Articolo
Emanuela Evangelista
Come proteggere l’Amazzonia

Come Proteggere L’amazzonia Cover Evangelista
clima natura politica

Possiamo ancora fare molto per salvare la foresta, e lei può fare moltissimo per noi: le soluzioni possibili sono tante e urgenti, perché dalla sua sopravvivenza dipende quella dell'intera umanità.

#PrayForTheAmazon, pregate per l’Amazzonia, suggeriva un hashtag diventato virale nel 2019 durante un’ondata di incendi record che devastava la foresta. Senza nulla togliere alla fede e alla preghiera, per affrontare il possibile collasso della foresta amazzonica servono azioni concrete. Dal punto di vista ambientale la risposta sarebbe anche semplice: fermare la deforestazione e riforestare. Se non fosse che le cause del degrado sono profondamente radicate in dinamiche sociali, economiche e politiche. Spostiamo allora il nostro sguardo sulle possibili soluzioni e addentriamoci nelle strategie pratiche, locali e globali, che possono offrire un futuro a questo bioma vitale. 

Deforestazione zero. Difendere quel che resta è la prima e più ovvia azione da compiere, e nessuno sa farlo meglio dei popoli della foresta, come dimostrato da numerose ricerche scientifiche. Comparando i tassi di deforestazione all’interno e all’esterno delle aree protette e dei territori indigeni si è dimostrato il ruolo fondamentale delle popolazioni tradizionali nella conservazione della foresta e della sua biodiversità. La RAISG, un consorzio di organizzazioni della società civile e istituzioni di ricerca provenienti dai nove paesi che compongono la Pan Amazzonia, ha analizzato la deforestazione nell’intero bacino fino al 2023, e il suo report giunge alla stessa conclusione: i territori indigeni e le aree protette mostrano una notevole resilienza rispetto alle aree circostanti. 

Uno studio in particolare ha analizzato la copertura vegetale in quattro aree protette dello stato brasiliano del Maranhão, dove inizia l’Arco di deforestazione, tramite l’elaborazione digitale di immagini satellitari dal 1984 al 2017. Le scansioni permettono di vedere chiaramente, come in un cartone animato, cosa è avvenuto nella regione in trent’anni: si distinguono il disboscamento, la successiva apertura di strade e autostrade, la lottizzazione dei terreni, la costruzione di dighe, l’espansione urbana, l’avanzamento della frontiera agricola e di quella mineraria. La ricerca conclude che, della poca vegetazione rimanente in tutto lo stato, il 76,41% si trova all’interno delle aree protette e delle terre indigene. Nelle immagini satellitari appaiono come rombi verdi incastonati in un mare giallo, barriere vive contro la deforestazione che le circonda su ogni lato. Sebbene vengano costantemente invase, tagliate e bruciate criminalmente, le aree abitate da popolazioni tradizionali rappresentano ancora il modo migliore per preservare gli ultimi frammenti di Amazzonia. Il successo è attribuito soprattutto alla gestione comunitaria del territorio, possibile grazie al riconoscimento dei diritti fondiari collettivi. Nella visione dei popoli della foresta, la terra è un bene comune e non può essere posseduta da un singolo. Si evita così l’abuso di pochi a scapito della collettività. 

La formula per la protezione della foresta è riconoscere la sua ricchezza intrinseca. Serve cambiare il paradigma che la considera “improduttiva”, capace di generare economia solo quando è rasa al suolo e sostituita da un pascolo, perché può essere molto produttiva se si guarda alla sua biodiversità. La foresta è ricca di semi e bacche energizzanti come il guaranà e l’açaí, di oli essenziali e resine terapeutiche come l’andiroba e la copaiba, di estratti cosmetici come il burro di murumuru e il pracaxi, è ricca di noci, di frutta supervitaminica come il cupuaçu e il camu-camu e di superfood come la bacaba. E ancora, abbonda di fibre e liane resistenti per creare prodotti artigianali, di fitoterapici e tossine naturali utili per lo sviluppo di farmaci, molti già utilizzati dalle comunità locali e altri ancora da scoprire e studiare. Semi e piantine di specie native possono essere certificati e commercializzati nel mercato della riforestazione. Api senza pungiglione producono un miele delizioso, un ricchissimo stock ittico può essere prelevato con controllo e alcune specie si prestano anche all’allevamento come le tartarughe d’acqua dolce. 

Anche l’alta gastronomia sta scoprendo i sapori e gli ingredienti dell’Amazzonia. Nel 2024 ho partecipato a un pranzo di benvenuto per il presidente Sergio Mattarella a Brasilia. La visita era molto attesa, anche perché il Brasile non riceveva un capo di stato italiano da 24 anni. Nel bellissimo palazzo di Itamaraty il pluripremiato chef Felipe Schaedler ha stupito gli invitati con un menù totalmente amazzonico e piatti sofisticati a base di pesci di fiume, mousse e salsa fermentata di farina di manioca, squisite formiche dal gusto di lemon grass (di cui si nutrono), spezie e aromi unici, bacche della foresta, gnocchi di banana e funghi Yanomami. 

“Serve cambiare il paradigma che considera “improduttiva” la foresta, capace di generare economia solo quando è rasa al suolo e sostituita da un pascolo, perché può essere molto produttiva se si guarda alla sua biodiversità”.

Oltre a generare reddito e preservare l’ambiente, la bioeconomia (modello economico che utilizza le risorse forestali) rispetta lo stile di vita delle popolazioni tradizionali. 

Dove questo tipo di sfruttamento sostenibile ha permesso l’avvio di filiere produttive, esistono esempi incoraggianti che forniscono un reddito per ettaro significativamente più alto rispetto all’agroindustria classica. 

Frutti come l’açaí, il cacao o le noci del Brasile hanno un valore di mercato molto più elevato per unità di massa rispetto alla carne bovina. L’allevamento estensivo in Amazzonia genera un reddito netto tra 30 e 100 dollari per ettaro all’anno. L’açai parte da 200 e può arrivare a 6.000 dollari per ettaro, dipendendo dall’accesso ai mercati e dal sistema di gestione (tradizionale vs. coltivazione più intensiva). Sistemi agroforestali a base di cacao possono generare un profitto netto tra quattro e sei volte superiore a quello dell’allevamento di bestiame. 

Nemmeno l’allevamento richiede necessariamente la deforestazione. Nei sistemi silvopastorali, anziché su pascoli aperti e spogli, gli animali brucano tra gli arbusti e all’ombra degli alberi che riducono lo stress da calore, portano a un aumento del peso e della produzione di latte e possono offrire ulteriori prodotti utili, come frutta e foraggio aggiuntivo.

Riconoscere alla foresta il suo valore vuol dire anche riforestare. Nel mondo scientifico c’è un crescente riconoscimento che la sola riduzione del disboscamento non sarà sufficiente a evitare il raggiungimento del punto di non ritorno – soglia critica raggiunta la quale la foresta pluviale inizierà a trasformarsi in un ecosistema arido. È necessario rigenerare la foresta, ripristinare le aree degradate, ricreare gli ecosistemi persi. Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, il Brasile si è impegnato a ricostituire 12 milioni di ettari di foreste entro il 2030. Si tratta di poco più di un terzo della superficie dell’Italia, appena l’1,4% dell’intera Pan Amazzonia. Sebbene non ci sia una percentuale ufficiale universalmente concordata, molteplici studi suggeriscono che un traguardo più realistico per assicurare la stabilità a lungo termine del bioma dovrebbe attestarsi tra il 5 e il 10%. Nondimeno, diverse iniziative sono già in corso in questa direzione e usano metodi di riforestazione attiva come la piantagione di alberi oppure metodi di rigenerazione naturale assistita, come la Muvuca, “folla” in portoghese. Per un abitante di Rio de Janeiro, il termine descrive una festa animata, con molte persone accalcate che ballano samba. In Amazzonia, si riferisce a un metodo indigeno di semina. Un diverso tipo di festa. Dopo un’intensa attività di raccolta, i semi di varie specie autoctone vengono ammonticchiati su un telo. Hanno tanti colori e forme – verdi, rossi, gialli, marroni, tondi, schiacciati o affilati – e, suddivisi per tipologia, sembrano un bellissimo mandala. La festa inizia quando tante mani, tutte insieme, iniziano a mescolarli alla rinfusa, tra di loro e con la sabbia e altro materiale organico per poi spargerli a pioggia sull’area degradata. Il mix di semi include specie con diversi tassi di crescita ed esigenze: da quelle pioniere a crescita rapida, a specie di arbusti e alberi a medio e lungo termine che formeranno la foresta matura. Questa miscela densa e diversificata mima i meccanismi naturali di rigenerazione e il risultato è una foresta ricca e complessa, simile all’ecosistema originale.

La foresta ha una sorprendente capacità di rigenerarsi naturalmente se le condizioni sono favorevoli. La rigenerazione naturale assistita implica interventi minimi per accelerare questo processo, come la semina aerea tramite droni, la rimozione di erbe infestanti e l’utilizzo di tecnologie per monitorare la crescita e proteggere le piantine giovani. 

Il restauro ecologico è possibile anche attraverso forme di agro-forestazione che, come la Muvuca, non si limitano a piantare alberi ma ripristinano le funzioni proprie di una foresta imitandone la crescita. Immaginiamo una fattoria in un’area dell’Amazzonia che un tempo era foresta, poi trasformata in un pascolo per il bestiame e ora parzialmente abbandonata o poco produttiva. Invece di continuare con il vecchio paradigma, il proprietario implementa un sistema agro-forestale e pianta alberi nativi disposti in modo irregolare, come in una foresta naturale. Tra le specie scelte ci sono alberi e palme da frutto, specie da legname a crescita rapida, vegetazione che migliora la fertilità del suolo, piante che beneficiano dell’ombra parziale, come il cacao e il cupuaçu e piante medicinali e spezie come lo zenzero o la curcuma. Nei primi anni, prima che gli alberi crescano troppo, si possono coltivare manioca, mais o fagioli, che forniscono un reddito immediato. A medio termine, le piante da frutta offrono un reddito più stabile. Il suolo migliora grazie all’apporto di materia organica dalle foglie cadute e dalla fissazione dell’azoto. La biodiversità aumenta, tornano uccelli e insetti. A lungo termine, dopo 10-15 anni, gli alberi da legname raggiungono le dimensioni per diventare una risorsa di alto valore economico. L’ecosistema è più stabile, resiliente ai cambiamenti climatici e produce una varietà di beni e servizi ambientali.

“Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, il Brasile si è impegnato a ricostituire 12 milioni di ettari di foreste entro il 2030. Si tratta di poco più di un terzo della superficie dell’Italia, appena l’1,4% dell’intera Pan Amazzonia”.

Insomma, le tecniche non mancano. Le soluzioni sembrano tutte a portata di mano. Cosa manca allora? È semplice, manca il coinvolgimento del resto del mondo. 

L’Amazzonia è fondamentale per la sopravvivenza dell’intera umanità, offre servizi ambientali a tutto il globo, limita l’innalzamento delle temperature a ogni latitudine, eppure pretendiamo che il costo e la responsabilità della sua manutenzione siano soltanto locali. 

I paesi industrializzati hanno un antico debito ambientale con l’Amazzonia perché la loro rapida crescita economica ha creato le condizioni climatiche che oggi minacciano la foresta. Inoltre, sono corresponsabili della sua distruzione a causa delle loro importazioni. I prodotti agroindustriali dell’Amazzonia sono destinati soprattutto a rispondere alla domanda esterna. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Sustainability ha analizzato le relazioni tra i settori economici e il loro impatto sulla deforestazione. I risultati hanno mostrato che l’83,17% della deforestazione è stato guidato dalla domanda esterna, con il 59,68% proveniente da altre parti del Brasile e il 23,49% dall’estero. La Cina e l’Europa sono i maggiori importatori di soia dal Brasile. Cina, Stati Uniti e Europa si dividono le importazioni di carne. Tracciare la provenienza di soia, carne e pellame per assicurarsi che non siano legati alla deforestazione è complesso a causa delle lunghe e spesso opache catene di fornitura. L’Unione Europea spinge il settore verso una maggiore trasparenza con l’introduzione di normative vincolanti. Ma la domanda di carne a basso costo e i modelli di consumo globale mettono pressione sui produttori locali e spesso il loro desiderio di agire secondo pratiche virtuose si infrange contro le necessità quotidiane e le opportunità a portata di mano. 

Nessuna strategia avrà mai pieno successo se non è accompagnata da cambiamenti al di fuori dell’Amazzonia. Personalmente, sono fan della consumer sovereignty, o voto col portafoglio: le scelte dei consumatori possono orientare il mercato. Per sopravvivere e prosperare, le aziende devono rispondere alle preferenze e alle domande dei loro clienti, ed è per questo che, sui mercati, l’azione individuale spesso risulta più rapida e efficace dei tempi lunghi di nuove politiche pubbliche. Il consumatore responsabile non si limita a comprare, ma usa il suo potere d’acquisto per premiare le aziende etiche e sostenibili e boicottare quelle che non lo sono. Le scelte individuali, moltiplicate per milioni, fanno la differenza. 

Facciamo allora alcuni esempi di scelte che avrebbero un forte impatto positivo sul futuro della foresta amazzonica. Ridurre il consumo di carne, specialmente quella bovina, optando per alternative vegetali o carne da allevamenti sostenibili. Ridurre il consumo di derivati animali provenienti da allevamenti intensivi – che usano soia come mangime. Smettere di acquistare oro, o preferire quello riciclato o certificato. Informarsi sulla provenienza del legno che si compera, dal mobile al parquet; preferire prodotti di origine locale o, se è necessario un legno tropicale, pretendere una certificazione.

Anche il cittadino investitore può fare la differenza. Le scelte di investimento dei capitali privati non sono mai neutre: possono alimentare o penalizzare un’economia distruttiva. I nostri risparmi sostengono aziende e progetti e possono finanziare la deforestazione, l’estrazione di combustibili fossili e l’inquinamento. Oppure, possono promuovere la sostenibilità e l’economia circolare, rendendo la conservazione non solo un atto etico, ma un’opportunità economica.

A livello globale è necessario che le nazioni più ricche riconoscano la loro colpa storica e inizino a fornire un significativo supporto finanziario per la salvezza del bioma. La protezione della foresta, il suo ripristino e uno sviluppo che non replichi gli errori del passato costano denaro. Denis Minev, inviato speciale della COP30 per il settore privato amazzonico, nella prima lettera sul programma che intende promuovere alla prossima conferenza delle parti, scrive: “In primo luogo, dobbiamo affrontare la giustizia climatica: l’Amazzonia si presenta a questo dibattito con un immenso credito ambientale. Mentre altre regioni hanno progredito nel loro sviluppo a scapito dei loro biomi, noi abbiamo preservato l’80% della nostra foresta, spesso sacrificando il nostro stesso sviluppo. L’Amazzonia non è un imputato; è un creditore nel bilancio ambientale mondiale. La soluzione alla crisi climatica è collettiva, ma la responsabilità no”. E precisa: “È responsabilità globale finanziare la trasformazione economica dell’Amazzonia attraverso tre pilastri: (1) prestiti a lungo termine, (2) investimenti in scienza e tecnologia locali e (3) prezzi equi e funzionali per i servizi ambientali, in particolare il carbonio”.

“Immaginiamo un mondo che superi la crisi climatica globale anche grazie a questa foresta, rigogliosa, umida e colma di vita, proprio come appare davanti ai miei occhi mentre scrivo. Immaginiamolo, e poi facciamolo”.

Gli strumenti non mancano. 

Dal 2008 esiste un fondo gestito dalla Banca nazionale brasiliana BNDES aperto alle donazioni internazionali. Il Fundo Amazônia finanzia progetti di protezione forestale e produzione sostenibile e per anni ha avuto come unici sostenitori la Norvegia e la Germania. Sospeso durante il governo di Jair Bolsonaro, il fondo è stato riattivato sotto l’attuale presidenza e altri paesi hanno iniziato a contribuire o hanno annunciato la loro intenzione di farlo. Sono Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Svizzera e Danimarca. Le donazioni sono subordinate alla riduzione delle emissioni di gas serra derivanti dalla deforestazione, ovvero il Brasile deve dimostrare ai suoi sostenitori l’effettiva riduzione del taglio della foresta ottenuta con i fondi.

Uno strumento finanziario specifico sono le obbligazioni amazzoniche, una sottocategoria di green bond dedicati a sostenere attività che abbiano un impatto economico, ambientale e sociale positivo nella regione. La Banca Interamericana di Sviluppo e la Banca Mondiale ne hanno elaborato congiuntamente le linee guida e hanno stabilito che il loro scopo è “promuovere il finanziamento attraverso i mercati dei capitali di attività allineate con uno o più dei seguenti tre obiettivi principali: a) ridurre la povertà e migliorare la qualità della vita b) ridurre e invertire la deforestazione e il degrado delle risorse naturali c) promuovere una crescita economica sostenibile, inclusiva e resiliente al clima”.

Il Tropical Forests Forever Fund, proposto alla COP28 di Dubai da Brasile, Repubblica Democratica del Congo e Indonesia, è un’iniziativa globale pensata per la protezione di tutte le foreste tropicali, non solo quella amazzonica. Si tratta di un fondo di investimento a lungo termine che punta a raccogliere 125 miliardi di dollari attraverso prestiti e investimenti in asset verdi per remunerare i paesi tropicali per ogni ettaro di foresta conservata o ripristinata. Il fondo mira a creare un flusso finanziario stabile e prevedibile per la protezione delle foreste, ma non è ancora attivo. Diversi paesi e istituzioni internazionali stanno lavorando per definire come raccoglierà e distribuirà i capitali, il suo lancio ufficiale è previsto a novembre 2025 e l’avvio operativo poco dopo.

E poi c’è il mercato del carbonio, che permette lo scambio di crediti per limitare l’inquinamento da CO2. Quando un paese amazzonico riesce a ridurre la sua deforestazione al di sotto di un livello prestabilito, o a ripristinare aree forestali, genera crediti di carbonio. Ogni credito certifica una tonnellata di CO2 non emessa o rimossa dall’atmosfera. Questi crediti vengono venduti sul mercato del carbonio a nazioni, aziende o fondi che vogliono compensare le proprie emissioni o investire nella sostenibilità. I fondi ottenuti vengono poi destinati a progetti specifici. In particolare il REDD+ (Riduzione delle Emissioni da Deforestazione e Degrado forestale) è un meccanismo internazionale che fornisce incentivi finanziari ai paesi che proteggono le loro foreste, ovvero riconosce un valore economico alla capacità delle foreste di assorbire e immagazzinare carbonio, riducendo le emissioni globali di gas serra. 

Anche piantare alberi in aree degradate per ricostruire l’ecosistema genera crediti di carbonio. Uno studio di Amazônia 2030 sul ripristino forestale basato sulla rigenerazione naturale ha rivelato che, se venisse effettuato un pagamento minimo di 20 dollari per tonnellata di carbonio catturato, il paesaggio subirebbe cambiamenti significativi. Vaste aree disboscate, in particolare quelle abbandonate o occupate da allevamenti a bassa produttività, tornerebbero a essere forestali perché, da un punto di vista economico, diventerebbe più redditizio per il produttore locale operare nel mercato del carbonio rispetto al mercato dell’allevamento estensivo. Esistono diversi esempi di progetti REDD+ e di crediti di carbonio generati dal ripristino forestale in Amazzonia ma sono ancora troppo pochi. Non privo di complessità e dibattiti, il meccanismo richiede una governance robusta, trasparenza nei processi decisionali e nella distribuzione dei fondi e, soprattutto, la partecipazione inclusiva e diretta delle comunità locali. In continua evoluzione proprio per garantire il rispetto dei diritti umani e ambientali, l’approccio  rappresenta una via importante per finanziare la protezione della foresta.

Il mercato del carbonio è un sottoinsieme del più olistico mercato dei pagamenti per servizi ambientali (PSA), che compensa economicamente individui o comunità per la conservazione degli ecosistemi. In questo caso i pagamenti non si limitano a un singolo servizio, ma includono la varietà dei benefici forniti dalla foresta, come aria pulita, acqua potabile, biodiversità e bellezza paesaggistica. I primi ad averne diritto sarebbero i popoli della foresta, le comunità indigene e tradizionali che da sempre garantiscono questi servizi per la collettività eppure, nonostante sia un’idea promettente e con alcuni successi a livello locale, il mercato dei PSA in Amazzonia deve ancora superare ostacoli significativi per diventare una soluzione su vasta scala. 

Abbiamo già detto che il previsto collasso dell’Amazzonia dipende dalla combinazione letale tra diminuzione della copertura forestale e aumento delle temperature globali. L’aumento della prima farebbe diminuire però le seconde. L’effetto benefico dell’avere più foreste, più alberi e in generale più vegetazione sul pianeta sarebbe amplificato dalle altre misure di mitigazione climatica che conosciamo: la transizione energetica, l’evoluzione dell’edilizia e dei trasporti, la cattura e lo stoccaggio di CO2. Anche in questo caso parliamo di azioni possibili. Soprattutto alle porte della Conferenza delle Parti più importante per l’Amazzonia, la COP30 che si terrà a Belém il prossimo novembre, in cui ci aspettiamo che si ascolti finalmente la voce dei popoli della foresta – la cui partecipazione sarà massiccia – e che si porti il focus delle discussioni sulla deforestazione – non solo amazzonica – e sulle soluzioni basate sulla natura, e in cui ci auguriamo che il contesto unico crei le condizioni per negoziati più ambiziosi e impegni più robusti, a partire da un testo chiaro sull’eliminazione dei combustibili fossili.

Insomma, con quasi l’80% della foresta originaria ancora in piedi, con le conoscenze, le tecniche, le tecnologie e i soldi che abbiamo, salvarla è ancora possibile. Come suggerisce Minev: “Immaginiamo un futuro in cui l’Amazzonia nutra il mondo e immagazzini carbonio; dove i suoi abitanti dispongano di servizi igienici e connettività, e allo stesso tempo producano scienza all’avanguardia”. Immaginiamo un’Amazzonia che non sia più minacciata d’estinzione, non conti i giorni che mancano al collasso climatico e continui a prosperare insieme ai popoli che per millenni l’hanno abitata senza trasformarla in savana. Immaginiamo un mondo che superi la crisi climatica globale anche grazie a questa foresta, rigogliosa, umida e colma di vita, proprio come appare davanti ai miei occhi mentre scrivo. Immaginiamolo, e poi facciamolo.

Foto in copertina: Amanda Perobelli/Reuters

Emanuela Evangelista

Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, è impegnata da 25 anni nella difesa dell’Amazzonia, della sua biodiversità e dei suoi popoli. Specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, è membro SSC dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. È presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti. Vive nel cuore della foresta, in un piccolo villaggio sulle rive di un fiume, in una regione remota e abitata da popolazioni indigene e tradizionali. Il suo lavoro e i risultati delle sue ricerche hanno contribuito alla protezione di 600.000 ettari di foresta intatta, un’estensione pari a due terzi della Corsica. Per il suo impegno è stata insignita dal Presidente della Repubblica della carica di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il suo primo libro Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta (Laterza, 2023) ha vinto il premio Campiello Natura 2024.

Contenuti Correlati