottaggi e atti vandalici, il più eclatante dei quali a Roma, con l’incendio di diciassette automobili Tesla rivendicato dagli anarchici. “Fck Elon”, “Don’t Buy a Swasticar”, “Musk B-Gone”, “Everyone Hates Elon” sono alcuni degli slogan ormai virali del movimento no-Musk, a sentire i quali si ha l’impressione che il malcontento covasse da tempo e attendesse solo l’occasione buona per scoppiare. Com’è potuto accadere che, nel volgere vorticoso degli eventi, l’X-Man dei giorni nostri si sia trasformato da supereroe a supercattivo? Com’è nato, e cosa esprime, il sentimento anti-Musk oggi dilagante?
È una domanda che la storica Jill Lepore si poneva già prima della rielezione di Trump e dell’avvento in politica del CEO di Tesla. In anni recenti, infatti, in maniera sempre più netta e deleteria per la sua immagine pubblica, Musk si è progressivamente schierato in favore delle politiche alt-right, sino al punto di sostenere apertamente Trump e altri leader sovranisti in giro per il mondo. La propaganda oscena su X col video megalomane “Trump Gaza”, ma soprattutto quel braccio alzato in un saluto nazista nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca sono stati solo l’ulteriore, sconvolgente evoluzione di un processo già da tempo in moto. Il “saluto infausto”, come lo chiama il sociologo Tilman Allert nel suo Heil Hitler! (2008), oggi come sempre presagio di sventura per chi lo compie e per chi lo osserva.
“Com’è potuto accadere che, nel volgere vorticoso degli eventi, l’X-Man dei giorni nostri si sia trasformato da supereroe a supercattivo?”
In un’accurata analisi delle ragioni che hanno spinto in molti a boicottare Tesla, Nathan Robinson ha sottolineato l’evidente contraddizione tra l’avvicinamento alla destra americana di Musk e il negazionismo climatico di Trump, tra il suo posizionamento nel polo conservatore dello spettro politico e l’orientamento progressista degli acquirenti di Tesla. “L’allineamento politico a destra di Musk è un disastro per il marchio Tesla”, scrive Robinson, “perché il prodotto che vende sono le auto elettriche, e ciò significa che i suoi acquirenti più probabili sono i democratici. Il Partito Repubblicano non vede di buon occhio le auto elettriche e ha promesso un futuro fossile”. Dopotutto, le Tesla combinano distinzione sociale e primato morale, per chi le possiede sono un simbolo di status ma anche un’affermazione delle proprie virtù ecologiche. Il successo planetario del marchio è stato costruito su un ribaltamento di senso che, come fatto notare dallo storico Adam Tooze, è stato a lungo il sogno irrealizzato dei verdi progressisti: “from duty to beauty”, la decarbonizzazione attraverso l’elettrificazione dei trasporti che da obbligo diventa moda, tendenza, dunque aspirazione.
Chi scrive questo articolo ha nel proprio garage un sistema di accumulo Tesla installato “prima che Musk impazzisse”, com’è d’obbligo dichiarare oggi per disconoscere ogni simpatia verso il genio del male. È un apparecchio notevole per prestazioni e design, occupa lo spazio di un termosifone e per nove mesi l’anno ci permette di ricavare l’elettricità quasi esclusivamente dall’energia solare che piove sul tetto di casa. Dopo che Musk si è compromesso con l’estrema destra, però, dirsi utenti della Tesla suscita un certo imbarazzo anche in quanti hanno creduto nella transizione energetica a fronte di notevoli sacrifici. L’errore di Musk è stato anzitutto questo: tenere pericolosamente insieme elettori di Trump e democratici verdi in una chimera politica assurda, proprio come il suo orribile Cybertruck. Da quando sono cominciate le campagne di boicottaggio, le vendite e le azioni di Tesla sono crollate con una rapidità che non ha precedenti nella storia dell’industria automobilistica americana.
Secondo Robinson, chi boicotta oggi la Tesla perché Musk si è schierato dalla parte dei suprematisti ricorda un po’ quanti boicottarono Ford perché filonazista: opporsi a Musk non vuol dire essere necessariamente contro le auto elettriche, proprio come come criticare Ford non significava essere contro i motori termici. Eppure, il movimento no-Musk sembra avere radici e ragioni ben più profonde, innanzitutto perché i prodotti Tesla sono cari e non tutti possono permetterseli. L’ascesa spettacolare del marchio cinese BYD spaventa tanto Elon Musk perché si tratta di auto elettriche molto meno costose, in grado di rendere la transizione elettrica più accessibile. Col senno di poi, era inevitabile che gli interessi autarchici del MAGA (“Make America Great Again”) di Trump e quelli patrimoniali di Musk convergessero nella guerra dei dazi che gli Stati Uniti hanno dichiarato alla Cina, e in special modo ai produttori di auto elettriche concorrenziali a Tesla come BYD.
“Da quando sono cominciate le campagne di boicottaggio, le vendite e le azioni di Tesla sono crollate con una rapidità che non ha precedenti nella storia dell’industria automobilistica americana”.
Musk suscita tanto sdegno perché incarna una visione della transizione energetica che antepone il profitto alla sostenibilità, una transizione che può arricchire in maniera vertiginosa chi la governa da una posizione di vantaggio e perciò vede nella regolamentazione una necessità solo quando sono i suoi profitti a beneficiarne, anche se al prezzo di una crescita scandalosa delle disuguaglianze. Meno regole e più profitti, più in fretta: è l’essenza del fondamentalismo di mercato, come spiegano bene Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro The Big Myth (2023). Il problema non è il “Big Business”, ma il “Big Government”: bisogna smantellare lo stato in ogni sua articolazione, dagli aiuti umanitari alle agenzie per la tutela ambientale, e lasciare che siano gli interessi privati delle grandi aziende a guidare la transizione energetica, così come la ricerca scientifica e la nuova corsa allo spazio. “È il mito secondo il quale i mercati sono efficienti e i governi inefficienti”, scrivono Oreskes e Conway, “i mercati funzionano e le politiche pubbliche no. È il mito per cui otteniamo tutti il meglio quando il governo si toglie di mezzo e lascia al mercato fare la propria magia”. Katharine Jackson ha parlato di corporate populism, di demagogia degli oligarchi, per dire come Musk abbia da sempre cercato di sedurre le masse combinando il fondamentalismo di mercato alle sue distopie tecnologiche.
Nei fatti, Musk non si accontenta di mettersi al comando della transizione energetica: vuole anche prendere il controllo di internet con Starlink, la rete satellitare. La connessione via cavo è veloce e sicura, ma non è possibile estendere la fibra ottica negli angoli più remoti del pianeta, men che meno nello spazio orbitale. Presto i cavi oceanici e sotterranei che rappresentano oggi la spina dorsale di internet potrebbero essere abbandonati in favore dell’infrastruttura satellitare, già quasi interamente dominata da Starlink. SpaceX è in grado di fabbricare quattro nuovi satelliti Starlink al giorno, e il razzo riutilizzabile Falcon 9 può portarne in orbita fino a venticinque con un solo lancio: nessun’altra azienda del settore o agenzia aerospaziale governativa ci riesce. Di recente Trump ha cancellato un investimento federale di 42 miliardi di dollari per estendere la banda larga nelle aree rurali degli Stati Uniti, orientando a favore di Musk lo sviluppo dell’infrastruttura internet. Se la crescita di Starlink dovesse continuare senza alcun freno e addirittura con la connivenza dei capi di governo, Musk potrebbe ritrovarsi ad avere più potere sullo scambio umano di informazioni di quanto ne abbia mai avuto chiunque altro.
“E se Musk fosse un moderno Icaro, pronto a lanciarsi così vicino al Sole da portare alla rovina lui stesso, i suoi tirapiedi, e tutti noi?”
C’è poi Marte, la promessa della civiltà multiplanetaria e quello che Naomi Klein e Astra Taylor hanno definito il “fascismo millenarista” degli anarcocapitalisti americani. Per Musk colonizzare Marte rappresenta un’ipoteca per il futuro dell’umanità, il cui destino sarebbe altrimenti segnato. Tra qualche miliardo di anni, lo sappiamo, il Sole si gonfierà, prosciugherà le acque della Terra e da ultimo la inghiottirà, sempre che nel frattempo un asteroide non collida con il nostro pianeta devastandone la tecnosfera. Ben prima che ciò accada, forse nel giro di qualche decennio soltanto, è probabile però che saremo noi umani con le nostre emissioni a rendere la Terra inabitabile anzitempo. Se vogliamo sopravvivere come specie, ci insidia Musk, dobbiamo andarcene da questo pianeta maledetto, dobbiamo iniziare ad allestire il grande esodo planetario che farà vivere altrove i nostri discendenti. Già un decennio fa, con un paragone biblico Ross Andersen accostava Musk e la sua utopia di una diaspora interplanetaria a Noè e all’ossessione di costruire l’arca per salvare l’umanità dalla catastrofe, ma anche a Mosè e alla sua visione di una via della salvezza attraverso le lande desolate fino alla terra promessa. E se invece Musk fosse un moderno Icaro, domandava Andersen, pronto a lanciarsi così vicino al Sole da portare alla rovina lui stesso, i suoi tirapiedi, e tutti noi?
In chi si oppone Musk c’è da considerare infine Neuralink, la società di interfacce cerebrali che nel 2024, dopo anni di crudeli sperimentazioni sugli animali, ha attivato i propri dispositivi nei primi pazienti umani volontari. Ai loro cervelli è stato cucito un chip chiamato “Telepathy” per controllare con il pensiero un computer, e magari in futuro anche un arto robotico, o perché no un robot intero, o un esercito di robot. Neuralink non è l’unica azienda privata a spingere per l’impianto di computer nel cervello delle persone, ma certo è la più controversa. Perché? Il motivo principale è che Musk non ha mai fatto mistero delle proprie mire transumaniste: i pazienti tetraplegici sono solo una nicchia di mercato transitoria per deregolamentare, accelerare e rendere accettabile lo sviluppo delle interfacce cerebrali, mentre il vero obiettivo è il potenziamento umano di un’élite di soggetti normodotati. Musk considera l’intelligenza artificiale una minaccia esistenziale, ma sa anche che non c’è modo di fermarla, per cui tanto vale fonderci con essa per ripristinare il nostro vantaggio evolutivo sulle intelligenze non umane. C’è un’ideologia di fondo che lega le auto elettriche a Marte, i satelliti alle interfacce cerebrali, e che potremmo chiamare il “trionfo del più ricco”. D’altro canto, come non biasimare colui che la predica con tanta protervia?