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Giorgio Brizio
Il canale dove il Mediterraneo trema

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Il tratto di mare tra Libia, Tunisia e Sicilia è la frontiera più letale del globo terracqueo. Facciamo un viaggio sui ponti delle navi che si occupano dei soccorsi partendo dai tre porti-pilastro: Siracusa, Licata e Trapani.

Nella Sicilia “continentale” è nota la leggenda di Colapesce, figlio di un marinaio che venne sfidato da Federico II a recuperare un anello in mare. Mentre nuotava in profondità, il giovane si accorse dell’esistenza di tre colonne, il cui scopo era quello di sorreggere l’isola e non farla sprofondare. Una di queste colonne era però danneggiata, così Colapesce si sostituì a essa. 

Visto che la Sicilia non è sprofondata, si narra che lui sia ancora sott’acqua, a tenere su quell’angolo con tutte le sue forze. C’è chi dice che l’angolo sia quello di Messina – e che le scosse siano dovute a Colapesce intento a cambiare spalla – altri dicono sia quello di Capo Passero. Sono tre le colonne, tramite i porti di altrettante città, che sostengono il soccorso in mare: Siracusa, Licata e Trapani.

Il nome “Canale di Sicilia” indica il tratto di mare tra il nord della Libia, il nord-est della Tunisia e il sud della Sicilia. Grande quanto un decimo del Mediterraneo, che a sua volta contiene l’1% dell’acqua salata del Pianeta è al contempo centro e cono di bottiglia del Mediterraneo, che è hotspot di molte crisi. 

Prima tra tutte di quella climatica, visto che l’area del Mediterraneo si riscalda molto più velocemente della media globale. Il primo semestre di quest’anno ha già battuto tutti i record registrati precedentemente. Le sue acque, poi, toccano la Palestina, la cui distruzione è la punta dell’iceberg della distruzione del Pianeta a opera di pochi governi e ricche aziende occidentali. E, ancora, da dieci anni il piccolo Mediterraneo – trasformato in deserto blu –  è la frontiera più letale del “globo terracqueo”. 

Sono passati dieci anni dal settembre 2015, quando la foto del piccolo Alan Kurdi, ritrovato senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum, fece il giro del mondo. In questi dieci anni, i governi europei hanno fatto del loro meglio per ostacolare la mobilitazione della società civile arrivata in mare per colmarne il vuoto. Il risultato è che tra il 2015 e il 2025 almeno 28.000 persone sono morte affogate, tra cui 3.500 bambini. Ad agosto 2025, il governo Meloni ha lanciato un nuovo attacco, a bassa intensità ma ad alto costo di vite, verso le organizzazioni attive nel soccorso in mare. Il primo atto si è svolto a Lampedusa, dove sono stati bloccati due assetti di Sea Watch: Aurora, una delle poche navi a poter tenere testa alle motovedette libiche, e Seabird 1, un aereo biposto che più volte ha documentato dall’alto casi di omissione di soccorso.

Ma è nel sud della Sicilia che la maggior parte delle navi delle diverse organizzazioni ormeggia, perché costretta da un blocco amministrativo o per effettuare manutenzioni e preparativi. 

Siracusa

Ad agosto 2021 in provincia di Siracusa è stata registrata la temperatura più alta di sempre in Europa, 48,8 gradi. Qui fanno base alcune delle navi più grandi della flotta civile, come la Humanity 1 di SOS Humanity.

Sea Watch 5 è un’altra nave che, quando non è in missione, è facile vedere dal centro di Siracusa, che ho avuto l’opportunità di visitare insieme a Mamadou Kouassi, ispiratore e sceneggiatore del film Io capitano.

“Quando ho iniziato a sentire le raffiche di mitragliatore, ci è stato intimato da parte dell’equipaggio di scendere in coperta e metterci in protezione. Nei venti minuti successivi ho sentito proiettili venire da ogni dove”

“Are you neighbours?”, ci hanno chiesto i membri dell’equipaggio, scambiandoci per colleghi di una nave dirimpettaia. Sea Watch 5 ha il reparto medico più grande tra le navi della società civile e una cucina a poppa capace di preparare fino a 450 pasti – rigorosamente vegani, come da sempre a bordo degli assetti di Sea Watch.

A Siracusa è arrivata, negli ultimi giorni di agosto, dopo una delle missioni SAR più complesse di sempre nel Mediterraneo centrale, la nave Ocean Viking di SOS Mediterranee. La mattina del 24 agosto la nave era stata autorizzata dal Centro di coordinamento italiano a interrompere la rotta verso il porto di Marina di Carrara e a cercare un’altra imbarcazione in difficoltà in acque internazionali. La notte prima, la nave a vela Nadir di ResqShip aveva salvato 65 persone da un gommone dentro cui si trovavano anche i corpi di tre sorelle sudanesi di 9, 11 e 17 anni, decedute. Nel corso di questa operazione, la Ocean Viking è stata avvicinata dalle milizie libiche vestite da guardacoste, che hanno iniziato a girarle attorno minacciose. Senza preavviso, i libici hanno aperto il fuoco e per la prima volta in questi anni hanno sparato contro l’equipaggio di una nave di soccorso e delle 87 persone che aveva a bordo. 

 “Quando ho iniziato a sentire le raffiche di mitragliatore, ci è stato intimato da parte dell’equipaggio di scendere in coperta e metterci in protezione. Nei venti minuti successivi ho sentito proiettili venire da ogni dove”, ha detto il fotografo freelance Max Cavallari che al momento dell’attacco si trovava sul ponte. Ocean Viking ha lanciato un mayday alla NATO, reindirizzato alla più vicina unità della marina italiana, che però non ha mai risposto. Non ci sono stati feriti, ma le attrezzature di soccorso essenziali, come i gommoni veloci con cui si effettuano i soccorsi (rhib), le radio e altri strumenti di comunicazione hanno subìto danni significativi. A sparare contro Ocean Viking è stata una motovedetta Corrubia Houn 664 donata dall’Italia ai libici. Non è un cortocircuito, ma la chiusura del cerchio della logistica della crudeltà. 

A presenziare nel 2023 alla consegna della motovedetta c’era anche Bija, uno dei trafficanti più noti al mondo, ucciso l’anno scorso negli scontri tra milizie che dilaniano la Libia. Nel 2017 Bija – come raccontato su Avvenire e poi nel libro Le mani sulla guardia costiera dal giornalista Nello Scavo, ora sotto scorta per le sue inchieste – prese parte a una riunione sull’immigrazione a Mineo, in provincia di Catania, nel contesto del Memorandum Italia-Libia, che venne firmato dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e che ha, di fatto, aperto la stagione di criminalizzazione del soccorso in mare. Il “decreto Piantedosi” voluto dal governo Meloni impone alle Ong di effettuare al massimo un salvataggio e di fare rotta immediatamente verso uno dei (lontanissimi) porti assegnati, con l’incontrovertibile risultato di prolungare le sofferenze delle persone soccorse e il chiaro intento di tenere il più possibile lontano le imbarcazioni della società civile da dove possono salvare vite.

La prima nave a essere costretta a effettuare almeno tre giorni di navigazione in più è stata la Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Dopo lo sbarco forzato a La Spezia, una parte degli 87 minorenni soccorsi è stata messa su un pullman per Foggia, a 760 chilometri di distanza. Di nuovo, la logistica della crudeltà. Geo Barents, pensata per poter ospitare un elevato numero di persone a bordo è divenuta troppo grossa e costosa e ha dovuto lasciare il Mediterraneo. A Licata, però, ha iniziato a prendere forma la risposta della Civil Fleet, l’alleanza delle organizzazioni e delle iniziative civili di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo. 

Licata

Il porto di Licata è più piccolo e grazioso, così come le navi umanitarie che vi sono ormeggiate. La loro forza sta nella velocità: possono raggiungere rapidamente le imbarcazioni in difficoltà e neutralizzare i respingimenti illegali dei libici. Non essendo progettate per lunghe distanze, le autorità non possono costringerle alla pratica dei porti lontani. Sea-Eye 5, come spiega l’operatrice Marianna Lusso, è una nave di 23 metri, con un equipaggio di otto persone: head of mission, captain, chief engineer, doctor, deck manager, rhib leader, rhib driver, rhib comunicator.

La prua spaziosa si divide in due corridoi esterni, al di là dei quali sono posizionati i centifloat, lunghi galleggianti cui le persone in difficoltà si possono aggrappare per non affogare. A prua si trova un vano obliquo chiuso da una paratia, che se aperta consente al gommone di soccorso di scivolare. Ci sono un ponte di comando più basso e uno più alto, che viene usato quando il mare è in tempesta o quando lo spazio a prua viene coperto per garantire alle persone soccorse un po’ d’ombra. Il tavolo dello spazio interno principale può diventare un letto ospedaliero, e a tutte le pareti della stanza sono appesi strumenti utili per il soccorso o l’assistenza medica. C’è una doccia per lavare le bruciature di gasolio che i naufraghi spesso hanno sul proprio corpo. A tutti e tutte loro viene distribuito un kit con vestiti, acqua e alimenti proteici. Scendendo verso le cabine si incontra un’utilissima mappa costantemente aggiornata con i magneti a forma di tutti gli assetti della Civil Fleet. 

Un nuovo radar, un oggetto prezioso, serve a rilevare oggetti duri di una certa intensità, quindi a individuare eventuali imbarcazioni in difficoltà, ma anche a navigare con po’ più tranquillità. L’orizzonte ottico può raggiungere le due miglia, il radar ne copre venti. Significa che se vedi i libici arrivare a occhio nudo hai pochi minuti, mentre se li vedi col radar hai circa un’ora.

Nel porto, a destra di Sea-Eye 5 c’è Sarah, dell’omonima Ong tedesca, e ancor più in là uno spazio libero per un altro assetto veloce che arriverà presto in mare. A sinistra invece, si appresta a tornare in porto dopo un training la Louise Michel, la nave voluta, finanziata e dipinta da Banksy. Più in là, con le altre barche a vela, c’è Trotamar III di Compass Collective, che è stata messa in stato di fermo per “non aver collaborato con le autorità libiche” – fermo che il tribunale di Agrigento ha annullato in quanto “illegittimo”. 

A Licata quest’estate è nato “per costruire alleanze e affermare che la libertà di movimento è un diritto fondamentale” il collettivo Ruppu – formato da licatesi e operatrici delle organizzazioni che fanno base in città.

In Oceano Mare Baricco scrive che le navi sono gli occhi del mare, ed è per questo che è nato TOM (Tutti gli Occhi sul Mediterraneo), il “circolo galleggiante” che fa parte della grande famiglia dell’Arci. L’attività di TOM è prevalentemente di monitoraggio e assistenza, solo in casi eccezionali di soccorso. Le missioni in mare si svolgono ogni mese e mezzo, e hanno una durata di circa 10 giorni.

Su Garganey VI, una delle loro navi, in coperta, Margherita Cioppi ripone con cura un nuovo radar, un oggetto prezioso. “Serve a rilevare oggetti duri di una certa intensità, quindi a individuare eventuali imbarcazioni in difficoltà, ma anche a navigare con po’ più tranquillità”. L’orizzonte ottico può raggiungere le due miglia, il radar ne copre venti. Significa che se vedi i libici arrivare a occhio nudo hai pochi minuti, mentre se li vedi col radar hai circa un’ora. Nella gran parte dei casi, le navi salvavite sono nate dall’idea di attivisti che hanno coinvolto gente di mare, ma in quello di TOM è il contrario, spiegano Francesco Delli e Tiziano Rossetti.

A bordo parliamo molto della Global Sumud Flotilla e della scelta difficile a cui TOM è chiamata. Il desiderio sarebbe quello di partecipare, ma il rischio che l’esercito israeliano sequestri la barca è alto, e significherebbe avere una nave che soccorre in meno. Alla fine TOM ha deciso di unirsi alla Flotilla: Garrganey VI resta operativa nel Mediterraneo Centrale, Karma è salpata verso Gaza con a bordo parlamentari e attivisti di diverse organizzazioni. 

Lasciando Licata, su Garganey VI, che batte bandiera italiana, vedo quelle dell’Arci e di Libera, donata all’equipaggio da Luigi Ciotti, salito a bordo a Trapani nella giornata del ricordo delle vittime innocenti di mafia.

Trapani

Trapani è il terzo porto, il terzo pilastro. Da un momento all’altro inizia a piovere fortissimo. “Non pioveva da tre mesi”, dicono i trapanesi. Partenza bagnata, partenza fortunata. Quella per cui salpiamo oggi non è una missione SAR, ma un’iniziativa comunque molto sentita. Al porto di Trapani passiamo vicino alla Iuventa. Sono ormai 10 anni da quando un gruppo di giovani – Junged Rettet, “la Gioventù Soccorre” – di Berlino e Amburgo, stanchi di vedere morire persone in mare per l’inerzia dei governi europei, decise di acquistare grazie a una raccolta fondi un vecchio peschereccio degli anni Sessanta. Nell’arco di venti mesi, salvarono la vita a 14.000 esseri umani. Nel 2017, la nave venne bloccata e iniziò il più grande processo a una Ong attiva nel Mediterraneo centrale. Dopo sette anni di indagini e tre milioni di euro spesi dallo Stato, il risultato è che “il fatto non sussiste”. In questi anni, però, a Iuventa è stato impedito di fare il suo lavoro ed è rimasta lì, nel porto di Trapani, dove ora sembra un rudere.

Se Iuventa è alla fonda, Mare Jonio è ancora in mare, quasi pronta a salpare. Era arrivata in mare nell’ottobre del 2018, a cinque anni esatti di distanza dalla prima strage di Lampedusa, come “azione di disobbedienza civile ma di obbedienza morale”. In questi anni Mediterranea ha creato una partecipata rete di decine di gruppi locali, gli “equipaggi di terra”, e lanciato operazioni in altri luoghi di violazione dei diritti umani, come Palestina e Ucraina. Il mare, però, è sempre rimasto il centro delle sue operazioni.

La sagoma che vediamo sul radar è la nuova, grande, nave di Mediterranea. Si chiama semplicemente Mediterranea Ship. Mare Jonio e Mediterranea Ship si avvicinano in alto mare a sirene spiegate. “Salutiamo l’incontro con una sorella che ci affiancherà in mare per soccorrere sempre più persone”, viene detto dal ponte della prima.

Lasciamo gli ormeggi a Trapani, superiamo le Egadi, mangiamo il pane cunzato preparato da uno dei marinai. Dopo circa due ore di navigazione usciamo dalle acque territoriali italiane. “Siamo a quattro miglia di distanza, dieci minuti e saremo nell’approccio”, dice il comandante. La sagoma che vediamo sul radar è la nuova, grande, nave di Mediterranea. Si chiama semplicemente Mediterranea Ship. Mare Jonio e Mediterranea Ship si avvicinano in alto mare a sirene spiegate. “Salutiamo l’incontro con una sorella che ci affiancherà in mare per soccorrere sempre più persone”, viene detto dal ponte della prima.

Uno dei rhib calato dalla gru della nuova nave viene a prendere attivisti, giornaliste e amici di Sea-Eye venuti a dare il proprio sostegno all’equipaggio già a bordo di Mediterranea Ship, che da settimane si preparava in Spagna e che all’indomani sarebbe arrivata in zona SAR. Trovarsi su un gommone, a pelo d’acqua, in mare aperto, senza alcun punto di riferimento all’orizzonte fa una certa impressione. Chissà come deve essere per le persone migranti, che non hanno un salvagente al collo, che spesso non sanno nuotare o che non hanno proprio mai visto il mare. Nel passaggio di testimone, Mare Jonio consegna a Mediterranea Ship materiale tecnico, disegni fatti dai bambini di due classi elementari di Brancaccio per loro coetanei che verranno soccorsi, e una foto del cooperante Mario Paciolla, trovato ucciso in Colombia.

Sono cooperazione e sostegno reciproco a rendere possibile la partenza della nuova nave, che prima apparteneva proprio a Sea-Eye. Il salto di qualità da Mare Jonio a Mediterranea Ship è evidente: la prima è lunga 37 metri e ha un equipaggio di 13 persone, la seconda è lunga 54 metri e un equipaggio quasi tre volte più numeroso. Questo significa che d’ora in poi molti più attivisti potranno aggiungersi ai marittimi e assistere i naufraghi soccorsi. A bordo i membri dell’equipaggio provengono da sette nazionalità.

“In mezzo a questo via vai di navi militari”, c’è una nuova grande nave umanitaria con a bordo un ospedale che può garantire assistenza medica alle persone soccorse – la cui mancanza è uno dei tanti motivi che le spinge a mettersi in viaggio. “Non dobbiamo dimenticarci che tutto questo lo facciamo per arrivare in tempo”, dice Beppe Caccia, capomissione della prima operazione di Mediterranea Ship, che dopo la nostra visita ha continuato a navigare verso la zona SAR. Nei giorni successivi, diverse lance libiche hanno circondato la nave e provato a intimidire l’equipaggio. Nella notte del 21 agosto Mediterranea Ship ha soccorso dieci persone provenienti da Siria, Egitto e Kurdistan iraniano e iracheno, gettate in acqua da un gommone militare della 111ª brigata, comandata dal Viceministro alla Difesa libico Abdul Salam Al Zoubi. Quattro persone sono morte prima di poter essere soccorse.

Le autorità le hanno assegnato Genova come porto di sbarco, ma Mediterranea ha deciso di disobbedire all’imposizione di tre lunghi e inutili giorni di navigazione. “Ci assumiamo la responsabilità di dirigere verso il porto di Trapani per assicurare lo sbarco in sicurezza delle dieci persone superstiti del naufragio che necessitano appena possibile di cure mediche e psicologiche che devono essere fornite a terra. In questo modo, disobbediamo a un ordine ingiusto e inumano del Ministero degli Interni, ma obbediamo fino in fondo al diritto marittimo, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità”, ha detto Beppe Caccia. Per questa decisione, Mediterranea Ship è stata sottoposta a uno dei provvedimenti più pesanti del decreto Piantedosi: due mesi di fermo amministrativo e 10.000 euro di multa.

A fine maggio, la giudice dell’inchiesta preliminare del tribunale di Ragusa aveva rinviato a giudizio sei attivisti di Mediterranea con l’accusa di “favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina.” Gli attivisti dicono di essere tranquilli, forti del fatto che in questi dieci anni le Ong hanno vinto ogni singolo caso giudiziario. A marzo 2025 il governo ha ammesso che i servizi segreti italiani hanno utilizzato il software militare Graphite dell’azienda israeliana Paragon per spiare gli attivisti di Mediterranea. Dopo mesi di silenzio, il sottosegretario del Consiglio dei Ministri Alfredo Mantovano, fedelissimo di Meloni, ha confermato che è stata l’Agenzia per la sicurezza esterna (Aise) a spiare gli attivisti che si occupano di diritti delle persone migranti perché considerati un “pericolo per la sicurezza nazionale”.

L’attività di spionaggio sarebbe stata richiesta dal governo Meloni e autorizzata dal Procuratore generale presso la corte d’appello di Roma. Paragon avrebbe interrotto il servizio dal momento che è stata violata la clausola del contratto che indica che attivisti e giornalisti non possono essere spiati. Il governo Meloni sembra avere meno rigore deontologico persino delle società tecnologiche israeliane. Cinque procure stanno indagando sul caso.

Il ministro Piantedosi, che negli ultimi mesi ha accolto a braccia aperte a Roma il generale libico Haftar, il già citato Viceministro Al Zoubi e messo su un volo di Stato il trafficante ricercato dalla Corte Penale Internazionale Al Masri, rispetto al caso di Mediterranea ha detto che è lo Stato che “gestisce i soccorsi in mare”, delegittimando così il ruolo della flotta civile. Le Ong soccorrono ogni anno meno del 10% delle persone che sbarcano – la gran parte vengono individuate dalla guardia costiera o arrivavano autonomamente – ma lo fanno in tratti di mare che nessuna autorità europea copre. Perché è questo ormai il ruolo della società civile nell’area del Mediterraneo: colmare la deresponsabilizzazione, l’inazione e l’inadeguatezza dei governi europei – sul clima, sulle migrazioni, su Gaza. In attesa che questi si sveglino, le (organizz)azioni non governative sono i pilastri che ci rimangono dello Stato di diritto.

Giorgio Brizio

Giorgio Brizio, 23 anni, è un attivista che si occupa di clima e migrazioni. È autore di Non siamo tutti sulla stessa barca (Slow Food Editore, 2021) e curatore di Per molti anni da domani – ventisette attivisti europei scrivono di clima, pace e diritti (Bollati Boringhieri, 2024).

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