La narrativa dominante si è limitata a raccontare il mondo. Per due nuove graphic novel italiane si tratta invece di cambiarlo, in una prospettiva ecocritica.
Se per la specie umana la letteratura è una sorta di strategia di sopravvivenza, può la letteratura orientare in una direzione o in un’altra questa strategia, e dunque il filo della storia? È una domanda enorme, e bellissima.
Se la pone Serenella Iovino, docente di letteratura alla University of North Carolina.
Iovino si occupa di ecocritica: quella branca della letteratura – abbastanza sottovalutata in Italia ma molto diffusa negli Stati Uniti – che ne studia il rapporto fra umano e ambiente. Nel 2015 ha pubblicato Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza. Secondo l’ecocritica, soprattutto per come si è evoluta negli ultimi anni, la letteratura non è solo specchio della società: è anche in grado di modificare la società stessa, attraverso i suoi personaggi, le storie che racconta, le fratture che mette in luce. Le storie non solo descrivono quello che vedono, ma offrono anche possibilità alternative di mondi, visioni, interpretazioni. Scriviamo per moltissime ragioni, e fra queste ci sono il tentativo di interpretare la realtà e la necessità di immaginare strade diverse da percorrere, altri valori, altri rapporti di potere, altri rapporti d’amore.
Lo studio delle opere letterarie diventa quindi strumento per riconoscere le tensioni ecologiche del presente e trovarvi dentro degli antidoti. Ma le tensioni ecologiche, quasi sempre, si portano dietro tutte le altre tensioni, tutte le altre fratture. Quando raccontiamo una storia di clima, soprattutto se la ambientiamo in un mondo non necessariamente presente e reale ma comunque vicino e somigliante al nostro, oltre a interrogare il rapporto fra umano e ambiente finiamo per interrogare la relazione degli umani fra di loro.
“Quando raccontiamo una storia di clima, oltre a interrogare il rapporto fra umano e ambiente finiamo per interrogare la relazione degli umani fra di loro”.
In un articolo dal titolo La Climate Fiction secondo l’Ecocritical Geopolitics uscito nel 2022, Elena dell’Agnese, geografa ed ecocritica, scrive: «Ci si può poi chiedere se presentare il cambiamento climatico come un fattore che altera le condizioni di vivibilità in modo diverso nelle varie regioni del pianeta possa innescare riflessioni sulla giustizia ambientale, chi siano i protagonisti delle vicende narrate e quali relazioni di genere, di razza, di classe intercorrano fra loro e, infine, che tipo di discorso sull’ambiente venga veicolato da questo tipo di narrazione». Dell’Agnese chiama geopolitica ecocritica questo approccio, che riunisce sotto un unico cappello di cultura egemonica tutte le ingiustizie su umani, non umani e ambiente e che ne va a cercare le tracce nella cultura popolare. Un film come Siccità di Virzì, del 2022, parlava di crisi climatica ponendosi pochissime domande su cause e conseguenze sociali. I suoi personaggi appartenevano per la maggior parte alla borghesia romana, le disuguaglianze erano visibili ma non protagoniste. Soprattutto, finiva con una pioggia guaritrice che spazzava via la siccità, leniva i drammi dei personaggi. Niente era cambiato, nessun automatismo culturale era stato spezzato.
Due fumetti usciti negli scorsi mesi sono esempi interessanti di come esista anche il contrario.Fiori di filo spinato è stato pubblicato da Edizioni BD, gli autori si fanno chiamare Kizazu e Maxem e hanno meno di trent’anni. Siamo in Sicilia: lungo la superstrada che collega Siracusa ad Augusta si staglia il gigantesco impianto del polo petrolchimico siracusano, unica opportunità di lavoro per migliaia di persone nella zona. Causa di inquinamento, sversamenti in mare, malattie. Nella storia immaginata da Kizazu e Maxem, si chiama “malattia dei fiori”: quando sulla pelle sboccia il primo il destino è già segnato. Solo un giovane liceale ne è coperto dalla nascita eppure riesce a sopravvivere. È una trovata grafica e simbolica tragicamente bellissima per raccontare il ricatto fra salute e lavoro che segna tante vite e territori come questo, Taranto il primo che viene alla mente.

Kizazu e Maxem, “Fiori di filo spinato” (Edizioni BD)
Oltre al liceale coperto di fiori, ci sono la sua compagna di classe Ema e due ambientalisti militanti: fra di loro si chiamano Marco Polo e Vasco da Gama. Hanno forse trent’anni, di notte cercano di sventare gli attacchi dei piromani per salvare riserve naturali, di giorno si dedicano alla lotta più dura ancora fra i desideri, le aspirazioni e la necessità banale di uno stipendio: immagine di una generazione a cui era stato insegnato ad avere desideri più vasti di quelli dei propri genitori, poi messa all’angolo da una lunga e intricata policrisi – finanziaria, sanitaria, climatica. In ogni tavola del fumetto troneggia la raffineria, i fumi di anidride carbonica che finiscono in atmosfera e i veleni che uccidono ambiente, abitanti, lavoratori, una maledizione di cui non si riesce a fare a meno, la condanna della crisi economica: senza quella raffineria, lì non c’è modo di sopravvivere.
Poi c’è Il limite del mondo, di Francesco Memo e Barbara Borlini. Contiene due storie, che si toccano al centro. Da una parte una montagna sempre più arida, l’ultimo ghiacciaio sopravvissuto, una scuola gestita da una società privata con progetti estrattivisti, soluzioni tecnologiche alla crisi climatica e serre per l’agricoltura verticale, il tutto ripulito con strategie di greenwashing. C’è Yves che con suo nonno vive a pochi passi dal ghiacciaio e difende di giorno in giorno la montagna, e c’è Wei, che va a scuola con lui e ogni tanto dà una mano nel ristorante cinese dei genitori, ma soprattutto cerca col suo collettivo di ribellarsi all’azienda estrattivista, con piccole azioni, piccole esplosioni. Il mondo degli adulti è colmo di menzogne, i giovani sono per lo più soggiogati, ma Yves e Wei si alleano, le alleanze rendono più forti. Dall’altro lato del fumetto c’è una società divisa in due. I cool vivono in quartieri ricchi, verdi e rinfrescati dall’aria condizionata. Hanno tute termoregolanti e uccellini robot che sembrano veri, in un modo dove di vero non c’è più niente, e raccolgono i dati sanitari del proprio “padrone”. Poi ci sono i dull: vivono in una periferia bollente, fanno i rider o altri lavori pesanti, sopravvivono nell’afa cittadina, nel cemento, senza nessuna protezione o tutela. Inutile dire che i cool sono per lo più bianchi e i dull per lo più neri, nella frattura di classe c’era già quella di razza.

Francesco Memo e Barbara Borlini, “Il limite del mondo” (Tunué)
Il limite del mondo e Fiori di filo spinato fanno quello che dice Dell’Agnese: partono, o forse finiscono, col parlare di crisi ambientale e così, necessariamente, innescano altre riflessioni, scelgono personaggi dull oltre che personaggi cool, li mettono in gioco, li fanno interagire. Ci riescono particolarmente bene forse anche in quanto fumetti. Il fumetto è un linguaggio poroso, tiene assieme disegno e parola, tempo e spazio, realtà e metafora. La sua posizione laterale, a volte percepita come popolare, gli permette di andare dritto al punto: di entrare nel vivo delle tensioni senza pesantezza o pedanteria. Scelgono prospettive che la narrativa dominante tende a evitare, forse anche grazie a un mercato editoriale più coraggioso.
Zerocalcare è un esempio scontato ma importante: in tutto quello che scrive, da Kobane Calling a Macerie prime a Questa notte non sarà breve, dà voce proprio al tipo di storie e marginalità di cui parlano Iovino e dell’Agnese. Tocca temi delicatissimi e complessi, spesso dei vespai in cui è rischioso mettere le mani, e grazie non solo al suo talento ma anche al mezzo che usa che gli permette di arrivare dove film e romanzi risulterebbero impegnati e di nicchia. Per agire sul filo della storia c’è bisogno anche di questo, di interrogare l’immaginario collettivo su larga scala, fino a zone difficili da raggiungere e dissodare. È un potere che appartiene a ogni genere di storia, scritta, parlata o disegnata. Ma in certi momenti alcune forme vanno più lontane di altre, la leggerezza calviniana del fumetto lo rende più libero. Anche libero di parlare di tumore disegnando un fiore sulla pelle di un liceale, o di portare a galla le fratture che sono alla radice della crisi climatica e che hanno la faccia del colonialismo, del capitalismo e del patriarcato pur rivolgendosi a un pubblico ampio.
La posizione laterale del fumetto gli permette spesso di andare dritto al punto: di entrare nel vivo delle tensioni senza pesantezza o pedanteria.
L’autore caraibico Malcom Ferdinand mette in luce – in Un’ecologia decoloniale, uscito pochi mesi fa in Italia per Tamu – come la frattura fra umano e ambiente renda quest’ultimo mera risorsa e sia intrinsecamente legata alla frattura coloniale: quella che ha permesso per secoli di “produrre” forza lavoro umana, di trasformare in risorsa umani e non umani. Ferdinand lo chiama Negrocene, dove per “negri” intende i gruppi sociali messi ai margini del mondo e della storia, quelli il cui lavoro è sfruttato, che non si devono vedere nelle città cool, relegati nelle periferie o all’interno delle case, quelli che non hanno potere decisionale sul mondo in cui vivono. Fra questi le donne, e infatti l’ecofemminismo mette in luce il rapporto fra patriarcato e crisi climatica: lo sfruttamento del lavoro di cura femminile va di pari passo con lo sfruttamento della natura come risorsa. In questo senso la letteratura ecologica o ambientale è una letteratura di per sé sovversiva perché non accetta l’isolamento dei problemi ma preferisce una prospettiva sistemica.
Il limite del mondo e Fiori di filo spinato lasciano emergere tutte queste contraddizioni, ma fanno un passo oltre. Scelgono personaggi e storie che, per dirla con Iovino, danno voce a istanze che la narrativa dominante considera marginali. E fra queste marginalità crea alleanze sovversive e potenti. Sono quelle a far vedere oltre. Sta lì questa strategia di sopravvivenza che è la letteratura, che cerca di orientare l’idea che abbiamo del mondo, ciò che ci autorizziamo a desiderare. Le alleanze di questi personaggi, spesso rappresentati senza marcate distinzioni di genere – a ribadire quasi la liberazione dalle linee manichee dominanti –, sono una strategia di sopravvivenza, reale, al mondo.