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Maria Teresa Renzi-Sepe
I fantasmi della Mesopotamia funzionavano come i nostri

I Fantasmi Della Mesopotamia Funzionavano Come I Nostri Cover Renzi Sepe
Scienza storia

Gli spettri Babilonesi hanno tramandato le loro terrificanti caratteristiche sino a oggi. Studiarli significa ridiscutere i confini tra scienza, religione e magia.

Che cosa c’è dopo la morte? Ce lo siamo chiesto tutti, dai bambini a Shakespeare, da San Francesco a Einstein. Ogni cultura ha la propria idea di post-mortem e pratica di sepoltura. Gli esseri umani hanno seppellito i propri cari insieme a oggetti che potevano servire al defunto nell’aldilà sin dal Paleolitico superiore, circa 40.000 anni fa. Come se la morte fosse un viaggio durante il quale si può volere accanto qualcosa di utile, o qualcosa a cui si è affezionati. Magari, proprio come da un viaggio, dalla morte si può anche tornare; ed è proprio per questa eventualità, dolorosa e spaventosa al contempo, che alla morte associamo anche i fantasmi.

I primi scritti in cui abbiamo traccia di fantasmi vengono dalla Mesopotamia, e forse per molti non sarà un mistero. Hollywood ci ha fatto conoscere Pazuzu nell’Esorcista e gli spiriti sumerici in Ghostbusters. Ma perché rappresentiamo, parliamo e scriviamo ancora oggi di fantasmi? Se tracciamo una loro storia – o una storia delle storie di fantasmi – l’antropologia ci dice che si somigliano un po’ tutte. Creature evanescenti, emanazioni della paura che infestano luoghi significativi. Ma secoli di monoteismo e scienza hanno modificato il significato dei fantasmi.

Se non seppelliti adeguatamente, i defunti tornano a perseguitare i vivi, come intimazioni a rispettare la norma sociale della sepoltura. Questo aspetto è condiviso da tantissime culture e sia l’antica che l’attuale festa di Halloween ne sono solo un esempio fra tanti. I fantasmi, per definizione, sono entità che infestano i luoghi perché non trovano il riposo che gli spetta – o tormentano chi si sente in colpa. Quando nell’Iliade Patroclo compare all’amato Achille sotto forma di fantasma, gli chiede proprio questo: una rispettosa sepoltura. 

“Alla fine dell’antichità, i fantasmi diventano cristiani”, scrive Massimo Scotti nella sua Storia degli spettri (Feltrinelli, 2013). Nel Medioevo, il cristianesimo ha creato il Purgatorio, plasmando del tutto il concetto di fantasma e facendone una questione morale. Nelle storie di quel periodo, i fantasmi appaiono “bloccati”, impossibilitati a espiare i peccati commessi in vita e per questo cercano un contatto, qualcuno che possa aiutarli a risolvere il loro irrisolto. 

In epoca moderna, lo spirito scientifico sopprime la credenza nei fantasmi, che quindi confluiscono nell’irrazionale o nella narrativa. Tutti i sottogeneri riconducibili alla “storia di fantasmi” nascono proprio fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo: basti pensare agli ironici spettri di Charles Dickens in Canto di Natale, o alle inquietanti apparizioni in Giro di vite di Henry James.

“I primi scritti in cui abbiamo traccia di fantasmi vengono dalla Mesopotamia. Hollywood ci ha fatto conoscere Pazuzu nell’Esorcista e gli spiriti sumerici in Ghostbusters”.

L’esaltazione scientifica che bolle nel positivismo genera, in tutta risposta, lo spiritismo di epoca vittoriana – che per l’appunto non disdegnava l’uso dei metodi scientifici. Durante le famosissime sedute spiritiche di quel periodo si tentava di fotografare o registrare la voce dei fantasmi, creando un contatto con l’evanescente, come modo per collegarsi ai cari defunti. O anche solo come squisito intrattenimento. 

La storia dei fantasmi è frammentaria, narrata poco o compresa male per via dei pregiudizi moderni che li riducono a sciocco folclore, disperdendone la complessità. Le interpretazioni dei fantasmi forniteci dall’antropologia sembrano valere sia per il pensiero occidentale che orientale nell’antichità, forse per approfondire questa tesi servirebbe una nuova rilettura fantasmatica. Per esempio, “soprannaturale” non è più una categoria adeguata a comprendere l’ontologia della Mesopotamia. A Babilonia, la scienza antica si appoggiava a un altro meccanismo altrettanto importante: le pratiche magiche destinate a scongiurare o modificare futuri spiacevoli. Il termine “magia”, spesso frainteso o caricato di connotazioni negative negli studi moderni, va ridefinito anche nel contesto cuneiforme. Lungi dall’essere irrazionale o marginale, la magia mesopotamica era parte integrante e legittima di un’epistemologia più ampia, fondata sull’idea che tutti gli elementi del mondo fossero interconnessi, contemporaneamente trascendenti e immanenti. In un’ontologia di questo tipo, le pratiche magiche operavano attraverso corrispondenze analogiche. Parole, oggetti, sostanze corporee e azioni potevano produrre effetti perché collegabili ad altre parti dell’ordine cosmico. 

L’unico evento che resiste a ogni forma di rimedio magico o fisico è proprio la morte, quella frattura irreparabile fra noi e ciò che non possiamo conoscere, che segna il confine tra il mondo dei vivi e dei defunti; ma cosa accadrebbe se questo limite venisse abbattuto? Quali sono le conseguenze di una morte “sbagliata”, dal punto di vista rituale o sociale? È da tali irregolarità che nasce il fenomeno dei fantasmi in Mesopotamia, considerati “segni” – oggetti osservabili e legittimi di indagine – al pari delle stelle e dei terremoti. Nel mondo cuneiforme i fantasmi sono reali: anche se privi di forma corporea tangibile fanno parte di ciò che può essere visto, percepito, conosciuto e su cui si può agire.

I fantasmi hanno origine da persone morte o da materia vivente e restano sulla terra se privati di un corretto rito di sepoltura: possono infestare le case o apparire in luoghi frequentati. Le offerte funerarie mantenevano l’ordine e preservavano il confine tra vivi e morti. Se tale ordine rituale veniva interrotto, il fantasma poteva attraversare quel confine, diventando fonte di numerosi disturbi. Per esempio, nei testi della divinazione terrestre della Mesopotamia un fantasma può manifestarsi in casa attraverso un letto che cigola, o un pianto inspiegabile nel cuore della notte. Su cosa fare, gli scribi sono piuttosto chiari: la casa deve essere abbandonata. Qui di seguito un esempio tratto dai presagi terrestri:

Se nella casa di un uomo un fantasma geme sotto il letto, spostare il letto e la casa.

Il “gemere” a cui fa riferimento il testo è un verbo riservato solo ai fantasmi, ai guaiti dei cani e ai sibili delle lucertole. Questo è probabilmente fra i più antichi riferimenti ai poltergeist di cui abbiamo traccia – una parola che, originariamente, si riferisce a suoni e oggetti che si muovono inspiegabilmente. La casa infestata in cui accadono cose inquietanti e fuori dalla norma diventerà proprio uno dei soggetti principali delle storie di fantasmi, e possiamo tracciarne qui una storia molto concisa. In una delle sue Epistole, Plinio il giovane racconta la storia del filosofo Atenodoro, che affittò una casa ad Atene a prezzo stracciato perché era abitata da un fantasma. Nella lettera, si dice che Atenodoro riuscì a mandarlo via, ritrovandone il corpo e dandogli un’appropriata sepoltura. In chiusura, Plino si chiede: sará vero? Da questa domanda partono tutte le trame relative alle case infestate che giocano sul filo del dubbio, della suggestione e della razionalità: da Daniel Defoe nei suoi opuscoli settecenteschi, alla parapsicologia del detective dell’occulto Tony Cornell – raccontata da Ben Machell in Cacciatori di tenebre (Iperborea, 2025) – all’horror cinematografico di Paranormal activity.  

“Perforando il dibattito sui confini tra scienza, religione e magia, i fantasmi della cultura Mesopotamica sono costrutti epistemologici, sfidano le categorie dicotomiche della storiografia moderna”.

Oltre a essere infestanti , i fantasmi della Mesopotamia erano come agenti patogeni, capaci di colpire il corpo e la mente in vari modi. Centinaia di prescrizioni scritte su tavolette di argilla riportano istruzioni a cui uno specialista (chiamato āšipu) doveva attenersi per curare un paziente malato. Questi testi, comunemente chiamati “manuali diagnostici”, contengono descrizioni di sintomi, diagnosi e prognosi. Veniva prima menzionato il disturbo: poteva essere un problema fisico (dolori a testa e collo, compulsioni o intorpidimento degli arti) o psicologico (visioni e insonnia). La causa era descritta come una “presa” da parte del fantasma, o come un afferramento da parte della “mano” di un fantasma. In alcuni casi viene specificato se il fantasma appartiene a un morto in maniera violenta o prematura, o se sia stato una criminale in vita – in tali casi, le malattie potevano essere particolarmente aggressive. I trattamenti prescritti erano medico-magici: offerte agli dèi, unguenti di resina di cedro e succo di melograno da applicare sul corpo o nelle orecchie, rituali che talvolta prevedevano l’uso di sostituti del fantasma, come animali o statuette con funzione apotropaica, da inviare nell’aldilà. In alcuni casi, per placare i fantasmi bastava celebrare nuovamente una sepoltura con adeguate offerte funerarie, adempiendo gli obblighi che l’individuo aveva verso i morti.

Oggi, la psicologia vede i fantasmi come allucinazioni o illusioni, modalità della nostra mente di elaborare il lutto o stati emotivi e di coscienza alterati dall’ansia o dall’assenza di sonno. È allora un parallelismo interessante il fatto che, in Mesopotamia, i fantasmi dei propri cari fossero considerati i portatori di disturbi legati all’impossibilità di dormire, oltre che all’immobilità degli arti. Al di là delle analogie su cui questi accostamenti probabilmente si basavano – il fantasma in Mesopotamia è un corpo morto, che non può muoversi ma non trova riposo – tale fenomenologia rivela una complessa e poco divulgata concezione di morte, post-mortem, corpo e mente umana, insieme alle implicazioni ontologiche, rituali e terapeutiche dei fantasmi. 

Perforando il dibattito sui confini tra scienza, religione e magia, i fantasmi della cultura Mesopotamica sono costrutti epistemologici, sfidano le categorie dicotomiche della storiografia moderna. Fra un rituale e una ricerca intellettuale, all’origine dei fantasmi c’è l’esperienza della morte e del lutto, mentre i suoi prodotti sono, in poche parole, la tristezza e la paura. Ce lo ricorda magistralmente nei suoi racconti Edgar Allan Poe, l’autore che forse più di tutti ha saputo descrivere queste emozioni. Non c’è nulla di più umano di un fantasma: sono gli echi della vita, del non-compreso e del non-risolto, nel nostro mondo che è un perenne e caotico equilibro fra la volontà di capire e il non averci capito un bel niente.

Maria Teresa Renzi-Sepe

Maria Teresa Renzi-Sepe è ricercatrice presso l’Istituto di Storia della Conoscenza dell’Antichità alla Freie Universität di Berlino. È laureata in Archeologia e ha un dottorato in Assiriologia. La sua ricerca spazia tra la filologia e la storia della scienza, concentrandosi sulla concettualizzazione delle stelle e dei pianeti nel mondo cuneiforme. Scrive anche di libri su alcune riviste culturali online.

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