L'Amazzonia è molto più di un mero insieme di risorse. Per i popoli che ci abitano, proteggerla significa difendere la propria stessa vita.
A lungo definita “il grande vuoto”, l’Amazzonia è invece molto abitata. Per secoli, esploratori, colonizzatori e, in seguito – almeno in Brasile –, anche la dittatura militare del 1964-1985, hanno considerato la grande foresta come un territorio selvaggio e disabitato. Un vuoto appunto, da riempire con la loro presenza e le loro attività. L’immagine di una foresta inospitale, pericolosa, spopolata e inutile è servita spesso per giustificarne l’abuso.
La storia dell’occupazione umana dell’Amazzonia è iniziata, per quanto ne sappiamo, almeno dodicimila anni fa. In questo lasso di tempo, i suoi popoli originari, le popolazioni indigene, hanno sviluppato società complesse, culture, tradizioni e sistemi di conoscenza, hanno modificato il territorio e avuto impatto sull’ecologia della regione che ancora oggi abitano, insieme però a nuove popolazioni.
Con la colonizzazione europea del XVI secolo iniziò un processo di miscelazione. I coloni, in Brasile principalmente portoghesi, iniziarono a interagire e a mescolarsi con le popolazioni indigene e la tratta atlantica degli schiavi portò in Amazzonia molti africani. Quelli che riuscirono a fuggire dalla schiavitù si nascosero nella foresta e fondarono insediamenti che erano anche rifugi e centri di resistenza, dando origine alla popolazione quilombola. Oppure si mescolarono con gli indigeni e con i discendenti europei, e da qui la nascita della popolazione caboclo. In entrambi i casi si tratta di popolazioni con caratteristiche uniche, che hanno saputo adattarsi all’ambiente amazzonico e sviluppare una propria identità culturale e sociale.
“A lungo definita “il grande vuoto”, l’Amazzonia è invece molto abitata”.
L’industria della gomma e la dittatura militare fecero poi la loro parte. Già alla fine del XIX secolo, il boom mondiale del caucciù portò un’ondata di migrazione verso l’Amazzonia, con conseguente invasione di regioni remote e territori indigeni, una spinta che continua ancora oggi secondo dinamiche nuove, legate all’estrazione di legname, minerali e altri prodotti forestali.
Il ventennio di dittatura promosse a sua volta l’occupazione dell’Amazzonia incoraggiando la migrazione da altre regioni del Paese attraverso la costruzione di infrastrutture e strade e con programmi di colonizzazione agraria. La promessa non mantenuta di sviluppo e di riscatto dalla povertà portò molte persone arrivate nella foresta a resistere alle avversità del nuovo mondo sconosciuto adattandosi allo stile di vita locale e diventando ribeirinhos, una popolazione che abita oggi le rive dei fiumi amazzonici e ha sviluppato una profonda connessione con l’ambiente fluviale e un singolare adattamento ai cicli annuali di piene e siccità.
Oggi i popoli della foresta sono un grande insieme di etnie indigene, quilombola, caboclo e ribeirinho. Sono definiti “popolazioni tradizionali” e sono considerati i guardiani della più grande foresta tropicale rimasta sul pianeta. Ma come fanno? E come si concilia la protezione della foresta con le esigenze dei suoi numerosi abitanti umani?
La storia della conservazione ambientale nel mondo ha evidenziato che l’espulsione delle popolazioni locali dai loro territori per creare aree protette è inefficace e spesso dannosa. In Amazzonia, un sistema nazionale che stabilisca criteri e norme per la creazione e la gestione delle aree protette è arrivato soltanto nel 2000, proprio mentre io arrivavo per la prima volta nella foresta che sarebbe poi diventata la mia casa. Lo SNUC, il Sistema Nazionale di Unità di Conservazione, assicurò finalmente la partecipazione di tutte le parti interessate, inclusi i popoli della foresta.

Edoardo Yun, 1999
Vivere in Amazzonia, spesso, significa vivere in isolamento. Centinaia di chilometri di distanza possono separare un villaggio dell’entroterra da una grande città, e la differenza tra i due insediamenti umani è sostanziale. Quello in cui vivo io, per esempio, ha appena sessanta abitanti, quasi la metà bambini. Non ha strutture di cemento a parte una chiesa evangelica costruita anni fa da alcuni missionari. Tutte le case sono in legno, rialzate dal terreno, palafitte. Niente strade, auto o moto, usiamo solo mezzi fluviali. C’è una scuola di una sola aula in cui si affollano bambini dalla materna alla quinta elementare, con un solo maestro che passa la metà del tempo a richiamare i piccoli che disturbano i grandi. Nessun negozio, nessun ufficio postale o infermeria. Foresta primaria su tre lati, il fiume davanti.
La proprietà privata è un concetto limitato agli oggetti: la casa, la canoa, il remo. Lo spazio intorno a noi invece è collettivo e viene usato secondo princìpi molto diversi da quelli urbani. I miei vicini di palafitta sono cacciatori, raccoglitori, praticano la pesca artigianale e l’estrazione di prodotti forestali, tutte attività che non si conciliano con spazi limitati e proprietà definite. Difficile stabilire regole se non si conoscono gli usi e i costumi locali, si rischiano errori grossolani.
“La proprietà privata è un concetto limitato agli oggetti: la casa, la canoa, il remo. Lo spazio intorno a noi invece è collettivo e viene usato secondo princìpi molto diversi da quelli urbani”.
Per questo, già negli anni Ottanta, un difensore dei diritti delle popolazioni tradizionali elaborò un nuovo concetto di protezione ambientale. Leader sindacale e ambientalista brasiliano, Chico Mendes fu assassinato nel 1988 per la sua lotta in difesa dell’Amazzonia ma lasciò in eredità un modello di conservazione ambientale che coniugava la protezione della foresta con i diritti dei suoi popoli: la riserva estrattiva, espressione che in Brasile è abbreviata come RESEX. Ci vollero quasi vent’anni perché lo SNUC formalizzasse il modello di area protetta, fornendo linee guida per la sua creazione e gestione. Per il pubblico italiano, può essere utile immaginare una RESEX come un parco nazionale con una caratteristica unica: al suo interno, le comunità umane non solo vivono, ma sono le vere protagoniste della conservazione. Hanno il diritto di continuare a praticare le loro attività e di vivere in uno spazio condiviso, in cui le decisioni sono collettive e il territorio non è frammentato tra proprietari.
Al confine tra gli stati brasiliani di Amazonas e Roraima, i miei vicini di palafitta e un gruppo sempre crescente di indigeni, caboclos e ribeirinhos provenienti da comunità limitrofe ha lottato strenuamente per diciassette anni per proteggere la regione, la cui ricchezza naturale attraeva interessi di diversi settori della società: compagnie di legname, bracconieri, governi locali e addirittura il ministero delle Infrastrutture, interessato a sbarrare il corso del fiume per generare energia elettrica. Da questa lotta è nata la RESEX dello Jauaperi. Finalmente creata nel 2018, con un’estensione di 580.630 ettari ospita poco più di mille persone raggruppate in quattordici comunità tradizionali e alcuni insediamenti isolati, un piccolo variegato campione di popoli della foresta, ognuno con la propria cultura e tradizioni.
Nel febbraio scorso un evento ha segnato l’inizio di una nuova era per tutti noi: il consiglio deliberativo della RESEX dello Jauaperi si è riunito per la prima volta. A maggioranza composta da rappresentanti delle comunità locali, prende decisioni su tutte le questioni che riguardano la vita nell’area protetta, e con la partecipazione di pochi e selezionati rappresentanti del governo e di organizzazioni della società civile definisce le linee guida e stabilisce le attività consentite e le modalità di utilizzo delle risorse naturali. Le sue dimensioni dipendono dalla specifica realtà locale, noi ne abbiamo costruito uno con trentotto seggi, ognuno con due rappresentanti eletti. La cerimonia di insediamento, che aspettavamo da sette anni, è stata molto, molto emozionante. Per due giorni, abitanti di tre diversi fiumi, provenienti da villaggi distanti giorni di navigazione, si sono riuniti per identificare problemi e conflitti e discutere le principali sfide da affrontare, tra cui il bracconaggio, la pesca di frodo, il furto di legname pregiato, la mancanza di infrastrutture di base. Ma anche per trovare soluzioni tra le tante opportunità che una foresta intatta offre per uno sviluppo sostenibile, che valorizzi le risorse naturali e le conoscenze tradizionali.
I giovani, che erano bambini quando i loro genitori e parenti iniziarono a mobilitarsi per la creazione della RESEX, hanno incontrato gli anziani di cui sentivano raccontare, i leader che viaggiavano tra i villaggi per raccogliere adesioni all’idea e fino a Brasilia per difenderla nei palazzi di potere. Non poteva mancare un tributo e giuste lacrime nel ricordare chi non c’è più ma è stato fondamentale e protagonista. Sono stati giorni ricchi di dialogo e costruzione di intese comuni. I concetti di rete, connessioni e coesistenze qui fanno parte della quotidianità, è chiaro a tutti che il singolo ha bisogno del collettivo per farcela, qualunque sia il suo obiettivo. Un’antica saggezza ecologica, tramandata di generazione in generazione, permette di comprendere i cicli naturali, le interazioni tra le specie e l’importanza di preservare gli equilibri.
“Per i popoli amazzonici la foresta è molto di più, la foresta sono loro stessi, per questo sanno come proteggerla”.
Le idee erano tantissime e la parte più difficile è stata stabilire delle priorità. A partire dalla raccolta di frutti selvatici, di noci, di fibre e di resine, alla produzione di oli essenziali – medicinali o richiesti dalla gastronomia –, dalla pesca artigianale per il commercio regolamentato alla gestione dei laghi e delle spiagge per la deposizione delle uova di tartaruga, dall’ecoturismo comunitario alla produzione di artigianato da semi e legno morto, passando per le nuove possibilità offerte dal mercato della riforestazione che ha bisogno di sementi e di piantine di specie native, per arrivare un giorno, chissà, al mercato dei crediti di carbonio e al pagamento per gli innumerevoli servizi ambientali che questa foresta e tutti i suoi abitanti, umani e non, offrono al pianeta. Un no collettivo è stato pronunciato per il bracconaggio, per il prelievo indiscriminato delle risorse e per il traffico di specie selvatiche e di legname pregiato, perché l’intento comune è garantire che questa foresta resti esattamente così com’è: ricca, intatta e lussureggiante.
La creazione del consiglio deliberativo della RESEX dello Jauaperi è un tributo all’eredità di Chico Mendes e alla sua visione di un’Amazzonia dove i popoli della foresta sono protagonisti della conservazione. Ma è soprattutto un diritto per il quale i custodi di questa foresta hanno lottato, unendosi al coro di popoli tradizionali che, in tutto il mondo, chiede di smetterla di guardare al pianeta come un mero insieme di risorse da piegare alle nostre esigenze. Per i popoli amazzonici la foresta è molto di più, la foresta sono loro stessi, per questo sanno come proteggerla.
In copertina: foto di Francisco Chaves, via Flickr