È da 50 anni che "I sabotatori" di Edward Abbey è un romanzo di riferimento sia per gli scrittori dell'ambientalismo radicale sia per gli ecoattivisti. Ma la letteratura può cambiare le politiche della natura?
Il dottor Sarvis vive due vite parallele e opposte, integrato di giorno e apocalittico di notte: le mani che asportano i tumori sono le stesse che abbattono i cartelloni pubblicitari sulla Route 66. La sua amante e segretaria, Bonnie Abbzug, a ventott’anni ha dalla sua un’inservibile laurea in francese, un passato da ballerina, un giovane corpo in buona salute e una mente irrequieta in cerca di ribellione. Per distrarsi accompagna il chirurgo nelle sue “escursioni notturne di ristrutturazione dell’arredo stradale”. Seldom Seen Smith è invece un mormone “selvatico” e non praticante, fa la guida fluviale lungo il Colorado e in segreto conduce una personale battaglia contro la colonizzazione del territorio dei nativi. Infine, George Washington Hayduke: un nerboruto reduce del Vietnam che, segnato irrimediabilmente dalle atrocità del napalm, preferisce la vita da reietto al reinserimento nella società americana, contro la quale cospira azioni eversive.
I destini dei quattro personaggi convergono in una pericolosa avventura picaresca quella notte in cui, attorno al falò del loro campo base nel deserto, sanciscono la formazione di una banda – la Monkey Wrench Gang – avente per scopo il sabotaggio su vasta scala delle infrastrutture estrattive che devastano le terre selvagge dell’ovest. I quattro fuorilegge ostacoleranno con ogni mezzo necessario gli interessi industriali sull’ambiente incontaminato, sfuggendo alla morsa delle autorità e fantasticando la demolizione del maggiore degli ecomostri tra l’Arizona e lo Utah: la diga del Glen Canyon.
Sono passati esattamente cinquant’anni dall’uscita di I sabotatori (1975), il romanzo di Edward Abbey che, consegnando alla storia le rocambolesche imprese della Monkey Wrench Gang, ha dato vita a una tradizione letteraria tra le più controverse e sotterranee: quella che ha per soggetto l’ambientalismo radicale. In un modo o nell’altro, tutti gli scrittori del canone venuti dopo Abbey hanno preso il suo libro come riferimento, se non addirittura come modello.
In Il sussurro del mondo (2019), Richard Powers racconta ad esempio di un drappello di attivisti che si dà all’“eco-taggio” o, appunto, al “monkey wrenching”. In Il ministero per il futuro (2020) di Kim Stanley Robinson, il gruppo segreto dei “Figli di Kali” attacca i centri del potere fossile con sciami di droni, mentre in Colibrì Salamandra (2022) di Jeff VanderMeer la protagonista si mette alla ricerca di un’ambientalista radicale scomparsa in circostanze misteriose. I sabotatori ebbe da subito un impatto generazionale, soprattutto sul movimento conservazionista statunitense, e pose per primo una domanda che ancora oggi divide la società letteraria: la letteratura può influenzare le politiche della natura? E come dovrebbero reagire gli scrittori alla crescente devastazione ambientale?
Negli anni Sessanta, la “terra delle creature libere” produsse un rigurgito controculturale – il New Left – che non ha eguali nella storia americana e plasmò una nuova generazione di scrittori impegnati. Tra questi, Abbey si laurea in filosofia con una tesi dal titolo Anarchism and the Morality of Violence, nella quale mette a confronto le tesi di Godwin, Proudhon e Bakunin, e dedica lo scritto nientemeno che a Ned Ludd. Un mix di filosofia libertaria, anarchismo hippie e cultura da cowboy permea I sabotatori, così come il saggio autobiografico Desert solitaire (1968) che ne fa da fondamento teorico.
Anarchismo a parte, Abbey s’inserisce nel solco della tradizione di filo-naturalisti che, come John Muir, Ralph Waldo Emerson e David Thoreau, già a metà Ottocento avevano teorizzato la necessità di preservare la wilderness del continente nordamericano, soprattutto per il suo valore estetico e sentimentale. Intorno all’ideale di bellezza incontaminata del lontano West i conservazionisti avevano infatti edificato una forma di “ambientalismo romantico” che anche Abbey assimila, pur tentando di superarne i limiti. Durante gli studi, infatti, comincia a lavorare come guardia forestale ed è proprio constatando lo stato di lento disfacimento dei grandi parchi nazionali che si convince di dover abbandonare la resistenza pacifica dei conservazionisti in favore di un approccio interventista.
Dopo la morte della moglie per leucemia, Abbey inizia segretamente a raccogliere materiali per il suo romanzo sulla cricca di eco-sabotatori. Entra a far parte di un gruppo di attivisti radicali, studia alcuni vecchi manuali di demolizione e acquisisce informazioni tecniche sulla produzione di esplosivi artigianali. La mente dello scrittore funziona così: parcheggia l’idea di un libro in un angolo protetto del cervello e la alimenta per anni, trattenendo tutto ciò che è funzionale alla trama e saccheggiando dettagli dalle vite degli altri.
Il personaggio di George Washington Hayduke, il massimalista della banda, è dichiaratamente ispirato a Doug Peacock: veterano dal Vietnam che per guarire dal disturbo post-traumatico si ritira a vivere da eremita nelle terre selvagge e diventa attivista per la difesa dei grizzly – insomma, un personaggio anarchico e incendiario, in cerca di autore proprio come il Timothy Treadwell di Werner Herzog e il Christopher McCandless di Jon Krakauer. Seldom Seen Smith e Abbie Smith sono anch’essi ispirati ad altri due ambientalisti attivi nel Southwest degli anni Sessanta, Ken Sleight e Ingrid Eisenstadter, mentre il personaggio di Doc Sarvis, teorico del gruppo, è modellato sullo stesso Abbey.
“Tutti i romanzieri del canone ambientalista venuti dopo Abbey – da Richard Powers a Jeff VanderMeer – hanno preso il suo libro come riferimento, se non addirittura come modello”.
La letteratura imita continuamente la realtà, se ne appropria e la dilata, ma accade anche il contrario: talvolta è la realtà che si conforma alla letteratura, anche se con esiti non controllabili. Come altri libri dello stesso genere letterario, I sabotatori non è stato scritto con l’intento catechistico di radicalizzare una nuova generazione di attivisti, almeno non necessariamente. Il fatto è che il confine tra realtà e finzione letteraria è sempre permeabile e precario, in un verso e nell’altro.
Prima di diventare Unabomber, Ted Kaczynski lesse e rilesse svariate volte L’agente segreto (1907) di Joseph Conrad, nel quale il protagonista organizza un attentato all’Osservatorio di Greenwich contro l’idolatria del progresso scientifico. Come “Il professore” del romanzo, Kaczynski lasciò la carriera accademica per ritirarsi nella natura e progettare la propria rivoluzione antitecnologica. Alcuni dei suoi pacchi bomba furono spediti con gli pseudonimi Conrad e Konrad. Alle volte l’effetto psichico della finzione è così potente che, anziché influenzare la realtà, la letteratura può addirittura produrla.
I sabotatori diventa “reale” nel 1979, quando un pugno di conservazionisti che avevano letto avidamente il libro fonda il movimento di matrice radicale Earth First!. Come i personaggi di Abbey, il gruppo professa un ambientalismo estremista opposto al riformismo dominante, e assieme ad altre associazioni militanti dell’epoca commette migliaia di atti vandalici in nome della tutela ambientale: dai graffiti sui muri di proprietà private alle vetrine distrutte dei negozi, dal taglio di pneumatici agli incendi alla rete elettrica.
Dave Foreman, uno dei fondatori del gruppo, pubblica anche un celebre manuale di how-to per ecoattivisti radicali intitolato Ecodefense: A Field Guide to Monkeywrenching. Nel 1981 i militanti di Earth First! arrivano a compiere un’azione dimostrativa proprio sulla diga del Glen Canyon: srotolano un lungo nastro nero per simulare una crepa lungo la barriera di calcestruzzo e coronano metaforicamente il sogno dei quattro sabotatori del romanzo di Abbey. La realtà completa la letteratura, la disarticola e la riarticola, senza soluzione di continuità tra i due mondi.
A motivare la Monkey Wrench Gang nelle sue scorribande è un istinto innato e ancestrale, la percezione subconscia che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nella devastazione della natura selvaggia. Quando la banda ha bisogno di darsi un dettato morale, è Doc Sarvis a verbalizzare il fermo rifiuto della civiltà tecnoindustriale, ed è come se a parlare fosse Unabomber: “Siamo intrappolati nei cingoli d’acciaio di un moloc tecnologico. Una macchina senza cervello. Con un reattore autofertilizzante al posto del cuore. […] Un industrialismo planetario che cresce come un cancro”.
Giganteschi bulldozer che grattano via dal paesaggio la vegetazione, la macchia di aria inquinata dalle ciminiere che fluttua sopra le città, le montagne sventrate dalle miniere a cielo aperto, villaggi squallidi e derelitti tirati su nel deserto in nome dello sviluppo edilizio. Non c’è niente che possa fermare davvero la megamacchina – troppo operoso e paziente il suo esercito di instancabili ingegneri, troppo vasto l’arsenale di mezzi e di uomini che può dispiegare. “Loro hanno tutto”, sentenzia Doc Sarvis. “Hanno l’organizzazione e il controllo, le comunicazioni, l’esercito e la polizia, e i servizi segreti. Hanno le grandi macchine. Hanno la legge e le droghe, le prigioni e i tribunali, i giudici e le galere. Sono dei giganti. E noi dei lillipuziani”. Eppure, i quattro attivisti si convincono di poter rallentare la deriva del progresso con azioni mirate di distruzione delle proprietà industriali. O almeno, si persuadono di doverci provare.
I sabotatori è un romanzo d’azione più che di riflessione. Quando si domandano perché fanno quel che fanno, i protagonisti del racconto non sanno darsi una vera risposta: “Lo capiremo strada facendo. Lasciamo che sia la pratica a formare la nostra dottrina, ad assicurarci una precisa coerenza teorica”. Abbey adorna il libro di effetti speciali come fosse la sceneggiatura di un western, e tuttavia non manca di sottoporre i suoi personaggi agli inevitabili dilemmi morali dell’attivismo radicale. È accettabile sprecare mezzi e proprietà per difendere l’ambiente? Consumare metallo ed energia per azioni di eco-sabotaggio?
“La Monkey Wrench Gang assassina le macchine, perfora i serbatoi e incendia i bulldozer, ma non una sola goccia di sangue umano viene versata. È questa la differenza cruciale che sul piano etico distingue l’attivismo dal terrorismo. Oggi come allora”.
Insomma, provare a salvare il pianeta per distruggerlo in modo diverso: la vertigine dell’attivista quando comincia a riflettere davvero sulle “ramificazioni infinite” delle proprie azioni. È l’ambiguità che non dà scampo a Merry, la radicalizzata che in Pastorale americana (1997) di Philip Roth finisce per aderire al giainismo e al suo vegetarianesimo estremo pur di non togliere vita alla vita. I personaggi di Abbey se la cavano sospendendo il dubbio: “Dimentica tutto il resto”, intima Doc Sarvis a Bonnie mentre svellono l’ennesima insegna pubblicitaria. “Il nostro compito è distruggere tabelloni”.
Le zone grigie della giurisprudenza aprono alla banda spazi di creatività e vie di fuga: per la legge federale l’uso di esplosivi è un reato grave, mentre vandalizzare un automezzo non è troppo diverso da una ragazzata. Ma che fare quando il vandalismo costruttivo diventa distruttivo? Per i quattro sabotatori è impossibile sottrarsi al problema della violenza, che si ripresenta a più riprese nei loro ragionamenti. A un certo punto la Monkey Wrench Gang vorrebbe assaltare una torre di perforazione, ma desiste perché lì ci sono uomini che lavorano: “Schiavi che sono in piedi nel gelo delle quattro del mattino per garantirci l’olio e la benzina per questo furgone e che così ci permettono di dare il nostro contributo al sabotaggio della macchina bacata del pianeta”.
Non è facile accorgersi del cortocircuito, e tra i quattro ecovandali Hayduke è il solo a credere che “la violenza è americana quanto la torta di mele”, e “che le cose si sarebbero fatte più grandi strada facendo”. Quando manomettono i binari di una ferrovia per il trasporto automatizzato di carbone, il macchinista del treno merci si salva per miracolo. L’escalation degli assalti alle infrastrutture critiche alimenta una caccia sempre più serrata dei quattro criminali che, ormai in fuga nel deserto, si ritroveranno a dover brandire le armi. Senza mai sparare, però, e non è un dettaglio di poco conto.
In Come far saltare un oleodotto (2022), Andreas Malm distingue i due tipi di nonviolenza che a suo modo di vedere hanno tradizionalmente caratterizzato le lotte ecologiste, determinandone il fallimento: il pacifismo morale e il pacifismo strategico. Per il primo la nonviolenza è un principio assoluto e irrinunciabile, per il secondo è invece l’approccio più efficace dal momento che la violenza crea ostilità nei confronti della militanza estrema.
È la linea che anche i sabotatori di Abbey decidono di tenere: “Far saltare le cose è impopolare”, sentenzia Doc Sarvis prima dell’ennesimo raid. “Crea una brutta immagine, delle cattive PR. L’anarchia non è la risposta”. La Monkey Wrench Gang assassina le macchine, perfora i serbatoi e incendia i bulldozer, ma non una sola goccia di sangue umano viene versata. Come ha scritto Robert Macfarlane, è questa la differenza cruciale che sul piano etico distingue l’attivismo dal terrorismo. Oggi come allora.
Mezzo secolo dopo l’uscita del libro, I sabotatori rimane più tragicamente attuale che mai, e non solo perché la sua causa si è ingigantita al punto da diventare una questione di sopravvivenza planetaria. È vero, i cattivi hanno vinto: sono riusciti a far eleggere un presidente negazionista che intende tagliare i fondi della guardia forestale, privatizzare una larga parte dei parchi nazionali americani, concedere lo sfruttamento dei terreni pubblici alle compagnie estrattive. Per non parlare della sensazione diffusa che il riscaldamento globale sia ormai ingovernabile, fuori controllo, e che per quanto radicale si faccia nessun movimento ecologista riuscirà mai a invertire la china. In confronto agli anni Settanta, regnano oggi remissività e disillusione.
L’idea stessa che la letteratura possa incidere così profondamente sulla realtà da cambiare i comportamenti delle masse e convertire le coscienze dei governanti ci appare ingenua e commovente. Eppure, I sabotatori è un libro che dura soprattutto perché Abbey è uno scrittore vero, il valore della sua prosa si estende ben al di là della materia su cui la esercita, e i suoi personaggi sono icone vive. A ondate ricorrenti, tra una lotta e l’altra, le bande di attivisti torneranno sempre a leggere i propri testi sacri. Le acque torbide dei due mondi continueranno a confondersi.