Articolo
Alessio Giacometti
Il Vajont insegna, ma non ha scolari

Il Vajont Insegna, Ma Non Ha Scolari Cover Giacometti
natura storia

Più di sessant'anni fa, una catastrofe annunciata uccideva poco meno di 2000 persone e devastava una valle. Oggi ci mostra, forse, che è impossibile riprendersi dai disastri ambientali e che dobbiamo prepararci a un mondo sempre più ostile.

Risalendo la statale di Alemagna e immettendosi nella zona industriale di Longarone, la diga appare sulla destra: una vela di calcestruzzo umile, arcuata, incastonata in una gola stretta. Dal basso riesce difficile credere che, quando fu costruita, era la più alta al mondo, progettata per alimentare le grandi industrie del Nordest. Per coglierne appieno la maestosità occorre salirci sopra: noi abbiamo appuntamento con la guida di primo mattino, quando i parcheggi sul pianoro in quello che un tempo era il bacino di raccolta già traboccano di turisti. La catastrofe naturale del Vajont è in assoluto la più nota e raccontata della storia italiana: le inchieste di Tina Merlin, l’orazione civile di Marco Paolini e il film di Renzo Martinelli hanno contribuito a costruire il mito del Vajont come tragedia nazionale d’elezione e a fare della diga un luogo di pellegrinaggio laico. Comitive di famiglie e scolaresche vi affluiscono con aria mesta e deferente da ogni angolo del Paese. Vengono alla diga per imparare che la natura ci supera sempre, anche quando crediamo di averla soggiogata, che la hybris è causa di rovina per gli uomini, e sciagurato è colui che non trae insegnamento dalle sventure del passato.

Viviamo oggi un tempo di prepotente ritorno della natura, di clima in rapido cambiamento e normalizzazione di disastri ambientali sempre più frequenti: cosa può insegnarci il Vajont? Perché tanta sollecitudine a ricordare?

Le vicende sono note. La notte del 9 ottobre 1963 un fianco del monte Toc frana sul bacino del Vajont sollevando un’onda di oltre duecento metri. Il muro d’acqua s’impenna di fronte all’abitato di Casso e si divide in più flutti: un fronte dell’onda si ribalta nel bacino verso Erto, l’altro scavalca la diga e piomba giù a oltre 100 chilometri all’ora su Longarone, rasa al suolo da una colonna di fango e detriti alta 70 metri. Il solo spostamento d’aria abbatte le case e sfigura le persone. In pochi minuti perdono la vita 1910 valligiani. I morti appesi ai rami degli alberi, i superstiti conficcati nel fango con le mani di fuori. “Serve più tempo a raccontare quel che successe di quanto ne ce ne volle ad accadere davvero”, commenta la nostra guida mentre dal coronamento della diga guardiamo giù, su una Longarone ricostruita esattamente dov’era prima della frana.

Nei giorni immediatamente successivi alla catastrofe infiamma nei giornali il dibattito sul senso da dare all’evento: fatalità o responsabilità? Calamità naturale o disastro causato dall’uomo? Tra i negazionisti si esprimono intellettuali di spicco come Dino Buzzati, che incolpa la “fantasia” vendicativa della “natura crudele” e “i brutti scherzi” della montagna. “La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico”, scrive Buzzati. “Di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, dell’ingegneria, della tecnica, del lavoro”. Giorgio Bocca parla di “una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani”, mentre Indro Montanelli dà degli “sciacalli” ai giornalisti che come Tina Merlin denunciavano da tempo le colpe dei progettisti e le negligenze delle commissioni di controllo.

“Comitive di famiglie e scolaresche vi affluiscono con aria mesta e deferente da ogni angolo del Paese. Vengono alla diga per imparare che la natura ci supera sempre, anche quando crediamo di averla soggiogata, che la hybris è causa di rovina per gli uomini, e sciagurato è colui che non trae insegnamento dalle sventure del passato”.

Quasi un decennio di processi, culminati con la sentenza definitiva del 1971 a una settimana soltanto dalla prescrizione, non riuscirà a fare giustizia per le vittime. Irrisorie le pene comminate agli ultimi responsabili rimasti in vita, ridotte al terzo grado di giudizio con una motivazione che suona come una definitiva assoluzione dell’industria estrattiva e dei suoi araldi di ogni luogo ed epoca: “Il comportamento degli imputati è in linea con la civiltà industriale. È la conseguenza del progresso, che è sinonimo di audacia. È il frutto del mutato temperamento e delle più alte ambizioni dell’uomo, teso all’appagamento di maggiori esigenze, alla ricerca quotidiana di nuovi interessi e di nuove esperienze”. Ci vorrà un altro mezzo secolo di lavoro sulla memoria per fare del Vajont l’antonomasia della catastrofe annunciata, e marcare così lo scarto che separa le cause antropiche da quelle naturali della tragedia.

Vajont come Černobyl’: l’avidità che soverchia la cautela, la precauzione, il rischio. Tardivamente ma inesorabilmente, quella del Vajont passerà alla memoria come una storia di tracotanza e falsificazioni, di previsioni sbagliate e inadempienze, di segnali ignorati e prezzo dello sviluppo.

Nel suo ancora insuperabile Sulla pelle viva, Tina Merlin racconta passo per passo come è stata costruita la catastrofe del Vajont partendo da quella che la sensibilità odierna definirebbe una storia di colonizzazione e capitalismo estrattivo. A inizio Novecento nelle valli attorno al fiume Vajont vivono soltanto alcune sparute comunità montane, arcaiche e discoste. Non c’è nemmeno una strada a collegare le due sponde del torrente – la prima carrozzabile la costruisce l’esercito italiano aprendo un varco nella montagna con la dinamite. Poi, nel dopoguerra, a interessarsi di questa valle remota è la SADE, Società Adriatica di Elettricità. A fondarla era stato Giuseppe Volpi conte di Misurata, del consorzio di facoltosi imprenditori veneziani che pochi anni prima aveva dato vita al porto industriale di Marghera. Volpi è un personaggio eclettico e arrembante, sposa con convinzione il fascismo e da governatore di una delle due colonie italiane in Libia Mussolini ne fa il ministro delle Finanze. Politica, industria e cultura si saldano nella sua vicenda umana: all’apice della carriera, Volpi è presidente di Assicurazioni Generali, Confindustria, Biennale e Mostra del cinema di Venezia. I piani di sviluppo della SADE prevedono l’installazione di sette impianti idroelettrici lungo il Piave e i suoi affluenti, uno dei quali è il torrente Vajont, ritenuto adatto a ospitare un grande serbatoio verso cui convogliare l’acqua di riserva delle altre dighe. Il progetto è ambizioso, la guerra ne rallenta l’approvazione, ma Volpi sfrutta un momento propizio prima della caduta del regime per farlo approvare in una seduta di commissione senza il numero legale di votanti.

Volpi muore però prima dell’inizio dei lavori, e a prendere la presidenza della SADE dal 1953 è l’amico o socio in affari Vittorio Cini. Il pedigree di Cini certo non sfigura nel confronto con Volpi: conte e massone, commissario straordinario dell’Ilva e ministro delle Comunicazioni, quando gli muore il figlio istituisce la Fondazione Giorgio Cini, centro d’arte e cultura ancora tra i più blasonati di Venezia. Ricostruire il reticolo di rapporti che Cini instaurò dalla cabina di comando della SADE offre uno spaccato sull’Italia del dopoguerra, la dolce vita e il miracolo economico, le grandi industrie e l’elettrificazione dei consumi. La nuova società ha fame di energia, le centrali idroelettriche sono designate a soddisfarla, e quella sul Vajont avrebbe dovuto essere la più imponente. Senonché, appena la SADE allunga le mani su queste valli, le comunità montane si oppongono agli espropri delle loro terre e alla costruzione stessa della diga. Si è molto detto, e forse anche romanzato, delle conoscenze avite e vernacolari dei “montanari”, del Toc come monte “marcio” o “rotto” nella lingua locale, come se le popolazioni indigene fossero da sempre a conoscenza della natura instabile della montagna o avessero presagito la tragedia. La verità è che la resistenza alla diga cede presto ai prezzi della terra che salgono, all’entusiasmo per i macchinari mai visti che compaiono nella valle, alla promessa di benessere quando sfiora la vita di gente da sempre abituata alla privazione.

“In bilico tra ciò che erano e ciò che non riescono a diventare, i luoghi alterati dalle catastrofi vivono in una condizione di prolungata sospensione, vincolati al passato ed esclusi dal futuro, proprio come è successo al Vajont”.

L’industria estrattiva sfrutta i territori piegandoli alle esigenze del profitto e del consumo: nella valle del Vajont la sua avanzata appare inarrestabile e ignora rischi, esternalità, senso del limite. La diga a doppia curvatura scarica il peso lateralmente e a lavori in corso i fianchi della montagna cominciano a crepare, ma vengono iniettate delle giunture di cemento per puntellare le fratturazioni della roccia. Prima del collaudo, frane e smottamenti si verificano nella vicina Val di Zoldo e nella piccola diga di Pontesei, eppure col Vajont si va avanti. Analisi geologiche condotte con nuove tecniche rivelano una grossa spaccatura lungo tutto il versante della montagna, ma l’acqua sta già riempiendo la valle. Le perforazioni sul Toc dicono che il territorio scivolerà verso il basso, per ora è l’acqua a farlo galleggiare e per evitare un distacco improvviso bisogna farla lentamente defluire. In caso di distacco i modelli idraulici prevedono un’onda di 20 metri, ma simulano una frana con ghiaia e ciottoli, quando invece a precipitare sul bacino sarà un lastrone compatto che solleverà un’onda dieci volte più alta. Il rischio di frana è così probabile che si decide addirittura di scavare nella montagna una galleria di sorpasso per permettere lo scarico dell’acqua in caso di crollo parziale e salvare così l’investimento. Si stabilisce di procedere con l’invaso a tre stadi, al secondo invaso la diga è piena per due terzi e i movimenti della montagna sembrano arrestarsi.

“Cosa facciamo? Procediamo? Voi cosa avreste fatto?”, domanda la guida alle scolaresche ammutolite. Si sceglie di proseguire, terzo invaso, la diga quasi piena e la montagna che torna a crepitare. Il Toc manda schiocchi e rombi e boati, gli animali selvatici spariscono, la gente si spaventa ma anche la sera del disastro le autorità informano i valligiani che non c’è motivo di preoccuparsi.

In anni più recenti si è tentato di andare oltre la narrazione della catastrofe annunciata e di riscrivere ancora una volta la storia del Vajont per farne un apologo di resilienza. Dopo la tragedia ci si impegnò affinché questa valle non restasse un eterno cimitero, un luogo in cui si poteva solo piangere e aprire musei della memoria. Serviva ricostruire le case ma soprattutto le comunità, liberarle dal peso del ricordo e dare loro una prospettiva di futuro. Quella della resilienza è una retorica seducente: ci consola credere che dalle catastrofi naturali si possa sempre ripartire. Nel tempo della crisi climatica pensiamo ai disastri naturali come a eventi isolati e riparabili – c’è un’alluvione, contiamo i danni, ricostruiamo per tornare alla normalità. Riteniamo che ricchezza e tecnologia siano fattori protettivi, una forma di mitigazione del rischio, ma dandoci l’illusione che sia tutto sotto controllo sono all’origine di un falso senso di sicurezza. Non siamo pronti a vivere in un mondo nel quale le conseguenze delle catastrofi potrebbero diventare irreparabili, o in cui il tempo che intercorre tra una catastrofe e la successiva possa non bastare nemmeno a ricostruire. Il fatto è che i danni ambientali sono spesso irreversibili, e dopo un disastro naturale le comunità umane possono anche non riuscire a risollevarsi. In bilico tra ciò che erano e ciò che non riescono a diventare, i luoghi alterati dalle catastrofi vivono in una condizione di prolungata sospensione, vincolati al passato ed esclusi dal futuro, proprio come è successo al Vajont.

Questo luogo conserva un’esperienza pura, difficilmente classificabile: è l’esperienza dell’isteresi, dello shock che sconvolge i paesaggi e li cambia per sempre. Oggi intorno al Vajont spiccano i relitti della frenesia industriale, della foga di ricostruzione che ha dato benessere alla prima generazione dopo il disastro e ha lasciato le briciole a quelle successive. L’industria che avrebbe dovuto far rinascere Longarone sta pian piano morendo, gli edifici della ricostruzione a Erto si svuotano e sembrano condannati a un’inutile longevità. La diga stessa è un possente ecomostro sopravvissuto alla propria funzione e convertito di necessità in attrazione per turisti. La sua monumentalizzazione ha sì riportato gente e denaro nella valle, ma anche la sanificazione del turismo – l’ultima delle industrie – fatica a insinuarsi in questo luogo franato. A Casso – “miracolosamente scampato all’urto con l’onda del ’63”, ribadisce la guida – uno dei pochi abitanti rimasti aiuta un muratore immigrato a riparare il selciato. È un quadretto commovente, ma l’impressione è quella di un paese che, consapevole del proprio deterioramento, attende immobile una rinascita che non verrà, che degli sprovveduti attratti dalla leggenda del Vajont si stabiliscano in queste case di pietra e ne invertano il declino. C’è indubbiamente un fascino in questa contraddizione, in questi paesi redivivi eppure così tragicamente moribondi. È la nostalgia di ciò che un tempo doveva essere stata la vita in queste valli, prima che la diga portasse disgrazie.È doloroso ammetterlo, ma il Vajont ci insegna che forse è impossibile riprendersi dalle catastrofi ambientali, che quando una comunità viene stravolta da un evento estremo non c’è modo di ripararla. L’unica cosa che si può fare è prevenire e mitigare, prepararsi e adattarsi a un mondo che con ogni probabilità ci sarà ostile e diminuito. C’è chi chiama questo esercizio di accettazione “presilienza”: perché mai se ne parla ancora così poco? Perché non viene già insegnata ovunque e a chiunque? Sul bacino del Vajont la natura ha ripreso come sempre il sopravvento: un bosco di carpini, pini, abeti ha rivestito la frana, cancellandone i segni. Terminata la visita alla diga, ci sediamo all’ombra di un albero altero e solenne. In autunno la chioma ingiallirà, il larice è una delle poche conifere a perdere gli aghi. Chi non lo sa penserà che questi boschi stiano morendo. E invece si risveglieranno, loro sì resilienti. Almeno finché non renderemo del tutto inabitabile questa valle magnifica e abbattuta.

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti ha un dottorato in scienze sociali e si occupa di ambiente, energia, studi sulla scienza e la tecnologia. Scrive per la televisione e per diverse riviste culturali online.

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