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Alessio Giacometti
Il sublime industriale

Il Sublime Industriale Cover Oil Bunkering #9, Niger Delta, Nigeria, 2016 Photo © Edward Burtynsky, Courtesy Flowers Gallery, London
arte clima natura

Le fotografie di Edward Burtynsky trasformano i paesaggi devastati dai processi estrattivi in opere d'arte ipnotiche. Ma questa bellezza ci avvicina o ci allontana dalla verità?

In uno dei dittici della mostra BURTYNSKY: Extraction/Abstraction spicca una veduta aerea di una cava di marmo a Carrara. Depositi calcarei risalenti a trenta milioni di anni fa sono stati svuotati con perizia dagli esseri umani fino a diventare canyon dalle pareti bianche e spigolose, intagliate nel fianco della montagna con geometrico rigore. Gli antichi romani chiamavano questa pietra perlacea marmor lunensis, per la sua affinità con il nitore lunare, ma furono soprattutto gli artisti rinascimentali ad alimentarne la leggenda. Il David di Michelangelo fu scolpito da un blocco unico di marmo di Carrara, così come la Pietà vaticana. La pietra statuaria andò esaurendosi già alla fine del Novecento, ma il marmo odierno, con le sue venature grigie, rimane ancora il più pregiato e richiesto per pavimentare le case dell’alta borghesia internazionale. 

Pare che dalle cave di Carrara sia stato estratto più marmo che da qualsiasi altro luogo sulla Terra, e che negli ultimi cinquant’anni si sia scavato più che nei due millenni precedenti. È un record di cui i cavatori carraresi vanno fieri, ma sanno anche che il marmo è al tempo stesso la loro benedizione e il loro anatema. L’estrazione devasta il territorio, arricchisce oscenamente i padroni e fa ammalare i lavoratori. I residui degli scavi vengono macinati e impastati in dentifrici e vernici, ma le polveri sottili che si librano in aria prima o poi precipitano nei polmoni o sbiancano i fiumi. L’arte non è che un sottoprodotto dell’estrazione del marmo, proprio come la distruzione del paesaggio e l’avvelenamento dei suoi abitanti.

Si potrebbero raccontare storie analoghe per ognuno degli ottanta pannelli di BURTYNSKY: Extraction/Abstraction, fino a qualche mese fa in anteprima italiana al museo M9 di Mestre, a Venezia. La mostra attinge gigantografie da oltre quarant’anni di progetti sull’impatto dell’estrattivismo firmati da Edward Burtynsky, che già con la mostra Anthropocene del 2019 si era guadagnato la fama di essere il più importante fotografo ambientale vivente – il fotografo dell’Antropocene, appunto. Un elemento ricorrente sembra attraversare le sue ossessioni ecologiche: come una colonia di insetti necrofori, noi umani stiamo consumando il pianeta con “incursioni industriali su larga scala”, solo non ci preoccupiamo del deterioramento in atto per un fatale difetto di prospettiva. La fotografia, la più documentaristica delle arti, può renderci forse consapevoli, più sensibili allo sfruttamento in corso?

Da mezzo secolo Burtynsky visita con il suo obiettivo i territori della seconda natura che noi altri non abbiamo mai visto, non vedremo mai, e probabilmente nemmeno vorremmo mai vedere direttamente. Rimossi dall’esperienza comune, sono luoghi dei quali possiamo avere solo una percezione astratta: voragini di miniere a cielo aperto, stagni abissali di fanghi industriali, montagne di detriti e cimiteri di rifiuti metallici, sterminate pianure tossiche e altre atrocità che compongono la topografia del paesaggio estrattivo terrestre. È vero, abbiamo iniziato a parlare di paesaggio quando ormai la natura incorrotta era già da tempo violata, ma c’è una differenza irriducibile tra il paesaggio naturale e quello estrattivo, il locus amoenus e il locus terribilis.

Salinas #2, Cádiz, Spain, 2013 Photo © Edward Burtynsky, Courtesy Flowers Gallery, London

Salinas #2, Cádiz, Spain, 2013 Photo © Edward Burtynsky, Courtesy Flowers Gallery, London

Dallo sfruttamento delle risorse naturali dipende quel che ci riguarda più distintamente, vale a dire il nostro stile di vita, eppure per la maggior parte di noi l’industria è diventata qualcosa di esotico e semisconosciuto. Non lo è per Burtynsky, che prima di arrivare a guadagnarsi da vivere con la fotografia ha lavorato in uno stabilimento della General Motors assieme al padre, immigrato ucraino e paesaggista dilettante. L’aspetto sconvolgente dell’industria estrattiva è la sua scala immane, la voracità con cui si è fatta largo nel mondo, trasformandolo e adattandolo alle esigenze del profitto e del consumo. Per ritrarla nella sua impressionante interezza, Burtynsky si avventura fino agli angoli più remoti e inaccessibili della civiltà: campi petroliferi e raffinerie, saline esauste, miniere e bacini di decantazione, segherie desolate, complessi manifatturieri e improbabili impianti di aridocultura.

Vedere tutto ciò in fotografia è già uno shock, ma ancora non basta: bisogna guardare la Terra dall’alto per capire quello che le stiamo facendo. Il dramma dell’Antropocene è che ci siamo immersi dentro, non riusciamo a visualizzare il celebre iperoggetto da un “di fuori”, un centro di osservazione esterno che si estenda su ogni dove. Burtynsky viaggia alla ricerca di prospettive sopraelevate che gli permettano di allargare l’obiettivo delle sue inquadrature, e per alzare il punto di vista sulla realtà, letteralmente e metaforicamente, il fotografo dell’Antropocene non fa economia di ausili: droni, elicotteri, trampoli, ponteggi, impalcature, veicoli a benna pneumatica, ascensori a forbice e carrelli elevatori. Nello sforzo costante di andare oltre il limite fisico del suo mezzo espressivo – il perimetro rettangolare della fotografia – e di accumulare così quella distanza che gli permetta di cogliere l’improvvida ampiezza dei siti di estrazione. 

Liberato dalla gravità terrestre, Burtynsky indaga i confini più estremi e inviolabili del paesaggio industriale. Lo stordimento è totale: l’industria estrattiva invade i luoghi e prende tutto quello che le serve, fino all’ultima risorsa, poi se ne va lasciandosi dietro gli scarti. La sua avanzata appare inarrestabile, e non conosce limiti: prosciugando le acque fossili, le miniere agricole delle Alte Pianure americane si sono ad esempio spinte fin nei luoghi più impervi, anche lì dove era l’ambiente stesso a respingerle. E poi c’è l’estrazione di valore dagli esseri umani: i lavoratori in un macello di polli del Jilin sono loro stessi polli da batteria, i corpi giacimenti da sfruttare e buttare una volta esausti. Si ha la sensazione che l’estrazione finirà solo quando saranno esauriti i materiali da scavare, ma anche allora i suoi effetti rimarranno per l’eternità sotto forma di scorie – i famigerati marker geologici dell’epoca umana. Quando Burtynsky atterra nei luoghi della rovina di cui ha letto o sentito parlare, spesso non rimane che fotografarne le cicatrici e i rottami.

Burtynsky On The Bonneville Salt Flats, Usa, 2008 Photograph By Joseph Hartman, Courtesy Of The Studio Of Edward Burtynsky

Burtynsky On The Bonneville Salt Flats, Usa, 2008 Photograph By Joseph Hartman, Courtesy Of The Studio Of Edward Burtynsky

Della tessitura del paesaggio estrattivo colpiscono soprattutto le geometrie, la serialità delle linee e i colori psichedelici, ma anche il pensiero come calcolo, la razionalità così razionale da diventare folle, grottesca, persino affascinante. Quella di estetizzare la catastrofe è una critica che spesso viene mossa alla fotografia di Burtynsky: le sue rappresentazioni dell’estrattivismo sono più incantevoli che inquietanti, più ipnotiche che repellenti, ma con la crisi ambientale che incombe, è davvero accettabile che l’orrore ci seduca? Come ha scritto Marc Mayer, curatore della mostra, ci eravamo convinti della crudeltà e dello squallore del paesaggio industriale ben prima che prendessimo coscienza del suo impatto ambientale, eppure c’è qualcosa di lirico, quasi di poetico in questi siti di estrazione immortalati dal cielo. Con tono elegiaco, Burtynsky parla di “sublime industriale” per raccontare come riesce a trasformare lo scenario grezzo e brutale dei paesaggi estrattivi nell’apoteosi della materia e dell’operosità umana che la trasforma. Psicopompo dell’inferno terrestre, il fotografo dell’Antropocene ritrae una miniera d’oro in Australia come fosse una bolgia dantesca, un torrente dell’Ontario rosso di ruggine come un diabolico Stige, e poi teatri di pietra in Siberia che paiono scavati da divinità ctonie e pozze di petrolio africane che alludono a inavvicinabili fonti ancestrali. La malia che emana da queste fotografie ci avvicina alla comprensione di quello che sta succedendo, oppure ci allontana?

All’inizio del ventesimo secolo qualcosa è cambiato per sempre nel mondo dell’arte: la rappresentazione figurativa e l’adesione al paesaggio hanno lasciato spazio all’esplorazione della forma, del colore e del significato in quanto tali. È stato l’avvento stesso della fotografia a contribuire a questo rivolgimento epocale: quando i primi dagherrotipi hanno iniziato a diffondersi si è subito intuito che non vi sarebbe stato futuro per ritrattisti e paesaggisti. Più tardi, la tendenza all’espressionismo astratto ha permeato anche la fotografia, sempre meno vincolata alle origini della sua funzione testimoniale.

Burtynsky Allestimenti 5 (1)

Allestimento della mostra BURTYNSKY: Extraction/Abstraction, courtesy del museo M9 di Mestre

Burtynsky si inserisce in questa trasformazione radicale delle arti figurative cedendo consapevolmente alla trappola dell’astrattismo. È a Pollock, a Klimt, a Klee e a Kandinskij che si ispira nella sua paranoica rappresentazione delle vaste distese geometriche dell’industria mineraria, delle trame surreali dell’agricoltura circolare o delle sfavillanti campiture di colore delle monocolture. Dopo l’estasi iniziale, occorre affondarci dentro lo sguardo per capire che quelli sono i luoghi dello sfruttamento e della miseria umana.

Il fatto è che da quando abbiamo iniziato a dipingere le pareti delle caverne la natura è sempre stata la nostra fissazione. Poi le arti hanno svoltato verso l’astratto, stanche della mimesis e della natura come soggetto primordiale. Nello stesso periodo in cui gli artisti decretavano questo storico distacco inventando nuovi linguaggi – dal color field al tachisme, dall’hard edge all’action painting –, gli industriali imprimevano una nuova forma alla società plasmando uno stile di vita che per sostenersi esige vengano estratte sempre più risorse dall’ambiente, fino al punto di non ritorno. C’è qualcosa di sinistro nella parentela tra astrazione ed estrazione, in quella sensazione ibrida di fascinazione e repulsione che avvertiamo di fronte ai tentativi più riusciti di dare una veste alla fine del mondo. La drammatizzazione visiva della perdita è ciò che rende ambigua l’opera di Burtynsky, ma è anche ciò che la rende credibile. A spiegarlo è Mayer: alcune persone possono essere convinte dell’impatto umano sul pianeta su base logica e argomentativa, altre solo su base estetica. È come dire che l’arte serve quando è scomoda, quando ci mette a disagio o scalfisce la nostra indifferenza. Come la tragedia greca, le fotografie di Burtynsky ci affascinano e ci turbano: ci lasciano addosso una sorta di inconsolabile tormento per l’avvenire, un patimento dello spirito che solo certe antiche visioni riescono a dare.

foto in copertina: Bunkering #9, Niger Delta, Nigeria, 2016 Photo © Edward Burtynsky, Courtesy Flowers Gallery, London

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti ha un dottorato in scienze sociali e si occupa di ambiente, energia, studi sulla scienza e la tecnologia. Scrive per la televisione e per diverse riviste culturali online.

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