Le proteste indigene, la canzone di Medici Senza Frontiere, la nave cargo a vela della Flotilla4Change: tutte le lotte e le storie di attivismo per la giustizia climatica e ambientale durante la Conferenza delle Parti di Belém.
In coda al gate all’aeroporto di Campinas c’è un uomo con la kefiah. Si chiama Ahmad Jarrah, è un premiato giornalista documentarista del Mato Grosso, una delle regioni interne del Brasile. Stiamo aspettando lo stesso aereo per Belém, la città-porta dell’Amazzonia che ospita la trentesima Conferenza sul clima.
Per la COP di quest’anno prendere un volo è una scelta quasi obbligata, anche per i residenti in Brasile. Campinas, a circa due ore di macchina da San Paolo, è distante quasi tremila chilometri dal capoluogo dello Stato del Pará, che è grande quattro volte l’Italia. Ahmad mi presenta una persona. Si chiama Angela, Angela Mendes, figlia di Chico Mendes. Angela mi parla della lettera Bilhete para a juventude scritta da Chico nel 1988, tre mesi prima del suo assassinio. Lavora sulla rotta tracciata dal padre: “L’ambientalismo senza lotta di classe è solo giardinaggio”. Angela si batte al fianco dei giovani e delle donne delle terre indigene, delle aree dell’estrattivismo, delle periferie delle città. Sono le persone più povere e più colpite dalla crisi climatica. Nel suo discorso echeggia la recente strage ordinata dal governatore di estrema destra Claudio Castro ed eseguita dalla polizia militare nelle favela di Rio, ma anche l’abbattimento di case e la pulizia sociale sulle rive del canale Caraparu, nella periferia di Belém, per far spazio alla costruzione di nuovi edifici che ospitassero i delegati della COP.
La prima manifestazione fuori dalla Conferenza si è focalizzata su un tema escluso dal negoziato: la salute. “Abbiamo visto che le discussioni all’interno della COP sono molto tecniche, e abbiamo deciso di provare a umanizzarle”, dice Stephen Cornish, direttore esecutivo di Medici Senza Frontiere Svizzera. “Le popolazioni con cui lavoriamo ci hanno raccontato degli impatti del cambiamento climatico sul loro stile di vita, sulla loro salute, sulla capacità di coltivare”. Ormai è prassi che ogni Conferenza venga anticipata da un disastro climatico: le inondazioni in Pakistan prima di COP28, l’alluvione di Valencia prima di COP29, il tifone nelle Filippine e l’uragano in Giamaica prima di COP30.
MSF è operativa in tutti questi scenari di crisi. “Spesso a una tempesta seguono mesi di siccità e dopo eventi climatici estremi vengono le malattie. In America Centrale stiamo assistendo a un forte aumento dei casi di dengue che stanno distruggendo le economie locali, impedendo alle comunità indigene e campesine di vivere della propria terra”. Amanda Longhi di MSF Brasile sottolinea la richiesta di supporto psicologico. “Le persone potrebbero anche essere in qualche modo preparate a una risposta fisica, ma non a una mentale”. Non dopo aver perso per due volte la propria casa in pochi mesi nelle inondazioni del Rio Grande do Sul.
In vista della COP30, MSF ha lanciato un appello al mondo artistico con la canzone Clima Yaakaar, scritta da Mao Sidibé e cantata da Sidibé e Def Mama Def. Nella canzone ritorna l’espressione “Oya”, che in alcune lingue nigeriane significa “è il momento”, “andiamo!”: un invito diretto all’azione climatica e un tentativo di dare voce a chi vive in prima linea questa crisi. Il coinvolgimento delle comunità è fondamentale per i nostri progetti. È lì che possiamo apprendere conoscenze tradizionali e diffondere consapevolezza”. MSF sta lavorando con il popolo Yanomami rispetto alla crisi sanitaria emanata dal governo nel 2023 contro la diffusione della malaria e della malnutrizione. Governo, quello di Lula, che dichiara la crisi ma non riconosce le settanta terre indigene che attendono dal 1993.
Il governo brasiliano si veste di verde sulla scena internazionale e a parole ha voluto la COP a Belém per proteggere l’Amazzonia, ma ha le mani sporche di petrolio: a nove mesi dall’inizio della COP30 ha deciso di entrare nell’OPEC+ e a due settimane dell’evento ha autorizzato le perforazioni esplorative nel bacino di Foz do Amazonas. È così che si spiegano la rabbia e lo sfondamento senza precedenti dei cancelli della sede della COP da parte dei rappresentanti delle comunità indigene di Tapajós e Arapiuns, con archi e frecce a tracolla.
A COP30 si sono presentati 1600 lobbisti delle aziende del fossile che, se contanti insieme, costituiscono la seconda delegazione più numerosa di COP30 dopo quella brasiliana. Gli unici quattro Stati del mondo di cui a questa COP non si sono presentati delegati sono Afghanistan, Myanmar, San Marino e – per la prima volta – Stati Uniti.
“Non possiamo mangiare soldi. Vogliamo che le nostre terre siano libere dall’agribusiness, dallo sfruttamento petrolifero, dall’attività mineraria e dal traffico illegale di legname”, ha ribadito il coordinatore del Consiglio indigeno Tupinambá, il cacique Gilson. Come lui, moltissimi rappresentanti di comunità indigene, dai Kayapó ai Panará, dai Munduruku ai Mura, hanno viaggiato per un mese e mezzo e tremila chilometri in una carovana fluviale che ha preso il nome di Amazon Flotilla, partita dal fiume Napo in Ecuador e giunta a Belém dopo 3000 chilometri di navigazione sul Rio delle Amazzoni. “Se il mondo vuole proteggere l’Amazzonia, deve imparare da chi ci vive dentro”, dice Alda Brazão del popolo Baniwa. “Fin da piccola ho imparato che se proteggiamo la foresta non lo facciamo perché ne abbiamo bisogno per sopravvivere. Ma perché siamo parte di essa. Il corpo della foresta è il nostro corpo. La vita della foresta è la nostra vita.” E aggiunge: “L’emergenza climatica è qualcosa che sentiamo da tempo. La sentiamo quando il fiume non sale al momento giusto. Quando affrontiamo siccità e alluvioni estreme”, e, per chi vive in Amazzonia, il fiume è anche la principale via di spostamento.
Secondo un’analisi di Kick Polluers Out, a COP30 si sono presentati 1600 lobbisti delle aziende del fossile che, se contanti insieme, costituiscono la seconda delegazione più numerosa di COP30 dopo quella brasiliana. Gli unici quattro Stati del mondo di cui a questa COP non si sono presentati delegati sono Afghanistan, Myanmar, San Marino e – per la prima volta – Stati Uniti. A rappresentare gli “altri Stati Uniti” e colmare parzialmente il vuoto sono però venuti a Belém l’ex candidato alla presidenza Al Gore e il probabile futuro candidato Gavin Newsom, in rappresentanza di “America is all in”, la coalizione di enti sub-nazionali e locali che rappresenta il 74% del Pil statunitense.
Dentro e fuori da COP30 hanno partecipato tremila rappresentanti dei popoli indigeni, nonostante solo il 14% di essi abbia ottenuto un accredito. La maggior parte di loro è arrivata a Belém a bordo della Amazon Flotilla e ha partecipato alla Cúpula dos Povos: ottocento organizzazioni e migliaia di persone da ogni angolo del pianeta si sono incontrate in parallelo alla COP per un’assemblea con pochi precedenti storici, inaugurata dall’attraversamento del Rio Guamá alla presenza del grande capo indigeno Raoni.
Giusto in tempo per l’apertura della Cúpula dos Povos è arrivata la Avontuur, una delle poche navi cargo a vela che ancora solcano i mari. Di solito trasporta cacao e caffè da Caraibi e Brasile all’Europa, e questa volta “di ritorno” ha trasportato ricercatori e attivisti fino a Belém. A bordo c’era Silvia Montagnani, giovane attivista.
“L’arrivo di una barca a vela è una cosa così potente. Oggettivamente è un mezzo incredibile. Vola. Quando c’è vento, vola.” La Avontuur è l’unica barca della Flotilla4Change, progetto originariamente ideato per navigare fino alla COP27 da Sharm el-Sheikh, a non aver mai attivato i motori, restando così ferma per una settimana nei doldrums, una zona oceanica di stagnazione. “Tra i simboli che rappresentano il motto latino festine lente, (accelerare con lentezza), usato anche da Calvino in Lezioni americane, c’è una tartaruga con la vela. Quando navigavo ci pensavo, perché a volte andavamo lentissimi e altre velocissimi. Per me è rappresentativo dell’azione per il clima. Ti senti dentro una centrifuga ma allo stesso tempo devi trovare un modo per portare avanti delle idee con calma e a lungo termine.” La Avontuur è partita da Amsterdam il 10 settembre, Silvia si è imbarcata a Tenerife. Sono arrivati a Belém la sera del 12 novembre ma le autorità brasiliane hanno autorizzato lo sbarco solo il giorno successivo.
Le altre navi di Flotilla4Change – Sababa, Infinity, Marganstar e Éspquipe / Women wave project – erano già arrivate, così come la flotilla amazzonica e la carovana mesoamericana, erede dell’incontro globale per il clima tenutosi in Chiapas, i cui componenti sono partiti dal Messico e poi tenuti per qualche giorno in carcere in Nicaragua.
All’inizio della seconda settimana si è svolto un incontro congiunto delle flotille, che è sembrato qualcosa di storico a tutti e tutte coloro che hanno partecipato. “Sono tanti anni che utilizzo questa parola, flotilla, ma fino a qualche mese fa le persone mi guardavano confuse. Adesso è diventata patrimonio comune dell’attivismo”, dice Thiago Ávila, annunciando una nuova missione della Global Sumud Flotilla per la primavera dell’anno prossimo.
Tra le navi della società civile arrivate a Bélem ce n’è anche una che sventola una bandiera pirata: Sea Shepherd. E anche Greenpeace ha portato fino a Belém la Rainbow Warrior III, la prima nave disegnata appositamente per Greenpeace.
Tra le navi della società civile arrivate a Bélem ce n’è anche una che sventola una bandiera pirata: Sea Shepherd. Il suo fondatore, Paul Watson, che lo sembra davvero un “pastore del mare”, è in città nonostante la richiesta delle autorità giapponesi a quelle brasiliane di arrestarlo per la sua lotta contro le navi baleniere, per cui è stato recentemente rinchiuso cinque mesi in carcere in Groenlandia. Intervistato, ci dice col suo tipico pessimismo che non vede un futuro per le COP. “Ho 74 anni, partecipo a conferenze ONU da sempre, la prima a Stoccolma nel 1972, ed ero a Rio nel 1992. Da quei grandi vertici non è mai stata mantenuta una promessa. Per cui per me è solo una perdita di tempo, una foto opportunity per i leader mondiali. Ma ci sono anche aspetti positivi: è un’occasione per le persone di fare rete e farsi sentire”.
Con un’idea diversa sulle COP ma con lo stesso approccio comunitario anche Greenpeace ha portato fino a Belém la Rainbow Warrior III. È una nave di 62 metri, con 1300 metri quadri di vela, e un equipaggio tra le 16 e le 32 persone. È la prima nave disegnata appositamente per Greenpeace, ci spiegano a bordo Ylenia Bursich e Nazareth Sanzini. Quest’ultimo ha iniziato la sua esperienza per mare a bordo di un cacciatorpediniere dove, racconta, era comune versare in mare l’acqua di sentina. Per un suo continuo rifiuto a quest’ordine – non apprezzato in ambito militare – venne cacciato dalla sala macchine e messo a lavare i piatti. Lo chiamavano “Greenpeace”, e così scoprì l’organizzazione per cui ora lavora da vent’anni.
Tutte le navi della società civile sono ormeggiate al molo dentro l’Università Federale del Pará, sede della Cúpula dos Povos.
Dieci chilometri più a nord, in un lungo hangar illuminato a neon e raffreddato da condizionatori rumorosissimi, la plenaria della COP per una volta ha subito approvato l’agenda dei lavori, ma senza accordo su quattro temi caldi, portati avanti da quattro gruppi negoziali diversi, su cui la presidenza della COP ha avviato consultazioni che sono andate avanti per i dieci giorni successivi: sintesi sui piani di azione per il clima (AOSIS, l’alleanza dei piccoli Stati insulari), trasparenza (UE), misure per il commercio (LMDCs, con Arabia Saudita in testa) e finanza climatica (G77, Paesi poveri e sovrasfruttati).
La finanza sembra una questione molto mercantilistica e poco ambientale, ma è invece una questione di giustizia: senza uno spostamento dei flussi economici dalle fonti fossili a quelle rinnovabili e senza l’erogazione di fondi, i Paesi più vulnerabili non possono essere risarciti dei danni che non hanno contribuito a causare ma di cui pagano le peggiori conseguenze, e non possono mettere in campo politiche di adattamento ma devono comunque rispettare strettissimi limiti di emissioni nei tempi che i Paesi industrializzati esigono da loro. La finanza è il ponte tra ambizione e implementazione. Oltre alla responsabilità storica, ai risarcimenti e ai flussi finanziari c’è il peso del debito. Il debito sulle spalle del Sud Globale alimenta la crisi climatica e inasprisce la disuguaglianza. I creditori del Nord, tra cui il Fondo Monetario Internazionale e giganti come BlackRock, costringono le nazioni indebitate a estrarre i loro combustibili fossili e a sfruttare le loro terre per ripagare i debiti.
Questo ciclo distruttivo lascia le comunità e i Paesi più vulnerabili meno attrezzati per affrontare i disastri climatici, e mette i creditori del Nord del mondo nelle condizioni di dettare le politiche economiche traendo profitto da manodopera e risorse a basso costo. Lo ribadisce anche il documento dei cinque giorni della Cúpula, culminati con una grande, colorata manifestazione che fuori dalle COP non si vedeva dai tempi di Glasgow nel 2021 e con una plenaria che riflette l’unità dei popoli originari, delle comunità tradizionali, dei quilombolas, dei pescatori, dei “rompicocchi” babasu, dei contadini, dei lavoratori e delle lavoratrici urbane, dei giovani, dei movimenti femministi, della popolazione LGBTQIAPN+, dei sindacati, dei residenti delle periferie e dei difensori di tutti i biomi. Il documento pone al centro il lavoro di cura, la saggezza ancestrale dei popoli originari e la creatività dei movimenti. “Debt4Climate”, dice l’attivista Paolo Destilo, “è un movimento che chiede la cancellazione incondizionata del debito del Sud Globale.”
“La finanza va dirottata verso il Sud Globale, i popoli indigeni e chiunque altro sia in prima linea”, evidenzia Farhana Yamin, una delle più note avvocate ambientali al mondo. “Abbiamo bisogno di impegno concreto nelle iniziative già attive, come quella per l’adattamento e i risarcimenti delle perdite e i danni dei Paesi più vulnerabili. La presidenza brasiliana sta però facendo un ottimo lavoro e spero che si raggiunga un meccanismo di giusta transizione”, mi dice nel lungo corridoio della zona centrale della COP, con un caffè in mano, segno della stanchezza e dell’avvicinamento dei negoziati decisivi, poco prima che venissero interrotti dall’incendio scoppiato nell’area padiglioni.
Dopo l’incendio, in quella che sarebbe dovuta essere la giornata conclusiva, l’aria è cambiata. Non per il cortocircuito che ha innescato il fuoco, ma per quello politico che si è verificato nelle stanze del negoziato. La presidenza brasiliana, che aveva infuso ottimismo, pare abbia prima promesso ai Paesi produttori di petrolio che nel testo non ci sarebbe stato un riferimento ai combustibili fossili e poi pubblicato una bozza disastrosa. Nella plenaria conclusiva, iniziata nei tempi supplementari e andata avanti sotto il suono incessante di una “pioggia amazzonica”, c’è stato un momento di psicosi collettiva: il presidente di COP30, per negligenza o più semplicemente per stanchezza dopo le molte notti di negoziato, non ha dato voce alle obiezioni di Panama, Colombia e Uruguay e battuto il martelletto sulle risoluzioni su mitigazione e adattamento, rompendo di fatto la regola del consenso.
Per la prima volta nella storia delle COP una plenaria è stata sospesa per un simile errore procedurale: piove sul bagnato. Il testo finale è un grande compromesso inconcludente, e il risultato di COP30 è altrettanto minimo: c’è un richiamo al grado e mezzo, ma non c’è alcun riferimento alla deforestazione e alle fonti fossili. La finanza per l’adattamento è stata triplicata ed è stato adottato un testo molto positivo sulla giusta transizione – che prova a mettere al centro i diritti dei lavoratori – ma non è abbastanza. La cosa più vicina all’umanità in cerchio si è riunita qui, nell’Amazzonia brasiliana, per una Conferenza che si impegnasse a proteggere gli ecosistemi primari e abbandonare i combustibili fossili. Nessuna delle due cose è successa. La speranza ha trovato casa al di fuori dell’accordo principale: nell’ambizione degli enti locali, nell’intersezionalità della Cúpula dos Povos, nella fuga in avanti dell’alleanza eterogenea di oltre ottanta Paesi – tra cui tutti quelli dell’UE, tolto l’imbarazzante retroguardia di Italia e Polonia – che ad aprile si ritroverà in Colombia per la prima Conferenza per l’abbandono dei combustibili fossili.
L’impressione è che più che il clima questa COP volesse salvare il multilateralismo. Entrambi sono, purtroppo, piuttosto in fiamme.