Nel nostro Paese il discorso pubblico sulla scienza nutre una fiducia sconfinata nell'infallibilità degli esperti e rende la divulgazione un esercizio pacificante. Ora che l'impresa scientifica permea ogni aspetto delle nostre vite, occorre un nuovo approccio.
Delle tante profezie sbilenche che scienziati e filosofi positivisti hanno messo in circolazione a inizio Ottocento, ce n’è una che si è avverata in pieno: scienza e tecnologia non hanno semplicemente trasformato il nostro modo di vivere, hanno instaurato un nuovo ordine sociale. Oggi la tecnoscienza tocca tutto e tutto tocca la tecnoscienza, e come ha scritto Ed Yong cosa sia il giornalismo scientifico è una domanda che non dovremmo più nemmeno porci: lo è una donna che racconta la sua malattia, la storia culturale di un colore, un’inchiesta su dei barili tossici interrati, il ritratto di una città nei pressi di un’azienda aerospaziale. Che piaccia o meno, scrivere di quello che ci accade intorno, di questa realtà liquida in cui siamo immersi, è scrivere di scienza e tecnologia, dei loro usi politici, dei futuri che colonizzano, delle controversie che le agitano e dei conflitti sociali che innescano.
Eppure il giornalismo scientifico vive fortune alterne nel nostro Paese, dove ancora fatica a trovare riconoscimento. Da Benedetto Croce in avanti, si usa dire, la classe intellettuale italiana ha nutrito una certa diffidenza verso la cultura scientifica, che per lungo tempo non è stata considerata nemmeno tale – una cultura, appunto. Poi, un po’ alla volta, la scienza si è fatta largo nella comunicazione di massa attraverso la televisione, la radio, i giornali, anche se a prevalere in Italia è stato un approccio generalmente scolastico e pacificante alla divulgazione scientifica. Nel vademecum per giornalisti scientifici scritto da Piero Angela nel 2009, è evidente la preminenza dell’esposizione sul piacere di scoprire, della comprensibilità del racconto su quella che lo stesso Angela chiama “accensione” del lettore. La divulgazione, sentenzia il decano del giornalismo scientifico in Italia, “è destinata a far capire le cose a persone (anche coltissime) che non hanno la competenza necessaria”. A distanza di tre lustri e con una pandemia di mezzo, come si caratterizza il discorso mediale sulla tecnoscienza, e come sta evolvendo?
Sulle tendenze di fondo della copertura che i principali quotidiani italiani riservano alla tecnoscienza è stato da poco pubblicato il nuovo rapporto annuale di TIPS (Technoscientific Issues in the Public Sphere), un progetto di ricerca ormai decennale dell’unità di ricerca PaSTIS (Padova Science Technology & Innovation Studies) dell’Università di Padova, coordinata dal sociologo della scienza Federico Neresini e con la quale l’autore di questo articolo collabora. TIPS è una piattaforma di monitoraggio del discorso pubblico su scienza e tecnologia che analizza in modo quantitativo e longitudinale un grande corpus di articoli pubblicati sulla stampa nazionale e internazionale. Il rapporto annuale ha preso in esame gli otto maggiori quotidiani italiani («Corriere della Sera», «la Repubblica», «la Stampa», «il Sole24Ore», «il Giornale», «Avvenire», «il Messaggero» e «il Mattino»), lo spazio che hanno dedicato alla scienza nel 2024, i linguaggi predominanti, gli scienziati più in vista e l’evoluzione nel tempo dei temi ricorrenti, individuati attraverso una tecnica di topic modeling chiamata LDA.
Pur con tutti i limiti del distant reading, il quadro che ne emerge conferma l’intuizione di Yong. Nel nuovo rapporto TIPS, infatti, cresce rispetto agli anni precedenti la quota degli articoli etichettabili come “out-of-frame”, vale a dire riguardanti scienza e tecnologia ma pubblicati nelle sezioni di cronaca, politica, economia, cultura, esteri (il 39% degli articoli rilevanti per scienza e tecnologia). “Quello che osserviamo”, spiega Neresini, “è un aumento degli indici di coinvolgimento dell’apparato giudiziario, di conflitto sociale e soprattutto di rischio negli articoli analizzati, e questo riflette un rapporto sempre più stretto tra tecnoscienza e questioni sociali urgenti, come ad esempio la guerra e le crisi geopolitiche”. È una deflagrazione della tecnoscienza nelle altre sfere del dibattito pubblico che, ovviamente, ha subìto una brusca accelerata durante la pandemia di COVID-19. Come ha scritto lo stesso Yong all’acme dei contagi, “la notizia più importante dell’anno – forse del decennio – era di scienza, e i giornalisti scientifici sembravano nella posizione ideale per raccontarla”. Man mano che dilagava in ogni crepa della società, la pandemia stava però mostrando anche quanto il solito modo di scrivere di scienza fosse inadeguato.
Da quando il giornalismo scientifico ha iniziato istituzionalizzarsi, l’approccio dominante è stato quello del public understanding of science, o comprensione pubblica della scienza. Capisaldi del paradigma di cui proprio Angela è stato il massimo esponente nel nostro Paese sono il deficit model e l’intento pedagogico: il racconto della scienza è arcano per definizione, occorre trovare strumenti retorici per semplificarlo e renderlo così digeribile per un pubblico di non edotti. Per un po’ ha funzionato, poi però il modello dell’alfabetizzazione scientifica è andato in crisi, in molti ne hanno sottolineato i limiti e auspicato il superamento, ma di fatto questo approccio non è mai scomparso. “Sono molte le ragioni che spiegano la persistenza del deficit model nell’attenzione dedicata dai media alla tecnoscienza”, commenta Neresini, “nonostante gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia ne abbiano da tempo dimostrato l’obsolescenza”.
“Scrivere di quello che ci accade intorno, di questa realtà liquida in cui siamo immersi, è scrivere di scienza e tecnologia, dei loro usi politici, dei futuri che colonizzano, delle controversie che le agitano e dei conflitti sociali che innescano”.
I tentativi di spingersi oltre al modello educativo nel racconto pubblico della scienza hanno dato esiti anche peggiori. L’approccio oggi più influente, quello del public engagement with science, non ha saputo ad esempio resistere alle sirene dello storytelling fine a se stesso e della divulgazione somministrata in pillole. In questo tempo di epocali cambiamenti sociali trainati dall’innovazione tecnologica, scrivere di scienza non dovrebbe semplificare la comprensione della realtà, semmai renderla più vasta, articolata, profonda. È l’abisso che separa l’intellettuale dall’influencer, la comprensione informata della realtà dall’appiattimento algoritmico del discorso. “Comunicare la scienza nelle piattaforme digitali”, conferma Neresini, “ha posto delle nuove sfide per il giornalismo che si occupa di tecnoscienza, e certo ha prodotto una certa frammentazione e ipersemplificazione nel racconto di scienza e tecnologia”.
Ma la pandemia ha messo in luce anche altre tendenze di fondo, per esempio, la personificazione del discorso pubblico sulla scienza: “durante la pandemia pochi scienziati hanno monopolizzato l’attenzione mediale, configurandosi come vere e proprie media star”, spiega lo stesso Neresini, che alle virostar ha dedicato un precedente studio. I dati dai quotidiani segnalano una sorta di “effetto traino” esercitato dalla pandemia su diversi scienziati di spicco, che sono poi rimasti visibili e si sono espressi su temi d’attualità ben al di là dei propri ambiti di competenza, con risultati spesso discutibili e una certa “tirannia intellettuale”.
Si tratta di un costume diffuso, registrato per esempio anche negli Stati Uniti dai politologi Jacob Hale Russell e Dennis Patterson nel loro The Weaponization of Expertise: How Elites Fuel Populism (2025). Secondo Russell e Patterson, anziché consentire ai decisori politici e ai cittadini di prendere decisioni migliori, gli esperti hanno talvolta abusato della loro autorità per precludere la dialettica democratica. Durante la pandemia, in particolare, molti degli scienziati più in vista hanno polarizzato il dibattito più di quanto l’abbiano ammorbidito, alimentato il vento contrario del populismo anziché contrastarlo. Il fatto è che nutriamo una fiducia sconfinata nell’infallibilità degli esperti, ma l’appello incondizionato a “seguire la scienza” maschera alle volte il paternalismo tecnocratico delle élite e l’aspettativa esagerata che i technical fix possano risolvere facilmente ogni problema sociale.
Un’altra tendenza del discorso mediale sulla tecnoscienza che si è ossificata in corrispondenza della pandemia è l’andamento del dibattito secondo cicli di attenzione. Con la fine dell’interesse per COVID-19, infatti, è evaporato ogni dibattito pubblico sui rischi dei virus emergenti, su come mitigarli o adattarvisi, come se di pandemie si potesse (o dovesse) parlare solo mentre accadono. A signoreggiare nella narrazione post-emergenza è oggi ovviamente l’intelligenza artificiale, che ha relegato ai margini anche il dibattito sulla transizione energetica e la copertura del riscaldamento globale – in ribalta solo ciclicamente, in corrispondenza di alluvioni e ondate di calore estive, come osservato già un decennio fa dall’esperta di media studies Monika Djerf-Pierre. “L’unico tema a mantenersi stabilmente al centro discorso pubblico sulla scienza”, aggiunge Neresini, “è quello che riguarda la medicina e la ricerca biomedica: argomenti che non passano mai di moda e costituiscono il leitmotiv della tecnoscienza sui media anche nel nostro Paese, nonostante fluttuazioni tra grandi aspettative e polemiche ricorrenti”.
Sono il benaltrismo e l’antropocentrismo alla base della nostra cultura, in parte riflessi e in parte riprodotti dai mezzi di informazione, a far sì che il dibattito corrente si concentri sull’intelligenza artificiale e derubrichi il riscaldamento globale a minaccia secondaria. E anche quando si occupa di ambiente, il più delle volte il giornalismo nostrano lo fa non in quanto tema epocale, ma in relazione alla cura del verde urbano e al turismo, alle conseguenze della decarbonizzazione sull’economia e alla transizione energetica come opportunità di business. “I grandi numeri ci dicono che ambiente e transizione energetica faticano ancora a rimanere mediaticamente rilevanti in Italia”, commenta Neresini, “dove tendono a persistere forme di subnegazionismo e di fiducia messianica nelle potenzialità della tecnologia di risolvere la crisi climatica”.
Nella sua guida per giornalisti scientifici Piero Angela chiosava che “un punto cruciale della scrittura divulgativa è che non basta essere chiari, bisogna riuscire a coinvolgere l’emotività. In modo diverso naturalmente, ricorrendo a tecniche più nobili, percorrendo strade più indirette, ma avendo sempre come bersaglio strategico l’accensione”. È un buon punto di partenza, ma certo non basta più in un tempo in cui scienza e tecnologia hanno permeato ogni aspetto della vita in società. Quel che servirebbe è rompere con l’immagine idealizzata, normativa e quasi religiosa della scienza promossa dagli approcci paternalistici e tecnocratici alla divulgazione, per approdare a una comprensione dell’impresa scientifica più laica e fondata, ma al tempo stesso più onesta e dialogica, che aiuti a difendere la comprensione comune del mondo almeno quanto a criticarla.