Un principio tecnico nato negli anni Novanta è diventato il mantra nella discussione europea sul futuro dei trasporti, tra biocarburanti, e-fuel e motori elettrici. Ma qual è la vera posta in gioco?
Uno spettro si aggira per l’Europa, stavolta attorno al dibattito sul futuro delle automobili. “Vogliamo abbandonare quell’approccio ideologico che ha caratterizzato la stagione del Green Deal, per abbracciare un pragmatismo serio e ben ancorato al principio di neutralità tecnologica.” Così il 22 ottobre il presidente del Consiglio Giorgia Meloni spiegava al Senato la posizione che l’Italia avrebbe tenuto al Consiglio europeo dei giorni successivi, sul cui tavolo si trovava un emendamento alla Legge europea sul clima.
Presente nelle leggi europee fin dagli anni Novanta, per molto tempo la “neutralità tecnologica” è stata un concetto riservato alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Come spiega il ricercatore finlandese Atte Ojanen in un articolo per Cambridge University Press, significa che i legislatori devono stabilire l’obiettivo da raggiungere senza discriminare fra le tecnologie disponibili sul mercato. Sarà poi la competizione a determinare quale soluzione sia la migliore. Eppure, questa idea da qualche anno è al centro di un’aspra contesa politica.
Andrea Tilche, oggi professore a contratto all’Università di Bologna, ha lavorato per vent’anni alla Commissione europea, dove è stato a capo dei programmi di ricerca sui cambiamenti climatici e ha rappresentando l’Ue nel gruppo di esperti intergovernativi dell’Onu. Quello della neutralità tecnologica è un principio che ha sentito risuonare più volte, ma che è entrato nel linguaggio politico “a seguito dell’interpretazione della legislazione che rivendica la possibilità di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni con i biocombustibili,” mi spiega.
Per capirlo, bisogna ripercorrere le ultime tappe: a marzo 2023, il Consiglio Europeo ha adottato un regolamento per tagliare drasticamente le emissioni dei gas responsabili del cambiamento climatico prodotti dalle autovetture. L’attuale legislazione prevede che le auto immesse nel mercato dovranno essere nel 2035 tutte a emissioni zero.
C’è chi critica questa decisione dicendo che essa consegna di fatto il mercato alle auto elettriche. Il Partito Popolare Europeo – principale gruppo politico dell’Unione di cui fa parte la presidente della Commissione Ursula von der Leyen – è sempre stato fra questi. “Siamo a favore di una ambiziosa riduzione della CO2 nei trasporti, ma dobbiamo mantenere la neutralità tecnologica e non abbiamo bisogno di vietare completamente i motori a combustione,” diceva l’europarlamentare Jens Gieseke durante le discussioni sulla norma.
Nel 2023 il regolamento passò nonostante l’opposizione di parte dei Popolari e dei partiti di destra, ma con le elezioni europee di luglio 2024 questi gruppi hanno ottenuto più potere di quanto ne abbiano mai avuto in passato e così la norma è così tornata al centro della discussione. L’ANSA riporta infatti che, in una lettera indirizzata a ottobre ai leader europei, von der Leyen apriva a una rivalutazione del “ruolo dei carburanti a zero e basse emissioni, includendo e-fuel e biocarburanti avanzati”.
I biocarburanti sono sostanzialmente carburanti liquidi o gassosi ricavati da biomassa, ovvero materia organica rinnovabile proveniente da piante, residui agricoli o scarti alimentari. Gli e-fuels o elettro-carburanti sono invece carburanti sintetici prodotti attraverso l’estrazione di idrogeno in un processo che si chiama elettrolisi.
“Secondo il principio della neutralità tecnologica, i legislatori devono stabilire l’obiettivo da raggiungere senza discriminare fra le tecnologie disponibili sul mercato. Sarà poi la competizione a determinare quale soluzione sia la migliore. Questa idea da qualche anno è al centro di un’aspra contesa politica”.
Nell’elaborare gli scenari futuri per contrastare i gas climalteranti, l’Agenzia internazionale dell’Energia (AIE) assegna a questi combustibili un ruolo importante nel decarbonizzare settori difficili da elettrificare, come il trasporto pesante, l’aviazione e il trasporto marittimo. Perché il mondo pareggi le proprie emissioni nel 2050, l’AIE stima che si dovrebbe quadruplicare il loro utilizzo entro il 2035, arrivando a fornire circa il 10% del consumo totale. Ad oggi, però, le quantità totali prodotte sono sufficienti a coprire solo un quinto della domanda di questi settori. Ecco perché chi sostiene il bando dei motori termici entro il 2035 adduce fra le sue argomentazioni il fatto che le risorse disponibili andrebbero concentrate su questi settori, lasciando all’elettrico il normale trasporto su gomma.
Secondo l’Energy Institute, i maggiori produttori di biocarburanti sono Stati Uniti, Brasile, Indonesia, Cina e India. Ma anche l’Italia è uno strenuo difensore del loro utilizzo per le automobili. Solo poche settimane fa, il ministro dell’Ambiente e Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin dichiarava che “i biocarburanti sono un percorso per abbattere notevolmente le emissioni, per la crescita del Paese e per la trasformazione delle raffinerie: vuol dire occupazione, lavoro e stare in testa nella transizione.”
L’Italia ha d’altronde interessi diretti, perché nel mercato opera Enilive, società del colosso energetico italiano Eni. Al momento, il gruppo ha due bioraffinerie attive a Venezia e Gela, e una partecipazione in una bioraffineria in Louisiana. A breve ne apriranno una a Livorno e convertiranno alcune unità della loro raffineria in provincia di Pavia, oltre a inaugurarne una in Malesia e una in Corea del Sud. Attualmente, la capacità di bioraffinazione è di 1,65 milioni di tonnellate all’anno, e prevede di arrivare fino a 5 per i biocarburanti e a oltre 2 per l’aviazione, a seconda delle esigenze del mercato. Con questi numeri, Enilive è il secondo produttore in Europa e il quarto del mondo per capacità di raffinazione.
“Fino a ora il maggior settore è quello dell’automotive, soprattutto per i camion, ma anche il trasporto marittimo lo sta diventando, e prenderà sempre più piede la parte JET per gli aerei,” spiega Raffaella Lucarno, responsabile Bio Industrial & Supply di Enilive. Per ora non hanno problemi di rifornimento, ma secondo Lucarno in futuro “la materia prima sarà il punto critico di questo business”. Hanno dunque avviato un progetto di recupero di scarti e rifiuti organici in Kenya e di agri feedstock – cioè di coltivazione e spremitura di semi per la produzione di oli vegetali – in Kenya e Costa d’Avorio. Al momento, la maggior parte della materia utilizzata in Italia proviene da Indonesia e Malesia, mentre la raffineria negli Stati Uniti lavora con materie prime locali, soprattutto oli vegetali.
Alcuni ricercatori temono quindi che la limitatezza delle materie prime o il costo si possano rivelare dei limiti all’espansione sia dei biocarburanti che degli e-fuels, e suggeriscono quindi di concentrare gli investimenti sull’elettrico. “Uno dei problemi chiave della storia della neutralità tecnologica è la quantità,” mi spiega Pierpaolo Cazzola, co-direttore del centro di ricerca europeo dell’Istituto per lo studio dei trasporti UC Davis della California. Secondo le statistiche dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), nel 2022 i biocombustibili ammontavano a più del 3,5% del consumo globale di energia per il trasporto. Questo significa che globalmente sono stati consumati 4,7 esajoule. Pochissimo, se paragonati ai 110 del petrolio.
Altri credono però che sia inevitabile puntare su tutte le tecnologie possibili e che il vero tema sia disegnare percorsi adeguati verso gli obiettivi ambientali. “Nessuna soluzione oggi è in grado di essere il cosiddetto silver bullet, cioè quella che può risolvere tutti i problemi in tempi brevissimi,” sostiene David Chiaramonti, professore del Politecnico di Torino e presidente – in rappresentanza del Ministero dell’ambiente – dell’iniziativa internazionale Biofuture Platform. Chiaramonti osserva come i biocarburanti sostenibili godano del vantaggio di essere in grado di attivarsi rapidamente, perché non necessitano di cambiamenti infrastrutturali. Ha inoltre coordinato uno studio per la Commissione Europea che ha calcolato che al 2030 nell’Unione avremo un volume di biomassa disponibile fra i 310 e 836 milioni di tonnellate.
“Fra gli attivisti, infine, chi è critico su biocarburanti ed e-fuels teme anche che siano una scappatoia per continuare a bruciare fossile. Le organizzazioni non governative sono poi spesso preoccupate che possano generare nuove forme di neocolonialismo”.
“Attualmente il terreno è più che sufficiente per incrementare di molto la quota interna di produzione. Se poi ci concentriamo sulle zone marginali, il tema è riportare carbonio organico al suolo, e tenerle in produzione, in rotazione con le colture alimentari” spiega Chiaramonti. Ma qui entrano in campo le decisioni politiche: “Sviluppare queste filiere non è come girare un interruttore, richiede costante impegno e determinazione.”
Affinché questa strategia abbia successo non si può escludere l’impiego dei biocombustibili dai trasporti su strada, visto che le macchine normali in Europa contribuiscono al 75% delle emissioni della mobilità. Questo avrebbe poi un importante beneficio in termini occupazionali, dato che “tutta la filiera del motore a combustione presumibilmente rimarrà in piedi, sia nel trasporto pesante, ma anche nelle macchine ibride, dove diventa un generatore per ricaricare la batteria.”
Cazzola, d’altronde, mantiene un certo scetticismo: “Nonostante il crescente controllo sulla sostenibilità della produzione di biocarburanti osservato in molti paesi, l’OCSE e la FAO prevedono che l’uso globale di biocarburanti cresca meno dell’1% annuo nel prossimo decennio e che le materie prime convenzionali (o alimentari) rimarranno predominanti nel settore. Inoltre, perché questo avvenga in maniera sostenibile servirà una rivoluzione agricola su larga scala che ci sposti collettivamente, e non solo per i biocombustibili, verso un’agricoltura sostenibile”.
Gli e-fuels vengono invece prodotti attraverso un processo di elettrolisi dell’acqua, in cui l’energia elettrica scinde l’idrogeno dall’ossigeno, e attraverso la successiva combinazione dell’idrogeno con il carbonio. Secondo l’AIE, ad oggi la loro commercializzazione è però praticamente inesistente, poiché questo processo si può rendere redditizio solo in presenza di elettricità abbondante e a prezzi bassi. “È un modo estremamente inefficiente e poco redditizio di usare l’elettricità, rispetto al suo uso diretto in auto elettriche e pompe di calore,” spiega sempre Cazzola. L’Agenzia Europa per la Sicurezza dell’Aviazione (EASA) monitora costantemente i prezzi dei vari tipi di combustibile, e ha rilevato, ad esempio, che i combustibili sintetici sarebbero al momento circa quattro volte più cari dei biocarburanti.
“Se si vede dove eravamo quattro anni fa, abbiamo fatto grandi progressi: oggi contiamo più di 300 progetti in tutto il mondo, di cui il 10% ha già avuto una decisione di investimento finale,” contesta però Ralf Diemer, l’amministratore delegato della eFuel Alliance, associazione che riunisce gli istituti e le imprese attive a vario titolo nella filiera tra cui le maggiori compagnie automobilistiche tedesche, imprese tecnologiche come Siemens e fossili come Exxon Mobil e Repsol. Per Diemer, il maggior ostacolo in Europa è legato all’eccesso di burocrazia che rallenta l’arrivo sui mercati. “Abbiamo una strategia Europea sull’idrogeno. Poi ne abbiamo una nazionale in Germania. E anche 16 strategie regionali. A volte pure le singole città ne hanno una,” lamenta. Per lui, il settore non si svilupperà mai se il regolamento europeo sulle automobili non verrà riformato, perché il settore ha bisogno della massa critica di quel mercato.
Fra gli attivisti, infine, chi è critico su biocarburanti ed e-fuels teme anche che siano una scappatoia per continuare a bruciare fossile. Le organizzazioni non governative sono poi spesso preoccupate che possano generare nuove forme di neocolonialismo. Per Marie Cosquer di Azione contro la fame, ad esempio, i biocombustibili su larga scala “sono stati spesso collegati a violazioni dei diritti umani, come la sottrazione di terra da piccoli proprietari terrieri e comunità indigene.”
Esperti come Cazzola e Tilche sono invece preoccupati dalla necessità di indirizzare correttamente le risorse pubbliche. In un documento elaborato nel 2022 per il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, entrambi argomentavano che era arrivato il momento di domandarsi se fosse “necessario, in nome della neutralità tecnologica, distribuire gli investimenti su tante soluzioni differenti, con il grande rischio di trovarsi a breve con infrastrutture inutilizzate e da mantenere.” Al di là di prese di posizione politiche, il nocciolo del dibattito attorno alla neutralità tecnologica sta tutto nelle tecnologie sulle quali l’Europa vuole scommettere per il suo futuro.