Articolo
Rudi Bressa
La “nuova caccia” è prima di tutto politica

La “nuova Caccia” È Prima Di Tutto Politica Bressa Cover
natura politica Scienza storia

In Parlamento si è tornati a parlarne. Dicono che l'attività venatoria aiuti a conservare la biodiversità ma spesso le specie catturate sono già in declino. Si discute di esche vive e battute in aree protette, ma mancano i dati sommersi del bracconaggio.

C’è un prima e un dopo la notte del 12 agosto 2025. A circa 2.800 metri di altitudine, in Val Venosta, un manipolo di guardie forestali altoatesine prende la mira e spara. Vittima un esemplare di Canis lupus, il primo esemplare di lupo abbattuto da un’ordinanza regionale, con il parere positivo dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione dell’ambiente), da circa cinquant’anni a questa parte, ovvero da quando – prima nel 1971 e poi nel 1981 con la ratifica della Convenzione di Berna da parte dell’Italia – fu considerato specie protetta e quindi non cacciabile.

Certo non è il primo né l’ultimo abbattimento, ma fino ad oggi questi erano per lo più illegali, atti di bracconaggio, come quello per cui andrà a processo il cacciatore bellunese A. P.  che, secondo l’accusa, nell’autunno del 2024 utilizzò delle esche e delle trappole a laccio per uccidere grandi predatori. O come un allevatore di Grosseto, condannato a sette mesi di reclusione per aver ucciso, scuoiato e appeso un lupo nel lontano 2017.

Un prima e un dopo, si diceva. Sì, perché il declassamento del lupo deciso dal Parlamento europeo lo scorso maggio (371 voti a favore, 162 contrari e 37 astensioni), ha portato alla modifica dello status di protezione dei canidi da “strettamente protetti” a “protetti”, allineandosi alla decisione della Convenzione di Berna di dicembre 2024. “Gli Stati membri disporranno ora di una maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni di lupi al fine di migliorare la coesistenza con gli esseri umani e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione di lupi in Europa”, si legge in una nota del parlamento.

La parola fondamentale: “coesistenza”. L’esperienza nella gestione del lupo è – e sarà – un esempio perfetto del difficile rapporto tra Homo sapiens e i grandi carnivori. E lo è ancora di più quando si parla della conservazione di una specie che stava per scomparire. Dopo il declassamento del lupo la preoccupazione maggiore, non solo da parte delle associazioni ambientaliste, ma anche di zoologi, biologi ed esperti della conservazione, è che questo dia inizio a una caccia indiscriminata e illegale non solo del lupo. Secondo l’ultimo e più recente monitoraggio a livello nazionale effettuato dall’Ispra nel 2021, nel nostro paese ci sono circa 3300 lupi – con una forbice che arriva fino a 3600 – che occupano una larga parte del territorio nazionale e che nelle regioni peninsulari hanno colonizzato la quasi totalità degli ambienti idonei.

Sempre l’Ispra stima che le predazioni di bestiame tra il 2015 e il 2019 siano state circa 43mila, con un totale di oltre 9 milioni di euro di indennizzi concessi nel periodo analizzato. Questi freddi numeri raccontano un rapporto tornato ad essere complesso tra allevatori e grandi carnivori, conflittuale nelle zone dove sono state registrate le predazioni, il che ci porta ad un’altra considerazione: il declassamento del lupo non è stato dettato da un principio scientifico di precauzione, ma da una scelta eminentemente politica e culturale. È una decisione che apre crepe profonde in un sistema di tutele costruito in cinquant’anni e che rischia di diventare un precedente pericoloso per altre specie protette.

Un dibattito questo che si intreccia con ciò che sta accadendo nelle stanze del parlamento in questi mesi, dove a inizio anno ha cominciato a circolare una bozza di disegno di legge che ha l’obiettivo di modificare la legge 157 del 1992, ovvero uno dei pilastri fondamentali per la protezione della fauna selvatica e della biodiversità in Italia. A firma Malan, Romeo, Gasparri e Salvitti – ovvero da tutti i partiti di governo e sostenuto dal ministro Lollobrigida – il decreto punta a riscrivere le regole sulla caccia.

Tra i punti più controversi del decreto c’è l’introduzione esplicita dell’idea che la caccia, oltre a essere un’attività legittima, contribuisca alla tutela della biodiversità. Un’affermazione che appare ideologica, se non provocatoria, proprio alla luce delle ricerche scientifiche.

Nelle intenzioni, vorrebbe modernizzare la legge, ma nei fatti allarga le maglie delle deroghe e riduce il peso dei controlli scientifici. Tra i punti più controversi c’è l’introduzione esplicita dell’idea che la caccia, oltre a essere un’attività legittima, contribuisca alla tutela della biodiversità. Un’affermazione che appare ideologica, se non provocatoria, proprio alla luce delle ricerche scientifiche. Eppure è così che viene riformulato l’articolo 1 della legge: si afferma che l’attività venatoria, “nel rispetto dei limiti di cui alla presente legge, concorre alla tutela della biodiversità e dell’ecosistema”.

Il nuovo testo prevede inoltre che le Regioni possano autorizzare abbattimenti anche in deroga ai divieti nazionali, riducendo il ruolo dell’Ispra che fornisce vincoli di prelievo e calendari venatori ma che secondo lo stesso ministro “non è il detentore delle regole divine”. Tra le altre modifiche, vengono aperte le possibilità di interventi in aree protette e parchi nazionali, luoghi che dovrebbero costituire un rifugio per la fauna selvatica, o la possibilità di rivedere l’elenco delle specie cacciabili, introducendone di nuove, insieme a una semplificazione nelle autorizzazioni per l’uso di strumenti, oggi vietati, come i richiami vivi.

I numeri reali, però, dicono altro. Secondo il recente rapporto Ispra sulla pressione venatoria (2017-2023) in Italia si abbattono ogni anno milioni di uccelli appartenenti alle 36 specie cacciabili, spesso migratrici che attraversano il nostro paese come ponte tra Africa ed Europa. Il tordo bottaccio risulta la specie più colpita, seguito da fagiani, colombacci e allodole, quest’ultime già in forte declino a livello europeo. I dati regionali sono parziali e frammentari, con percentuali di tesserini venatori analizzati che raramente superano il 50%. Questo rende difficile valutare l’effettiva sostenibilità del prelievo, come richiedono invece le direttive europee. Nonostante alcuni miglioramenti nella raccolta dei dati, la gestione continua a poggiare su basi incomplete.

A questi numeri ufficiali vanno poi aggiunti quelli “sommersi”: il bracconaggio, che in molte aree del paese continua a incidere in maniera significativa, colpendo specie già minacciate come la tortora selvatica o il moriglione. Un esempio drammatico è quello dell’Ibis eremita: il progetto europeo per la sua reintroduzione in Europa, attivo da oltre vent’anni, ha documentato con precisione 71 casi di bracconaggio solo in Italia, mentre in Spagna, Germania e Austria i casi rasentano lo zero. Grazie al monitoraggio con GPS, oggi sappiamo che oltre un terzo delle morti certificate è dovuto ai pallini di piombo dei fucili. E non si tratta certo di un caso isolato: a dimostrazione di quanto questa rete di trafficanti di natura sia organizzata, lo scorso luglio l’operazione Turdus aureus ha portato alla luce uno strutturato traffico internazionale di uccelli selvatici destinati al mercato illecito dei richiami vivi.

Migliaia di uccelli, soprattutto tordi, vengono ogni anno catturati illegalmente in natura – spesso prelevando i piccoli appena nati direttamente dai nidi –, stipati in minuscole gabbie e fatti finire nelle mani di allevatori italiani che applicano anelli falsi alle zampe per farli passare come animali allevati. Un business enorme: un solo tordo da 68 grammi può valere fino a 300 euro vivo, mentre, se morto e destinato alla cucina tradizionale, 200 euro al chilo.

Il paradosso è evidente: mentre gli enti scientifici, le forze dell’ordine e le associazioni ambientaliste chiedono un monitoraggio più rigoroso, controlli puntuali e una valutazione scientifica degli impatti sugli ecosistemi, il nuovo disegno di legge spinge nella direzione opposta, riducendo i vincoli e aprendo la strada a una deregolazione che rischia di aggravare ulteriormente il panorama attuale.

Ma c’è una questione ancora più importante. Con la Nature Restoration Law, approvata lo scorso anno a Bruxelles, l’Europa ha deciso di intraprendere un percorso di ripristino degli ecosistemi degradati: un atto d’amore nei confronti delle generazioni future, fondato sul principio che ecosistemi in salute possano aiutarci a fermare la perdita di biodiversità e contrastare la crisi climatica. Significa riconoscere che la natura non è una risorsa da mercificare, ma un bene collettivo da custodire. Agricoltori e allevatori hanno il diritto – e persino il dovere – di essere parte del processo decisionale, perché sono i primi a confrontarsi con i grandi carnivori, con gli ungulati e altre specie problematiche. Ma non possono essere lasciati soli, né trasformati in manager di un patrimonio che appartiene a tutti. Un orso, un lupo, un falco pellegrino non sono proprietà privata, ma simboli di una comunità vivente che ci trascende.

In un mondo sempre più antropizzato, i conflitti con la fauna rappresentano un problema crescente che minaccia al tempo stesso la conservazione delle specie e la qualità della vita delle persone, specialmente nei paesi a basso reddito.

Trovare soluzioni concrete per la coesistenza tra esseri umani e fauna selvatica non è solo un’urgenza italiana o europea. È uno degli obiettivi dichiarati del Global Biodiversity Framework, la strategia delle Nazioni Unite che mira a fermare la perdita di biodiversità e invertire la rotta entro il 2030. In un mondo sempre più antropizzato, i conflitti con la fauna rappresentano un problema crescente che minaccia al tempo stesso la conservazione delle specie e la qualità della vita delle persone, specialmente nei paesi a basso reddito. È un banco di prova globale, che ci costringe a ripensare il nostro rapporto con la natura.

Lo ha ricordato il biologo Doug Smith, storico coordinatore del progetto di reintroduzione del lupo a Yellowstone. Con il passare del tempo, ha spiegato, le motivazioni ecologiche hanno lasciato spazio a considerazioni etiche e spirituali. Racconta un episodio: l’incontro con una tribù di nativi americani venuti a pregare per il ritorno del lupo. Per loro non era questione di equilibrio ecologico, ma di spiritualità. E allora la domanda provocatoria che sorge è questa: davvero abbiamo bisogno di giustificare la protezione del lupo e delle altre specie con argomenti scientifici? Lo stesso Smith ha sottolineato come ogni lupo ucciso non è solo un numero, ma la perdita irrimediabile di un individuo, di un legame che non potrà più esistere.

In fondo, è con le vite di tutti questi animali che condividiamo il nostro habitat, e la loro sopravvivenza rispecchia la nostra. La sfida che abbiamo davanti non è solo normativa o gestionale: è spirituale. Riguarda il posto che l’umanità vuole occupare nel mondo naturale. Se sceglieremo la via della coesistenza, allora anche i conflitti potranno trasformarsi in occasioni di equilibrio. Se invece cederemo alla logica dell’antropocentrismo economico, spezzeremo definitivamente quel legame invisibile che ci tiene uniti al resto della vita sul pianeta.

Rudi Bressa

Rudi Bressa è giornalista e divulgatore scientifico. Da oltre dieci anni racconta crisi climatica, biodiversità e transizione ecologica per testate nazionali e internazionali, e oggi collabora con il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. È autore di Trafficanti di natura (Premio Demetra per la saggistica ambientale) e nel 2025 è stato menzionato da SWIMM tra i giornalisti scientifici dell’anno. Le sue inchieste sul traffico e il bracconaggio di fauna selvatica hanno ricevuto riconoscimenti dall’Earth Journalism Network e dall’Hostwriter Prize. Speaker e moderatore a conferenze e festival scientifici, lavora per portare al grande pubblico conoscenza e consapevolezza ambientale.

Contenuti Correlati