Che cosa succede alla letteratura quando il suo sfondo abituale fa irruzione tra i protagonisti?
Il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich mostra un uomo con cappotto e bastone, estremamente vestito, estremamente cittadino, mentre osserva da uno scoglio il mare in tempesta. Il dipinto è del 1818 e racconta un essere umano fuori dalla natura, una cultura in esilio, unico soggetto di fronte a un mondo da contemplare, in cui specchiarsi (e all’occorrenza sfruttare).
Molto tempo dopo, nel dicembre del 1972, gli astronauti dell’Apollo 17 scattano una delle fotografie più importanti della storia umana: è la Blue Marble, l’immagine che per la prima volta ci ha permesso di vedere la Terra nella sua interezza. Ce n’erano state altre, la prima del 24 ottobre del 1946, ma quella del 1972 è a colori e mostra un emisfero interamente illuminato: la Terra appariva come un pianeta blu, fragile e intero, sospeso nel buio. Fu una rivoluzione. Da così lontano gli umani erano invisibili, come i microrganismi che compongono un corpo. Non molti anni più tardi emergeva la cosiddetta “ipotesi Gaia” di Lynn Margulis e James Lovelock. Secondo i due biologi la terra funzionerebbe come un unico organismo vivente in cui tutte le componenti interagiscono per mantenere condizioni favorevoli alla vita: proprio come un corpo.
In quei decenni di corsa allo Spazio, al benessere economico e agli idrocarburi, il modo di percepire e raccontare il paesaggio e il non umano mutava quasi in senso opposto, e metteva in discussione il motore di quella corsa. Mutava perché avevamo visto la Terra da fuori, perché tutto sommato era piccola e finita, e anche perché l’inquinamento, la cementificazione, i danni inferti da prodotti chimici tossici come il DDT o l’agente arancio ci facevano sentire più partecipi e vulnerabili e davano vita ai primi movimenti ambientalisti. Proprio guardando per la prima volta la Terra da fuori, si riscopriva di farne parte. E questo si riversava nell’immaginario di chi raccontava storie. In Italia, autori come Calvino, Buzzati o Anna Maria Ortese risignificavano il ruolo del paesaggio e del non umano nelle loro narrazioni: li toglievano dallo sfondo e li portavano in primo piano.
“In Italia, autori come Calvino, Buzzati o Anna Maria Ortese risignificavano il ruolo del paesaggio e del non umano nelle loro narrazioni: li toglievano dallo sfondo e li portavano in primo piano”.
Se oggi dovessimo chiederci che cos’è la letteratura ambientale forse avrebbe senso definirla come quella letteratura che non lascia il paesaggio sullo sfondo ma ne fa un protagonista. In inglese il termine climate fiction ha un significato più circoscritto, si riferisce a una fantascienza che affronta i cambiamenti climatici: è tendenzialmente ambientata nel futuro e spesso relativa a catastrofi più o meno apocalittiche. Circoscriverla nel futuro e nella catastrofe aveva senso fintanto che la crisi climatica apparteneva al futuro, all’altrove, alle paure notturne, agli incubi: ora non è più così. Ma questo termine – climate fiction, o letteratura ambientale – ci può ancora servire. Negli ultimi anni, e soprattutto da quando nel 2019 l’autore indiano Amitav Ghosh ha accusato la letteratura di un “fallimento culturale e di immaginazione” nel raccontare la crisi climatica, la sfida è stata colta e sono aumentate a dismisura le narrazioni che integrano la crisi climatica nel presente e, così facendo, integrano il paesaggio alla storia. Se la crisi climatica ci ha fatto capire qualcosa – a noi bianchi e occidentali che l’avevamo scordato – è che siamo nel mondo e con il mondo, e non fuori o separati da esso. Ci siamo noi, e ci sono tutte le altre forme di vita di cui del resto i nostri stessi corpi sono composti. La letteratura ambientale si assume il compito difficile ed entusiasmante di ricollocare l’umano, spostandolo dalla sua solitudine e riportandolo in mezzo agli altri elementi. E di raccontare dunque il paesaggio non come il fondale di una scenografia ma come elemento che modifica e viene modificato, in continuo dialogo con l’umano. Mai puro, mai idealizzato, sempre reale.
Già in Critica ai concetti geografici di paesaggi umani (1961), il geografo italiano Lucio Gambi proponeva un’idea di paesaggio inteso non come neutrale e apolitico, ma come forma esteriore di relazioni fra società e ambiente, costantemente trasformato non solo dall’azione umana ma anche dalle sue rappresentazioni. Circa dieci anni più tardi nasceva negli Stati Uniti l’ecocritica, una disciplina che, ai suoi albori, si proponeva di studiare i modi in cui la letteratura e tutte le altre arti restituiscono il rapporto fra gli esseri umani e il loro ambiente. Si trattava di osservare le storie che raccontiamo o le immagini che produciamo con un’attenzione particolare al paesaggio, non come contenitore, non come semplice ambientazione della storia, ma come agente in relazione con gli altri agenti della storia. Erano gli anni Settanta, gli anni di Blue Marble. Il momento in cui, fra la corsa allo spazio e agli idrocarburi, emergeva la crisi ambientale: la letteratura e la critica non potevano non accorgersene.
“La letteratura ambientale si assume il compito difficile ed entusiasmante di ricollocare l’umano, spostandolo dalla sua solitudine e riportandolo in mezzo agli altri elementi”.
Non c’è una misura di quanto e come è cambiato il modo di raccontare questa relazione negli ultimi decenni. Ci sono autori, forse la maggioranza, che non se ne sono occupati per nulla, altri come Calvino hanno lasciato che il non umano invadesse la propria immaginazione e concezione del mondo. Le capre ci guardano era il titolo di un suo articolo sui test atomici al largo dell’Atollo Bikini: “Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali”, scriveva. Non più l’uomo col cappotto che osserva il mare ma l’uomo osservato, oggetto di uno sguardo giudicante.
In un dialogo del film Le otto montagne (2022) tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, Bruno, sempre vissuto in montagna, apostrofa così un gruppo di cittadini in vacanza:
“Siete solo voi di città che la chiamate Natura. Perché è così astratta nella vostra mente che è astratto anche il nome”.
“Te come la chiami invece?”
“Qua diciamo… busc, pascul, fium, crap, senter. Cose che si possono indicare col dito, o usare”.
Busc, pascul, fium, e l’umano è uno di quei pezzi, uno fra i tanti, che si possono indicare con il dito, o usare. È dentro, non fuori. Al contrario, nel quadro di Friedrich, la Natura è qualcosa di inerte da cui prendere quello che ci serve. Possiamo contemplarla o sfruttarla: l’impressione, comunque, è che sia lì per noi. Anche opere come Walden ovvero vita nei boschi di Hanry David Thoreau (1845) sono in parte complici di questa visione: propongono un paesaggio idilliaco e astratto, non gli concedono di essere reale, lo mantengono allo stato di oggetto guardato. Come nota Serenella Iovino, docente di Letteratura ecocritica in North Carolina, Calvino prende le distanze da questa idea romantica e nordamericana che lega la natura al bello e al sublime e allo stesso tempo riabilita l’urbano: non c’è una netta separazione fra paesaggio urbano e naturale, il paesaggio è sempre ibrido oltre che protagonista. Possiamo pensare a Marcovaldo e all’episodio dei funghi raccolti nell’aiuola di un viale, o al giovane che si trasferisce in una città del nord Italia e si trova immerso fisicamente ed emotivamente in una “Nuvola di Smog”, che dà nome al racconto ed è la vera protagonista.
“Nessuno qui è sullo sfondo, nessuno qui è oggetto. Umani, pioppi colonizzatori, fabbriche dall’aspetto di megattere: tutto è in relazione, modificante, agente”.
Fra i romanzi usciti in Italia negli ultimi mesi ce ne sono due che mostrano questa incursione del paesaggio come elemento concreto, orizzontale alla narrazione dei protagonisti umani. Sono Tempo di ritorno di Ferdinando Cotugno e Gli uomini pesce di Wu Ming 1. Nel primo il paesaggio è radicalmente urbano. Siamo a Napoli e nel raccontare la storia di una famiglia e del suo rapporto con gli idrocarburi, protagonista è l’Italsider di Bagnoli: un gigante industriale che per decenni ha plasmato la costa sopra Napoli e la vita dei bagnolesi, per poi morire “pianissimo e mai del tutto”. L’area della fabbrica è una colmata di cemento di 195.000: cemento e scarti dell’altoforno che hanno divorato la costa per fare spazio alle attività dell’acciaieria. Cotugno ne parla così: “La fabbrica è stata un animale in grado di adattarsi ai tempi, a tutti i tempi. Nel 1943 i guastatori nazisti della Wehrmacht l’avevano fatta a pezzi come rappresaglia di guerra e gli operai l’avevano rimessa in piedi, pezzo dopo pezzo, da soli, senza aspettare i padroni. Si chiamava ILVA, cambierà nome in Italsider all’inizio degli anni Sessanta, arriverà a produrre ogni anno un milione e mezzo di tonnellate di travi, tondi per il cemento armato o per i tubi, nastri laminati a caldo, vergelle. A Bagnoli la chiamano cantiere per la sapienza linguistica di indicare un corpo inquieto, insonne, una costruzione che non si completerà mai, perché quella fabbrica produce innanzitutto se stessa”. La descrive come una “una megattera spiaggiata, poggiata su un fianco”, incastonata nel paesaggio. Ora che è abbandonata la vegetazione la sta ricolonizzando e fra le mura della fabbrica e il cemento della colmata crescono pioppi, querce, robinie: un’alleanza imprevista e quanto mai selvatica fra mondo naturale e paesaggio urbano. Nessuno qui è sullo sfondo, nessuno qui è oggetto. Umani, pioppi colonizzatori, fabbriche dall’aspetto di megattere: tutto è in relazione, modificante, agente. Nell’immaginario di un autore di oggi, che voglia raccontare la propria famiglia e la propria città calandoli in una storia di crisi climatica e corsa agli idrocarburi, il paesaggio entra con prepotenza nella narrazione. Non potrebbe fare altrimenti, non potrebbe stare sullo sfondo e soprattutto non potrebbe essere uno sfondo.
In Gli uomini pesce, uscito a fine 2024, Wu Ming 1 dichiara questo intento nero su bianco nella prima pagina. Come prima di un testo teatrale sono elencati i personaggi, lui avverte: “In questo romanzo troverete: Erminio. Già confinato a Ventotene, partigiano della 35ma bis brigata Garibaldi Mario Babini. Ferrara. Città di sottomondi e reticoli nascosti. Il Delta-Delta. Di solito è chiamato «Delta» (del Po, s’intende), ma ne è solo una parte. SonnicAlly. Marito di Antonia. Musicista e soundscape artist del Minnesota. (…) Homo Bacteatus. Se ne analizzano gli escrementi”. E così via. I personaggi sono elencati in una gerarchia misteriosa che intenzionalmente mescola fra loro umani, città, rami fluviali, mostri anfibi. Gli uomini pesce racconta moltissime cose: una verità svelata da una morte, la Resistenza, vecchi partigiani che non hanno mai smesso di pensarci, il presente di una donna e di un uomo che faticano a riprendersi da un incidente e imparano di nuovo ad amarsi, la siccità e la ondate di calore del 2022. Ma soprattutto è una storia di confini fragili e soglie umide. Di specie che si confondono. Il Polesine è zona anfibia, di acqua e terra è l’anfibio Homo Bacteatus, mezzo uomo mezzo pesce, forse mostro del Delta, forse assassino in fuga. I margini fra specie, identità, generi e dimensioni della realtà si fanno sottili, gli argini si rompono.Più che mero racconto di catastrofi, la climate fiction diventa sempre più un’attitudine, un modo di guardare e di disporre i pesi nella narrazione. Qui, come in Tempo di ritorno, la letteratura fa questo suo lavoro, entusiasmante e quasi magico, di riposizionare il paesaggio nelle storie e l’umano nel mondo, smussando i confini, mescolando osservatori e osservati.