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Claudia Torrisi
La maternità non è più un destino

La Maternità Non È Più Un Destino Torrisi Web
genere politica

Nel dibattito sul calo delle nascite c'è un'assenza clamorosa: la voce di chi sceglie di non avere figli, le ribelli demografiche che si oppongono all'identificazione storica e simbolica tra donna e madre. 

In Italia si fanno sempre meno figli. Possiamo prendere questa cosa come una sciagura, il presagio di una catastrofe, un’emergenza, un dispetto, un sintomo della mancanza di responsabilità delle nuove generazioni. Oppure semplicemente per quello che è: un fatto. 

L’ultimo report dell’Istat dice che nel 2024 le nascite sono state 369.944, in calo del 2,6% rispetto all’anno precedente, e, secondo i dati provvisori relativi a gennaio-luglio, nel 2025 siamo già a 13mila in meno, il 6,3%, rispetto allo stesso periodo di dodici mesi prima. 

L’anno scorso il numero medio di figli per donna ha raggiunto il minimo storico di 1,18 (era 1,20 nel 2023). La stima per i primi sette mesi del 2025 è 1,13. Dal 2008, anno in cui è stato registrato il numero massimo di nati vivi degli anni Duemila, il calo complessivo delle nascite è stato di 207mila, il 35% in meno. 

Se guardo la mia cerchia allargata, pur consapevole di vivere in una bolla, sono circondata da persone che figli non ne hanno. 

Nonostante spesso si colpevolizzino i più giovani, è una situazione che viene da lontano: se nascono meno figli–- lo dice anche l’Istat – è prima di tutto perché ci sono meno potenziali genitori. Il tasso di fecondità ha iniziato a scendere dagli anni Settanta e non si è più fermato. 

Le ragioni di questo calo sono diverse: la mancanza delle condizioni economiche per mettere al mondo dei figli, l’estrema precarietà lavorativa, le lacune nel welfare, nei servizi per l’infanzia e nelle tutele alla genitorialità, le difficoltà mediche derivanti dal fatto che l’età in cui si inizia a provare a concepire si è spostata più avanti. 

Ma c’è anche un’altra dimensione che raramente viene nominata: quella culturale. Esiste una parte sempre più rilevante di popolazione che non vede la genitorialità nel proprio orizzonte. E che quindi figli non vuole averne. 

“È una questione legata al cambiamento degli obiettivi di vita, che non prevedono necessariamente diventare genitori come parte del percorso, soprattutto nelle giovani e giovanissime generazioni”, spiega Alessandra Minello, demografa dell’università di Padova e autrice di Senza figli. Scelte, vincoli e conseguenze della denatalità (Laterza, 2025). 

Il fenomeno riguarda l’Italia, ma la quota di persone che scelgono di non diventare genitori si allarga anche in contesti “in cui di fatto ci sono tutte le condizioni oggettive per poter avere figli, come i paesi scandinavi: sono ricchi, c’è il welfare, le condizioni economiche sono mediamente alte. Questo perché il ruolo che viene dato nella società alla genitorialità è cambiato”.

La mancanza delle voci di chi scegli di non avere figli nella martellante discussione mainstream sulla denatalità è secondo Minello “una clamorosa assenza”: “Il dibattito sembra incapace di concepire che una vita senza prole possa essere non solo valida, ma anche profondamente appagante e ricca di significato. È come se ci fosse sempre un punto di vista giudicante rispetto a chi si pone altri obiettivi, si impegna per qualcos’altro che non sia la genitorialità”. 

Invece, “cambia il contesto, le aspirazioni, la voglia di investire su sé stessi. E soprattutto in sé stesse”.

“L’anno scorso il numero medio di figli per donna ha raggiunto il minimo storico di 1,18 (era 1,20 nel 2023). La stima per i primi sette mesi del 2025 è 1,13. Dal 2008, anno in cui è stato registrato il numero massimo di nati vivi degli anni Duemila, il calo complessivo delle nascite è stato di 207mila, il 35% in meno”. 

Questo discorso, infatti, tocca le donne in maniera particolare. Secondo un’elaborazione fatta da Neodemos, nel 2022 dichiara di non desiderare figli il 18% delle donne, contro il 12% degli uomini. Un’indagine dell’Istituto Toniolo su settemila intervistate tra i 18 e i 34 anni mostra come il 21% abbia ammesso apertamente di non volere figli, mentre il 29% si dica “debolmente interessata”. 

Sono quelle che Minello chiama “ribelli demografiche”, contrapposte all’identificazione storica e simbolica tra donna e madre. 

Quella della maternità come destino biologico è un’idea che i movimenti femministi iniziano a smontare sin dagli anni Sessanta. Nel Manifesto di Rivolta Femminile del 1970, si legge che “il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut aut”. O madri o niente. 

Questo destino ineluttabile si basa in gran parte sul mito dell’istinto materno, secondo cui per le donne essere madri sarebbe una spinta innata. Anzi: “il ruolo più naturale”, come recita la nota stampa di Palazzo Chigi di settembre 2025 con riferimento a un viaggio fatto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni assieme alla figlia. 

La filosofa francese Élisabeth Badinter fa risalire la costruzione di questo mito alla fine del Settecento, quando gli stati iniziano a interessarsi alla crescita demografica. Da quel momento, per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento, alle donne viene chiesto di assolvere alla funzione sociale di procreare, seguendo questo imperativo: “Siate buone madri e sarete felici e rispettate”.

La senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni ha esplicitato molto bene la potenza di questo condizionamento quando ha espresso il desiderio che la maternità tornasse “a diventare cool”: “La mia mamma mi diceva sempre: ‘Ricordati che hai l’opportunità di fare quel che vuoi, ma non devi mai dimenticare che la tua prima aspirazione deve essere quella di essere mamma a tua volta’”. In questa tradizione, Mennuni ha aggiunto che anche le donne della sua età devono ricordarlo alle loro figlie: “Non dobbiamo dimenticare che esiste la necessità, la missione, di mettere al mondo dei bambini”.

E, in effetti, è molto difficile dimenticarselo. 

Qualche tempo fa un’amica mi ha confessato che stava provando ad avere un figlio con il compagno, ma senza successo. Sebbene avesse preso inizialmente il tentativo con un po’ di fatalismo, quella difficoltà l’aveva gettata nello sconforto più totale. Si sentiva rotta, difettosa. Eppure non aveva mai avuto un forte desiderio di maternità.

“Diventare madre o non esserlo è sempre stato intrecciato con il giudizio, il confronto o l’autopercezione di valore”, scrive Minello. “Quando alla dimensione individuale si intreccia quella pubblica, diventa difficile distinguere il desiderio personale dal giudizio sociale”. 

Lo desidero o sono indotta a desiderarlo? Andando a guardare i percorsi di chi è diventata madre, “non è sempre chiaro se la maternità sia un obiettivo che le donne si prefiggono o un’esperienza che, semplicemente, capita quando si segue la corrente in un processo decisionale passivo”, dice sempre Minello notando come, oltretutto, oggi capiti sempre meno. 

Anche il concetto di orologio biologico, che dipinge l’età fertile di una donna come il conto alla rovescia di un ordigno, è una costruzione. In un lungo articolo sul Guardian che ne ricostruisce la genesi, Moira Weigel scrive che quella dell’orologio biologico “è una storia di scienza e sessismo”, nonché un’invenzione piuttosto recente. Se ne comincia a parlare negli anni Settanta del Novecento, e l’espressione diventa popolare con un pezzo pubblicato sul Washington Post dal titolo The Clock Is Ticking For the Career Woman. Fino a quel momento, il termine aveva una valenza più generica e indicava i ritmi circadiani dell’essere umano, di entrambi i sessi, come quelli che regolano l’alternanza sonno-veglia. 

L’autore dell’articolo sosteneva che praticamente tutte le donne che conosceva tra i 27 e i 35 anni, indipendentemente dalla loro situazione sentimentale, volessero un bambino e sentissero “il ticchettare dell’orologio”. Da quel momento, questa accezione di orologio biologico inizia a dilagare sui media. Sono i primi anni Ottanta, quelli del contrattacco culturale alle conquiste femminili, come li ha definiti la giornalista Susan Faludi. “Se andiamo a vedere da dove ci è arrivata questa espressione, e come è stata usata, è chiaro che ha molto più a che fare con la cultura che con la natura. E il suo ruolo era quello di contrastare gli effetti della liberazione femminile”, scrive Weigel.

“La libertà di perseguire o no la maternità si basa su decenni di elaborazione e lotta femminista.”

Certamente la minor propensione alla maternità è legata anche a quanto il diventare madre rappresenti un sacrificio in termini di autonomia ed equilibri personali. Se si guardano le donne “debolmente motivate” ad avere figli sono molto spesso istruite, con un buon lavoro, una relazione. “Sono quelle che hanno maggiormente da perdere incorrendo nella motherhood penalty”, l’insieme di penalizzazioni e discriminazioni subite dalle madri lavoratrici, sostengono i ricercatori Francesca Luppi e Alessandro Rosina. 

Percezioni e aspettative sulla genitorialità si sono modificate nel tempo. Secondo Minello, mentre per le baby boomer la maternità era un destino inevitabile e per le donne della generazione X un sacrificio o una rinuncia, le millennial e soprattutto le più giovani mettono in discussione il necessario desiderio di diventare madri e lo trasformano in una scelta. 

Una scelta che “non rappresenta una diminuzione del potere procreativo”, piuttosto una sua ridefinizione: “La vera forza rivoluzionaria, la potenza di questi tempi non è la riduzione del desiderio di avere figli, ma l’ampliamento delle possibilità di scelta e l’autonomia decisionale riguardo alla propria vita riproduttiva”.

La libertà di perseguire o no la maternità, infatti, “si basa su decenni di elaborazione e lotta femminista”: “Alla possibilità di pensare alla congelazione degli ovuli come un’opzione si arriva, ad esempio, solo dopo aver conquistato, con fatica, il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo”, scrive Minello. Senza quel percorso, “anche le scelte più moderne rischierebbero di essere soltanto nuove forme di imposizione anziché strumenti di vera libertà”. 

La prospettiva della scelta è centrale per fronteggiare le obiezioni di chi vede in questo spirito dei tempi il rischio di un adeguamento a una spinta capitalistica e a un modello maschile di carriera e produttività economica piuttosto che una possibilità di autodeterminazione. 

Pur non potendo “misurare quanta parte ci sia dell’uno o dell’altro aspetto”, Minello nota come dalle giovani generazioni per la verità non ci sia “tutta questa pulsione verso la realizzazione lavorativa, come la intendevano nel passato. Spingono, ad esempio, per una ridefinizione nei tempi e nelle modalità del lavoro. È una generazione che sta creando tutta una serie di equilibri nuovi, che vanno capiti e banalmente accettati”. 

La decisione di fare un figlio, dunque, non dipende mai esclusivamente da fattori economici. Ne intreccia molti altri, tra cui anche la preoccupazione per il futuro del pianeta o l’abbandono di certi schemi relazionali. 

Se si considera questo, si capisce meglio perché le poche donne in età fertile non accolgano particolarmente la spinta allarmistica a riprodursi. E perché le politiche pronataliste e i bonus bebè nei fatti non funzionino granché. 

“L’Ungheria ce lo mostra bene. Quel tipo di investimenti aiuta le famiglie che già di per sé sono vicine ad avere la condizione per avere un figlio, o desiderano averne un altro e gli manca solo quella spinta in più”, spiega Minello. Questo provoca un iniziale rialzo della natalità, ma poi il trend torna a decrescere, perché “vengono completamente sottovalutate tutte le altre dimensioni, e soprattutto non viene considerato che sono dimensioni legittime”. 

Non significa che le politiche per le famiglie non servano, “anzi, è l’esatto opposto: servono eccome. Ma devono essere più ampie, generose, lungimiranti e accogliere anche altri tipi di famiglie”. Ad esempio quelle omogenitoriali, o le donne single che vogliono intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita non in coppia, possibilità preclusa dal nostro paese. 

Più che convincere le persone ad avere figli, le politiche pubbliche “dovrebbero creare le condizioni affinché chi lo desidera possa farlo”, senza compromettere altri aspetti fondamentali della propria vita. In questo senso, “la libertà di scegliere di non avere figli si rafforza solo quando è pienamente garantita anche quella reale e concreta di averli”.

Claudia Torrisi

Claudia Torrisi è una giornalista, si occupa principalmente di questioni di genere e diritti. Scrive su Internazionale, Domani e altre testate, e ha lavorato alla realizzazione di documentari e podcast.

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