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Silvia Lazzaris
Jane delle scimmie

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animali natura Scienza

Jane Goodall ha studiato per mezzo secolo l'intelligenza, la gentilezza e la ferocia degli scimpanzé, e ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a lottare per loro e per il nostro Pianeta. La sua lezione ci accompagnerà a lungo.

“Jane è pronta” mi hanno detto un pomeriggio di qualche anno fa. Non era una Jane qualsiasi: era Jane Goodall, la primatologa che ha cambiato per sempre il nostro sguardo sugli animali e che ha passato la sua vita a battersi per i loro diritti – inclusi i nostri, perché pure noi siamo animali. E quella non era una giornata qualsiasi: era il mio compleanno. E non mi era ancora capitato di considerare un’intervista il giorno del mio compleanno come il regalo più bello. Gli assistenti mi avvertivano che era stanca, non aveva ancora mangiato e non bisognava trattenerla troppo. Aveva quasi novant’anni. Da trent’anni non dormiva più di tre settimane nello stesso letto: sempre in viaggio e sempre in lotta a portare un messaggio urgente e speranzoso. Io stavo girando una docuserie sul sistema alimentare e lei mi avrebbe aiutata a spiegare, con l’autorità che la mia voce non aveva, che la distruzione dell’ambiente ha le sue radici nella povertà. Chi ha fame non pensa alla foresta pluviale, agli scimpanzé o al futuro del pianeta. Pensa a riempire lo stomaco – e come si può biasimarlo?

Dopo averla immaginata nei cespugli della Tanzania e di fronte a platee gremite era strano vederla sprofondata su un divano di velluto dentro una sala d’albergo milanese vuota, dorata e soffocante. In mano teneva il solito pupazzo di scimmia che portava sempre con sé alle interviste. Un’assistente era tornata a ricordarmi di non trattenerla troppo. Lei l’aveva lasciata finire, poi si era voltata verso di me e aveva sorriso: “si prenderà tutto il tempo che vorrà”. Poi, alla fine della nostra intervista, vedendo che non osavo chiederlo e nonostante l’agitazione delle assistenti, mi ha chiesto: “Facciamo un selfie?” E ha tirato dentro tutti: il regista, il cameraman, pure il mio fidanzato, che era lì per lei.

In questo mestiere si intervistano molte persone. Di solito bisogna passare giorni o settimane a studiarle e prepararsi. Con Goodall non ce n’è stato bisogno perché aveva già cambiato il mio mondo molto prima che entrassi in quella stanza, per una serie di ragioni. 

La prima. Le prove raccolte dal suo lavoro ci hanno costretti a ripensare il posto degli esseri umani nella natura – non su un trono ma in mezzo a tutti gli altri. Grazie a lei sappiamo che gli scimpanzé sono creature intelligenti che costruiscono relazioni complesse con l’ambiente che le circonda, come fanno anche moltissimi altri animali nei modi più sorprendenti. Ci ha ricordato che non siamo gli animali più intelligenti, siamo al massimo i più intellettuali – perché se fossimo davvero i più intelligenti non staremmo distruggendo il nostro stesso ecosistema.

La seconda. Ci ha mostrato una via alternativa per la ricerca del senso, della felicità e dell’azione politica che non ha nulla a che fare con il carrierismo, il potere e la ricchezza. Goodall ha costruito un’esistenza intera sulla curiosità e la tenacia, e soprattutto sull’amore ostinato per la vita che ci circonda. Ha passato la sua vita a coltivare e trasmettere quello che lei chiamava “l’indomabile spirito umano”.

La terza. È stata una madre diversa, ha resistito di fronte al giudizio e alle accuse di non aver amato il figlio abbastanza, di averlo abbandonato e mandato in Inghilterra perché preferiva la compagnia dei suoi scimpanzé. La prima frase del figlio Grub, “That big lion out there eat me” è la testimonianza di un’infanzia tanzaniana senza pareti né giocattoli, che Grub ha scelto a sua volta per i suoi figli.

La quarta. Non ha mai perso la speranza come missione e dovere. Da bambina aveva vissuto la guerra in un’Inghilterra isolata, con l’Europa occupata dai nazisti e l’aria densa di paura. Ha più volte parlato della disperazione che si respirava in Inghilterra durante i suoi primi anni di vita. E non ha mai dimenticato la forza propulsiva delle parole di Churchill, che hanno spronato gli inglesi a non cedere al nazismo. Secondo Goodall le catastrofi non sono mai scritte nelle stelle e qualcosa può sempre essere fatto per evitarle, soprattutto quando sono preannunciate.

“Jane Goodall ha ricordato che non siamo gli animali più intelligenti, siamo al massimo i più intellettuali – perché se fossimo davvero i più intelligenti non staremmo distruggendo il nostro stesso ecosistema”.

Non è facile scrivere il resoconto di una vita straordinaria. Farò del mio meglio per renderle giustizia. Jane Goodall è stata una bambina londinese. Uno dei suoi primi giocattoli è stato uno scimpanzé di pezza che chiamava Jubilee – glielo aveva regalato il padre prima di partire per il fronte. Con la madre passava l’infanzia tra Londra e la costa inglese, a Bournemouth, arrampicata sugli alberi del giardino a leggere Tarzan, convinta che avesse sposato la Jane sbagliata. Collezionava animali: lumache, bruchi, lucertole, porcellini d’india e canarini. A due anni si portò nel letto del terriccio pieno di vermi. La madre vide il disastro nel letto ma non la riprese. Si limitò a dirle che sarebbero morti senza la terra del giardino, e insieme li riconsegnarono alla libertà. A quattro anni in vacanza in campagna scomparve per ore e la trovarono in un pollaio: stava osservando in silenzio come le galline depongono le uova. Anche allora la madre non le disse quello che ci si può aspettare: non farmi prendere questi spaventi, non farlo più, eccetera. Piuttosto le chiese di raccontarle cosa aveva visto. Più tardi Jane dirà che la madre Vanne fu la persona più solidale della sua vita: non le impedì mai di fare domande, di cercare da sola le risposte, e di sbagliare cercandole. “Mia madre ascoltava ed era sempre giusta”, ha detto in uno dei suoi discorsi, “non era mai arrabbiata senza motivo”.

A otto anni Jane le confidò un sogno: essere un bambino. Forse perché i bambini maschi potevano fare cose che alle bambine non erano consentite, e il suo sogno era grande, preciso e a fuoco: vivere nella boscaglia africana tra gli animali selvatici. Gli altri le dicevano di cercarsi un sogno più realizzabile. La madre la prendeva sul serio. “Se lo vuoi davvero dovrai lavorare duramente e sfruttare ogni occasione” le diceva, “e se non ti arrendi, forse troverai una strada”.

Ma la vita i sogni li fa sudare. La famiglia non poteva pagarle gli studi, così Jane lavorava a Londra mentre seguiva un corso da segretaria. Poi un giorno, dopo qualche anno, arrivò quell’occasione da non farsi scappare. Un’amica le scrisse dal Kenya, invitandola a raggiungerla nella fattoria di famiglia. Per mettere insieme il denaro Jane servì ai tavoli di un ristorante per turni infiniti. Aveva ventitré anni quando sua madre la salutò al porto mentre la sua nave salpava per l’Africa. In Kenya fece un altro incontro magico: quello con il paleoantropologo Louis Leakey, che la prese come sua segretaria. Dopo due anni cercava qualcuno da mandare sul campo a osservare da vicino gli scimpanzé in quello che sarebbe diventato il Gombe Stream National Park, in Tanzania, i nostri più prossimi antenati, per capire come avrebbero potuto comportarsi i primi ominidi dell’età della pietra. Gli serviva qualcuno capace di osservare senza pregiudizi accademici, con un amore per gli animali e una pazienza fuori dal comune. Si accorse che forse la persona giusta era proprio la sua segretaria. Ma non gli avrebbero mai concesso di mandare una giovane donna da sola nelle terre selvagge dell’Africa. Jane avrebbe dovuto trovare qualcuno per farsi accompagnare nel suo viaggio. La madre Vanne fece le valigie e trovò una missione per sé: aprire una clinica per distribuire medicine alla comunità locale. 

Al Gombe iniziò un periodo duro. Jane era sola e gli scimpanzé scappavano appena la vedevano. I soldi della ricerca sarebbero finiti presto e dopo mesi non aveva fatto nessuna osservazione significativa. Un giorno però un maschio adulto restò vicino a lei. L’aveva accettata e così avrebbe fatto il resto della famiglia. Diventò sempre più facile osservare i loro comportamenti e le loro personalità. I loro occhi ricambiavano il suo sguardo, e in quello sguardo Jane vide pensiero, razionalità e affinità.  Un giorno vide anche che usavano strumenti: un ramoscello ripulito dalle foglie infilato in un termitaio per estrarre le termiti – il loro pranzo. Una scena a cui nessuno al mondo, fino a quel momento, aveva assistito. Telegrafò la notizia a Louis Leakey, che rispose secco: ora dobbiamo ridefinire l’uomo, o accettare gli scimpanzé come umani.

La scoperta la rese famosa. I giornali scrivevano di lei come dell’ex cameriera senza laurea che aveva osato andare in Africa e che, senza saperlo, aveva messo in discussione la definizione stessa di umanità. C’era chi non poteva sopportarlo. Troppo giovane, troppo donna e troppo ignorante per l’accademia. Alcuni ridussero il suo successo alle sue gambe. E lei rispose così: se il National Geographic mi paga per le mie gambe, allora grazie gambe!

“Gli scimpanzé, i suoi adorati animali, non ci somigliavano solo nell’affetto e nella curiosità, ci somigliavano anche nella violenza”.

Leakey la spedì a Cambridge. Doveva ottenere un dottorato per zittire i detrattori, e fu l’ottava persona a cui fu permesso di farlo senza una laurea. Poi tornò in Tanzania. Con lei, questa volta, c’era un fotografo mandato dal National Geographic, Hugo van Lawick. Si innamorarono, si sposarono e fecero un figlio, Grub. Lei visse i primi tre anni di maternità prendendo spunto dalle madri degli scimpanzé: senza mai lasciarlo per più di qualche ora, regalandosi come fonte inesauribile di supporto. 

Dopo quegli anni felici vennero le scelte difficili. Grub doveva andare in Inghilterra per ricevere un’istruzione adeguata. Crebbe così con una vita divisa tra l’Inghilterra, con la nonna Vanne, e le vacanze in Tanzania, con la madre Jane. Lei e Hugo, nel frattempo, non volevano più vivere negli stessi luoghi e si lasciarono. Nello stesso anno, al Gombe, accadde qualcosa di nuovo. La comunità degli scimpanzé si divise in due gruppi. Per quattro anni la tensione aumentò, poi iniziò la guerra. I maschi del nord formavano pattuglie e attaccavano sistematicamente i maschi del sud. Li eliminarono uno dopo l’altro, finché non ne rimase nessuno. Jane ne fu sconvolta. Nei suoi diari scrisse che non se lo aspettava e che non voleva crederci. Ma dovette ammettere a se stessa e al mondo che gli scimpanzé, i suoi adorati animali, non ci somigliavano solo nell’affetto e nella curiosità, ci somigliavano anche nella violenza.

In quegli anni Jane si risposò con Derek Bryceson, uomo d’affari della Tanzania, direttore dei National Parks e membro del parlamento. Pochi anni dopo lui si ammalò di cancro e lei rimase vedova. E poco dopo la morte del secondo marito partecipò a una conferenza a Chicago in cui alcuni colleghi presentarono dati sconvolgenti: scimpanzé massacrati per la carne, habitat distrutti e comunità decimate. Lei disse che entrò in quella conferenza come scienziata e ne uscì come attivista. Non bastava più studiarli, bisognava difenderli. 

Da questi dolori nacque il Gombe Stream National Park. Anche il Jane Goodall Institute, che all’inizio serviva soprattutto a raccogliere fondi per l’osservazione e la conservazione degli scimpanzé, si trasformò in un’organizzazione internazionale, con progetti di conservazione e sviluppo in più di venticinque paesi. Fondò Roots & Shoots, “Radici e Germogli”: un programma che coinvolge migliaia di giovani in attività di educazione alla sostenibilità e all’impegno civico. Si convinse che la lotta al degrado ambientale e al cambiamento climatico non poteva essere separata dalla lotta contro la povertà. I suoi istituti cercarono sempre di unire conservazione e sviluppo. Collaborò, per esempio, con la NASA, fornendo alle comunità locali dell’Africa occidentale le immagini satellitari della deforestazione come strumento di difesa e pianificazione.

Negli ultimi trent’anni ha viaggiato senza sosta per fare pressione su governi, istituzioni finanziarie e grandi aziende. A una giornalista del New York Times disse: “Può immaginare cosa significa sentirsi dire che, dopo che ho visitato qualcuno, ha deciso di fare qualcosa? Non sai mai chi farà qualcosa, o cosa farà. Ma finché continuo a viaggiare, succede che qualcuno, qualche volta, qualcosa fa”.

Jane Goodall ha creduto con ostinazione fino all’ultimo giorno, mentre si preparava a uno dei suoi innumerevoli discorsi, che la ragione potesse bastare a convincere gli uomini a non distruggere l’ambiente da cui dipendono. Forse in questa convinzione c’era fragilità. Ma c’erano anche grandezza e forza. In quell’energia inesauribile Jane ha costruito una vita di dignità e libertà. Una vita straordinaria.

Qualche anno fa sono stati ritrovati i filmini girati da Hugo, il primo marito, negli anni Sessanta. Il National Geographic ne ha fatto un documentario, si intitola “Jane”. Intervistata di nuovo, ha tirato le somme: “Quando ripenso alla mia vita, mi sembra di essere stata straordinariamente fortunata. Come diceva mia madre, la fortuna è solo una parte. Lei credeva che il successo venisse dalla determinazione e dal duro lavoro. Anch’io lo credo. Eppure, sebbene abbia lavorato sodo, devo ammettere che anche le stelle hanno fatto la loro parte”.

Silvia Lazzaris

Silvia Lazzaris è un’autrice e reporter specializzata in scienza e tecnologia. I suoi reportage, documentari e inchieste sono stati pubblicati su testate nazionali e internazionali tra cui Corriere della Sera, BBC World Service, Wired UK, L’Espresso, Domani, Rai, Will e Chora Media. Ha studiato giornalismo scientifico all’Imperial College London ed è alumna dell’Oxford Climate Journalism Network. È co-fondatrice del collettivo d’inchiesta Flares.

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