Articolo
Emanuela Evangelista
Il futuro della foresta è scritto nella pietra

Il Futuro Della Foresta È Scritto Nella Pietra Cover Evangelista
archeologia natura politica

Il viaggio dal cuore dell'Amazzonia alla COP30 è costellato di petroglifi, codici sacri millenari che rivelano un passato umano profondo e annunciano un futuro dove arte e spiritualità possono essere ancora la tecnologia più efficace per la sostenibilità.

Siamo in piena stagione secca. Grazie alle piogge portate da La Niña, quest’anno non avremo una siccità estrema come nelle ultime due stagioni ma, come da norma, il livello dell’acqua nei fiumi sta scendendo. Lentamente, pochi centimetri al giorno, la sponda si allontana dalle palafitte di legno. Barche e canoe si arenano se non le si sposta ogni giorno. Il paesaggio intorno al villaggio cambia aspetto. La foresta inondata si asciuga, diventa calpestabile e agevole da attraversare senza il sottobosco tipico della densa foresta di terra. Anche pescare diventa più facile, soprattutto di notte con il tridente, e i pesci costretti in corsi d’acqua ridotti di superficie. Lontre, caimani e giaguari ne approfittano come gli uomini. Con le acque che si ritirano il letto dei fiumi inizia a mostrarsi, sabbioso e pettinato dalla corrente, svelando spiagge chilometriche, deserte, di un giallo ocra all’inizio, poi più chiaro a mano a mano che si asciugano. Alcune hanno sabbia bianchissima. Per una tartaruga d’acqua sono l’atteso tavoliere su cui deporre con cura centinaia di uova, soprattutto di notte, specie se il cielo si accende dei lampi dei temporali in arrivo. Dal letto dei fiumi, ogni tanto, emergono rocce, così rare in questa regione che ognuna ha un nome. 

Alda Brazão vive in un villaggio a cinquanta chilometri di distanza dal mio, comunichiamo via WhatsApp grazie a una connessione satellitare. È nativa di questo fiume, il Rio Jauaperi, e tuxaua del suo villaggio, la leader. Un titolo ereditato da suo padre Valdemar, che passerà al suo primogenito Ariel, oggi adolescente e apprendista entusiasta. Già il secondogenito, William, chiamato a subentrare in caso di impedimento del fratello maggiore, ha sempre storto il naso all’idea di rivestire la carica. A sei anni ci disse “non se ne parla, ho altri piani, io da grande andrò in Europa!”

In questi giorni ci stiamo preparando per la COP30 delle Nazioni Unite, che si terrà a Belem dal 10 al 21 novembre. Raggiungere la città all’estremo est dell’Amazzonia è un viaggio lungo giorni per noi che ci troviamo nel bacino del Rio Negro, a quattrocento chilometri da Manaus, dove il grande affluente incontra il Rio delle Amazzoni. Da lì, altri duemila ci separano dalla conferenza sul clima. Arrivare in tempo è una questione di logistica, ovvero di livello d’acqua nei fiumi. Per capirci tra di noi usiamo le rocce emerse come riferimento:

La roccia di São Pedro è già affiorata?

Solo in parte mana (sorella), ancora non si vede il cervo. 

Qui la prima spiaggia è emersa ma si passa ancora agevolmente.

Non correrei rischi con una barca, potremmo restare arenati al ritorno, dobbiamo muoverci con i motoscafi, ne serviranno almeno due. 

Molte rocce sono ancora sommerse e navigare senza strumentazione di bordo (lusso che nessun mezzo di locomozione locale possiede) richiede una dettagliata conoscenza del territorio. All’ingresso del Gaspar per esempio, la comunità guidata da Alda, le rocce più pericolose non sono ancora visibili, ma potrebbero aprire uno squarcio nello scafo. 

Buon futuro, Nonna, Arabiana, Rondinelle, sono i nomi di alcune delle rocce che incontriamo navigando verso Manaus. Quasi tutte presentano grafismi, come il cervo non ancora affiorato che Alda monitora sulla roccia di São Pedro. “Sono disegni antichi. Mio padre racconta che venivano usati per comunicare, come una specie di bacheca, soprattutto in tempo di guerra”. Incisi nella roccia, tecnicamente petroglifi, alcuni rappresentano figure geometriche, altri quadrupedi, spesso mammiferi, pochi uccelli, alcune figure antropomorfe come un uomo che suona un flauto (o forse usa una cerbottana) e un gruppo di persone che si tengono per mano, come se stessero danzando. È frequente una figura geometrica formata da perfetti cerchi concentrici con un’estensione verticale, come un grande lecca lecca. Su una delle rocce, invece di un cerchio, la forma concentrica è quadrangolare. 

Il primo e unico studio di campo realizzato in questa regione – era il 2008 – identificò diciotto siti di interesse archeologico in dieci giorni di lavoro. Tra questi, siti di arte rupestre, un laboratorio di pietra levigata, ceramica precoloniale e siti di terra preta. Nel report non pubblicato della spedizione si legge: “I petroglifi sono di epoca precoloniale piuttosto antica e non è possibile tradurli cronologicamente in anni di calendario. Le differenze osservate nello stato di alterazione tra i siti possono essere spiegate da notevoli differenze cronologiche nell’esecuzione di ciascuno. È probabile che la collezione campionata appartenga a un ampio spettro temporale. Ciò implica, non necessariamente ma suggestivamente, un’area densamente popolata nel periodo precoloniale. La quantità di materiale ceramico e la sua natura […] favoriscono la prospettiva di un fiume multiculturale e, forse, multilingue. Inoltre, la scoperta di strutture in terra […] indicano grandi villaggi e complessità nella forma dell’organizzazione sociale e politica”.

“Sono disegni antichi. Mio padre racconta che venivano usati per comunicare, come una specie di bacheca, soprattutto in tempo di guerra”.

È così fino a Manaus, il percorso è costellato di iscrizioni incise sulle rocce: frammenti della visione del mondo delle popolazioni originarie del Rio Negro, un tempo molto numerose. Sul litorale della capitale, proprio di fronte allo spettacolare incontro tra le acque scure del Rio Negro e quelle biancastre del Rio delle Amazzoni, quando la siccità è pesante come l’anno scorso, emergono dei grandi volti incisi sulle rocce, facce stilizzate localmente conosciute come “le maschere” e con un’età stimata tra i mille e i duemila anni.

I petroglifi sono un po’ ovunque in Amazzonia e sono solo una delle espressioni del grafismo amazzonico, il linguaggio di segni che i popoli della foresta usano da millenni. “Non è semplice decorazione: ogni linea, spirale o intreccio ha un significato” mi spiega Alda. “Ogni segno parla di antenati e di spiriti della foresta, di fiumi e costellazioni, di cicli naturali e di memoria collettiva. È una forma di pensiero che non usa parole ma segni, un alfabeto senza lettere”. Nel suo lavoro di educatrice – la tuxaua insegna nella piccola scuola del villaggio – si preoccupa di trasmettere questa conoscenza ai bambini e ai ragazzi, li invita a scoprire nuovi simboli con gli anziani. “Soprattutto li spingo a non sentire vergogna ma orgoglio della nostra tradizione. Per troppo tempo essere indigeno è stato considerato motivo di imbarazzo, simbolo di arretratezza. Oggi è cruciale che i giovani recuperino la fierezza dei loro antenati”.

Mi spiega che alcuni segni si ripetono per diventare dinamici, per creare continuità nel ritmo visivo e nel significato. Come la spirale quadrata – motivo che si ritrova in molte etnie – formata da linee spezzate ad angoli retti a formare una specie di labirinto che non si chiude mai. Per i Baniwa, l’etnia di Alda, rappresenta un segno di apertura, una sorta di porta simbolica che invita al passaggio e alla trasformazione. A sua volta il motivo a zigzag – una linea che procede come una sequenza di picchi – è un segno di protezione, una barriera metaforica che respinge forze ostili e rafforza il corpo e lo spirito di chi lo porta. “Per questo i nostri antenati lo tracciavano sul corpo e sugli oggetti nei rituali di caccia e di guerra, quando era necessario attraversare territori pericolosi o entrare in uno stato di concentrazione rituale. Oggi li usiamo soprattutto simbolicamente per non dimenticare, negli eventi, nelle feste sacre. Con gli stessi pigmenti vegetali usati dai nostri antenati, il jenipapo per il nero o il carbone e l’urucum per il rosso, li disegniamo sui nostri corpi, sul volto, sulle braccia, sulle gambe. Li dipingiamo sugli oggetti, sui tessuti, li intrecciamo usando fibre di colore diverso per fare cesti, tappeti. Ma anche gli animali possono essere simboli, per esempio il cervo per noi rappresenta l’agilità e la forza. Non è solo un animale”.

Lo stesso linguaggio simbolico si trova nelle ceramiche millenarie trovate in numerosi siti archeologici amazzonici. A volte associate a incisioni rupestri – come quelle di Urucará – molto antiche come quelle a tratto semplice di Taperinha (ottomila anni) o più recenti e elaborate con complessi motivi geometrici e zoomorfi come quelle sviluppatasi tra il 400 d.C. e il 1400 d.C sull’Isola di Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni. 

C’è simbolismo anche nelle pitture rupestri disseminate dalla Colombia al Brasile. A Monte Alegre, in Pará, seicento dipinti, alcuni risalenti a oltre undicimila anni fa, costituiscono uno dei tesori antropologici meglio conservati del Brasile. Costellata di canyon, valli e grotte l’area archeologica è diventata sito del World Monuments Watch nel 2022, e considerata uno dei venticinque siti del patrimonio più importanti al mondo. 

Dodici chilometri di pareti rocciose dipinte nella Serranía de La Lindosa, in Colombia, sono conosciute come la “Cappella Sistina amazzonica”. È un’imponente collezione di affreschi rupestri risalenti a 12.500 anni fa, con figure geometriche, umane e animali, anche di specie estinte come il bradipo gigante. L’opera è considerata una delle più grandi testimonianze di arte figurativa del continente e offre uno sguardo unico sulla vita dei primi cacciatori-raccoglitori che popolarono la regione.

L’Amazzonia non vanta l’abbondanza di materie prime rocciose presenti nelle Ande e in Mesoamerica che ha permesso la costruzione delle piramidi Maya e dei templi Inca. Qui la monumentalità deve essere intesa in altri termini. L’archeologia moderna sta rovesciando la visione tradizionale della foresta come ambiente vergine e incontaminato, proponendone una versione plasmata dalle sue popolazioni. Non solo un patrimonio naturale quindi, ma anche culturale. L’arte è nel paesaggio, l’Amazzonia stessa è monumento.

Le prove a sostegno di questa nuova visione sono chiamate dai ricercatori “impronte digitali” dei popoli della foresta. Sono le tracce della loro millenaria occupazione, come i segni incisi sulla pietra, dipinti sulle ceramiche e nelle grotte o, addirittura, lasciati a terra. Questi ultimi sono chiamati geoglifi: forme geometriche realizzate sul paesaggio, estese su centinaia di chilometri quadrati. Sono cerchi, quadrati ed esagoni, datati tra il 500 a.C. e il 1500 d.C. Scavate nel terreno o accumulate come isole di terra, queste strutture grafiche hanno iniziato ad apparire nella regione negli anni Settanta, portate alla luce dalla deforestazione, ma ne sono emerse molte soprattutto negli ultimi vent’anni. Alcune tra le più belle foto aeree di queste straordinarie evidenze archeologiche sono visibili al MUSA, il Museo dell’Amazzonia a Manaus, che vi dedica ben due esposizioni permanenti: “Geoglifi dell’Amazzonia. Svelando il passato profondo”, recentemente inaugurata e ideata da Alceu Ranzi, paleontologo che per primo ha documentato i geoglifi in Acre, e “Amazzonia Rivelata” un primo assaggio del gigantesco lavoro che Eduardo Góes Neves, principale riferimento per l’archeologia amazzonica, sta realizzando con il suo team e che presenterà nei prossimi giorni a Belem, alla COP30.

Il direttore del MUSA – un prezioso spazio di scienza incastonato nella foresta – è Filippo Stampanoni Bassi, italiano con una lunga esperienza in archeologia regionale e insediamenti antichi amazzonici. “Il fatto che siano stati costruiti per un periodo così esteso implica che non furono il risultato di un’unica ondata culturale” mi spiega, “ma rappresentano una tradizione di lunga durata e un’occupazione del territorio stabile e complessa. Questi reperti smentiscono l’idea che l’Amazzonia fosse una giungla incontaminata prima dell’arrivo degli europei, rivelando invece una ricca storia di manipolazione e gestione del paesaggio”. Bassi ha accompagnato diversi lavori sull’arte rupestre ma la sua specializzazione sono i villaggi antichi, e partecipa attivamente al progetto Amazzonia Rivelata: “La maggior parte dei geoglifi è nascosta alla vista dalla fitta vegetazione ma negli ultimi anni l’impiego di nuove tecnologie ha trasformato la nostra capacità di leggere il sottobosco forestale”. 

“L’archeologia moderna sta rovesciando la visione tradizionale della foresta come ambiente vergine e incontaminato, proponendone una versione plasmata dalle sue popolazioni. Non solo un patrimonio naturale quindi, ma anche culturale. L’arte è nel paesaggio, l’Amazzonia stessa è monumento”.

La più rivoluzionaria per l’archeologia è stata la tecnologia di rilevamento e misurazione della distanza tramite luce, LIDAR (Light Detection and Ranging). Un sensore LIDAR può essere montato su un elicottero, un aereo o un drone, emette impulsi laser e misura il tempo impiegato dalla luce per colpire un oggetto (come le chiome degli alberi o il suolo) e tornare indietro. Nelle indagini archeologiche, i ricercatori utilizzano algoritmi per rimuovere la vegetazione dai dati e generare un modello tridimensionale estremamente dettagliato della superficie terrestre, senza bisogno di disboscare né di scavare. La frequenza del rimbalzo permette di identificare eventuali strutture presenti, costruite o scavate. Completamente invisibili a occhio nudo o con l’osservazione aerea tradizionale, in poche ore i geoglifi nascosti diventano visibili anche se coperti da foreste. Proprio come una radiografia, il LIDAR permette di vedere gli strati più profondi della storia amazzonica. 

I risultati finora raggiunti nel campo sono impressionanti e ci costringono a ripensare la densità di popolazione e l’organizzazione sociale delle civiltà pre-colombiane. Nel 2022, nell’Amazzonia boliviana, sono stati scoperti antichi centri urbani e piramidi nascoste. In totale, le aree mappate nel bioma hanno già rivelato più di mille complessi geometrici costituiti da argini, terrazzamenti, avvallamenti, valichi, fossati. Erano villaggi, centri cerimoniali, fortezze, erano dotati di canali, strade rialzate, lunghi tracciati, trappole per pesci, bacini idrici e campi terrazzati. Per l’archeologia, i geoglifi mostrano una pianificazione territoriale sofisticata, princìpi di urbanistica del paesaggio, ingegneria idrica, gestione agricola e una elaborata capacità di occupare e modificare il territorio senza distruggerne gli ecosistemi.

Alda ha lineamenti indigeni e lunghi capelli neri lucidi dai riflessi blu, come le sue sette sorelle, come lei, tutte bellissime. Quando si muovono in gruppo è inevitabile pensare alle guerriere amazzoni di cui parlavano i primi europei.

Le prossime saranno settimane intense, le dico. Tanti abitanti della foresta sono già in viaggio, dall’Ecuador la prima flottiglia è già partita, battelli carichi di parentes, extrativistas, ribeirinhos, quilombolas, beraideros si stanno dirigendo verso Belem. Probabilmente vedremo la maggior partecipazione di popoli tradizionali mai vista in una conferenza sul clima. 

“Siamo pronti”, mi risponde. “Stiamo ultimando la preparazione dei pigmenti e degli ornamenti da usare. Il grafismo è un potente strumento per scrivere la nostra resistenza, per questo lo tatuiamo sui nostri corpi, perché sia chiaro alla COP30 che il futuro dell’Amazzonia non è da inventare, è da leggere. È scritto nei nostri codici sacri, nei nostri alfabeti di immagini. L’Amazzonia non è soltanto un tesoro di carbonio e biodiversità da salvare per fini economici o climatici; è un’entità culturale, un luogo dove l’arte e la spiritualità sono state la tecnologia più efficace per la sostenibilità. La nostra relazione ancestrale con la foresta – incisa, dipinta o scavata a terra – è il codice che ci ha permesso di vivere in armonia con il nostro mondo. Per millenni”. 

Questo articolo, che sto scrivendo mentre ci prepariamo alla partenza per la COP30, uscirà in piena conferenza del clima, proprio nel giorno in cui Alda terrà uno dei suoi interventi davanti a un pubblico internazionale. So già che sarà nervosa ma impeccabile, taurina e fiera. Darà un messaggio così logico da sembrare un’equazione: per uscire dalla crisi climatica abbiamo bisogno di foreste; il nostro modello di occupazione ha prodotto la più grande foresta tropicale del mondo; lasciatevi ispirare dalla nostra storia e, insieme, ne usciremo.Io la seguo, lei è la leader, la tuxaua.

Emanuela Evangelista

Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, è impegnata da 25 anni nella difesa dell’Amazzonia, della sua biodiversità e dei suoi popoli. Specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, è membro SSC dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. È presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti. Vive nel cuore della foresta, in un piccolo villaggio sulle rive di un fiume, in una regione remota e abitata da popolazioni indigene e tradizionali. Il suo lavoro e i risultati delle sue ricerche hanno contribuito alla protezione di 600.000 ettari di foresta intatta, un’estensione pari a due terzi della Corsica. Per il suo impegno è stata insignita dal Presidente della Repubblica della carica di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il suo primo libro Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta (Laterza, 2023) ha vinto il premio Campiello Natura 2024.

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