Lo spazio è diventato un sogno per pochi: fughe miliardarie, lanci spaziali inquinanti, colonizzazioni marziane. Ma i romanzi interstellari contemporanei ci riportano lassù per guardare giù.
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” diceva l’Amleto di Shakespeare, meravigliandosi di una realtà così vasta e misteriosa da spingersi oltre il pensiero e l’immaginazione umana. Una consapevolezza inquietante e travolgente.
La crisi climatica ci ha fatto un regalo simile: vedendo fragile la Terra ne abbiamo riscoperto la meraviglia e il mistero – almeno noi occidentali che ce n’eravamo in parte scordati. Forse se oggi chiedessimo a un bambino sognatore cosa voglia fare da grande risponderebbe il biologo, non l’astronauta. Il mondo da esplorare è quaggiù, davanti a noi, ed è la scoperta più bella e preziosa che potessimo fare.
Tutto questo però non dovrebbe impedirci di guardare le stelle. Gli ultimi decenni ci hanno portato via il cielo, l’hanno cosparso di satelliti privati e trasformato in una costosa via di fuga dal pianeta per capitani miliardari pronti a salire su una scialuppa di lusso mentre la nave-terra affonda.
Lanci privati, mega-costellazioni satellitari, progetti di colonie lunari e marziane espandono una economia spaziale più che mai neoliberista, un altrove incontaminato dove ricominciare da capo, con lo stesso estrattivismo colonialista che ci ha accompagnati fino ad ora: spostare l’industria inquinante o costruire habitat autosufficienti mentre la Terra affronta il collasso ecologico. Un immaginario tecno-ottimista che intreccia innovazione tecnologica, investimento finanziario e mito pionieristico. E nel frattempo i lanci aumentano le emissioni, i detriti spaziali minacciano l’ecosistema orbitale. Finiremo per riempire di rifiuti pure il cielo stellato sopra di noi.
Dopo una corsa allo spazio che ha dato forma e identità al secondo Novecento, e che ha ispirato ricerca scientifica e produzione letteraria, facendo desiderare indifferentemente a bambini russi e statunitensi di fare l’astronauta da grandi e regalandoci forse la più grande serie cinematografica della storia, Guerre stellari. Insomma, dopo essere stato di tutti lo spazio è diventato di pochi, anzi pochissimi.
La prima cosa che ci viene in mente se pensiamo allo spazio nel presente è la Space X di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo dagli ambiziosi desideri individuali. L’imprenditore sudafricano incarna la privatizzazione dei sogni collettivi: la sua Tesla è stata l’auto di extra lusso della transizione energetica; Neuralink è – o vorrebbe essere – il suo Matrix personale o il transumanesimo dei grandi imprenditori: l’obiettivo di potenziare l’umano attraverso la tecnologia, superando i limiti biologici, fino a fondere cervello e macchina e sfidare i confini della mortalità; Space X è la promessa di raggiungere Marte, scoprirlo abitabile o almeno ricco di risorse, e costruire così una scialuppa di salvataggio per i potenti del mondo quando il pianeta Terra sarà più in fiamme di quanto già non sia. Oppure una miniera privata per accaparrarsi risorse quando qui saremo agli sgoccioli.
L’allunaggio fu uno dei primissimi momenti profondamente condivisi su scala globale, un evento che fu più che mai di tutti. Avveniva (anche) in risposta al lancio sovietico dello Sputnik nel ‘57, in un contesto di Guerra Fredda e militarizzazione, ma restava un evento enorme e catartico, il gusto vertiginoso della scoperta. Era un grande passo per l’umanità: Musk invece oggi rimpicciolisce lo Spazio privatizzandone la scoperta.
Il suo razzo Falcon 9 sfreccia spedito nell’orbita terrestre carico di satelliti che vanno a nutrire e accrescere la sua costellazione personale che già ne conta seimila, mentre per il 2026 è prevista la prima missione su Marte, senza equipaggio, della sua navicella Starship.
Qui e oltre dello statunitense Hal Lacroix è uscito da poco per Einaudi e immagina una spedizione dalla Terra in preda a conflitti e collasso climatico verso la promessa di un pianeta potenzialmente abitabile e ancora senza un nome vero. Per adesso si chiama HD-4037g, starà ai nuovi abitanti battezzarlo. Seicento persone salgono sulla Mondonave, un’arca costruita da un ricco visionario che all’ultimo momento sceglie di rimanere giù. La navicella dovrà viaggiare per 360 anni e sei generazioni, sempre guidata dalla missione, a tratti molto lontana sia dalla partenza che dall’arrivo. Il romanzo racconta una società alimentata da regole tutte sue, che in parte reggono e in parte cambiano nel tempo, in un ecosistema artificiale che produce e ricicla ogni cosa, senza denaro né animali ma campi coltivati al posto del cielo e stelle e pianeti fuori dagli oblò. Si susseguono periodi in cui la fede nella missione di “portare avanti ciò che altri hanno iniziato” scorre senza sforzo, e altri in cui il guizzo ribelle di un singolo mette in pericolo oppure salva la missione, rivoluzioni e innovazioni inizialmente spaventose diventano tradizioni.
Quella della Mondonave è una missione per provare a costruire un mondo nuovo, ripulito di tutto ciò che sulla terra abbiamo sbagliato, a partire dal denaro e dal potere. È la versione democratica dei sogni di Musk, eppure la domanda più forte che emerge mentre si legge è come stia quella Terra che seicento persone si sono lasciate alle spalle e dove il ricco visionario ha scelto di restare. “Perché non erano rimasti sulla Mondoterra a sistemare le cose? Era davvero così grave, la situazione? E chi lo diceva che su quel pianeta avvolto dalle nuvole, su HD-40307g, non avrebbero commesso gli stessi errori? O altri, nuovi”, si chiede un ragazzo nell’anno 360 dalla partenza della Mondonave, a pochi giorni dallo sbarco.
Mezzo secolo fa Lou Reed raccontava la partenza di un satellite in televisione, lo chiamava Satellite of Love e si immaginava Marte “soon filled with parking cars”: gli stessi errori, proprio come temeva Frank, mentre per il Rocketman di Elton John, “Mars ain’t the kind of place to raise your kids/In fact it’s cold as hell”.
Il fascino della scoperta dello spazio però popolava immaginari, romanzi, film e canzoni, perché lo spazio era patrimonio comune ma l’idea di lasciare il pianeta non convinceva nemmeno allora. Del resto una delle immagini dallo spazio che hanno emozionato di più l’umanità fu Blue Marble, la prima fotografia a colori della Terra, scattata nel 1972 dagli astronauti dell’Apollo 17. Da lassù, si scopriva la meraviglia di quell’unica e tutto sommato piccola casa.
In Orbital, un piccolo capolavoro di poesia e stupore uscito lo scorso anno per NNE, l’autrice britannica Samantha Harvey scrive:
La Terra, da qui, è un paradiso. Trabocca di colori pieni di speranza. Quando siamo su quel pianeta guardiamo in alto e pensiamo che il paradiso sia altrove, ma ecco cosa pensano gli astronauti e i cosmonauti, a volte: forse tutti noi che siamo nati su quel pianeta siamo già morti e ci troviamo nell’aldilà. Se davvero dopo la morte dobbiamo andarcene in un luogo improbabile e difficile da immaginare, quella sfera vitrea e lontana, con le sue splendide danze solitarie di luce, potrebbe essere il posto giusto.
Orbital è ambientato nello spazio ma non è fantascienza: siamo sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), una piattaforma che orbita attorno alla Terra e funziona come un laboratorio scientifico, gestita da Stati Uniti, Europa, Giappone, Canada e Russia. Assieme. Mentre lo spazio perde fascino e democrazia, diviso in lotti da immobiliaristi celesti, la ISS è un miracolo del multilateralismo e della cooperazione scientifica. Gli astronauti e cosmonauti che ci vivono lavorano a strettissimo contatto conducendo esperimenti biologici e fisici in assenza di gravità, mentre viaggiano a 400 km da qui compiendo un giro completo del globo terrestre ogni 90 minuti: 16 albe e 16 tramonti ogni giorno. Harvey racconta un giorno a bordo di questo luogo magico di diplomazia globale, in cui la bellezza della scoperta dimentica confini e conflitti. Si alternano pensieri, emozioni e osservazioni di quattro astronauti e due cosmonauti che convivono sulla navicella e dall’alto osservano la Terra nella sua bellezza e fragilità, quella “blue marble” che sembra un paradiso.
Il mare è una distesa piatta e color rame di Sole riflesso e le ombre delle nuvole si allungano sull’acqua. L’Asia arriva e scompare. L’Australia è una sagoma scura e informe in quest’ultimo soffio di luce, che ora è diventata di platino. Tutto si sta oscurando. L’orizzonte terrestre, spalancato di luce in un’alba così recente, sta sparendo. La linea perde nitidezza nell’oscurità, come se la Terra si stesse dissolvendo, e il pianeta diventa viola e sembra sfocato, un acquerello che perde colore.
Gli astronauti e i cosmonauti di Samantha Harvey guardano giù, da lassù. Osservano commossi la meraviglia, il mistero e la grazia della Terra, proprio mentre monitorano un tifone che da un momento all’altro potrebbe abbattersi su migliaia di case e di vite. Vedono la luce che svanisce «sull’orlo di un continente.» Vedono casa: quello che i Pionieri di Qui e oltre faticano a trovare quando arrivano su HD-4037g.
Non si sentiva a casa lì, qualunque cosa volesse dire. Per appartenere a un pianeta, doveva essere il luogo in cui i tuoi antenati si erano evoluti da scimmie, pesci e amebe e, prima ancora, da proteine accalcate in una pozza vulcanica? Come si fa a rendere proprio un luogo alieno? Lo si scava, certo, ci si sanguina sopra e ci si immerge dentro, ci si fa la pipì e si ragiona sul suo funzionamento, magari ogni tanto di prova persino a lasciarlo stare, ma niente di tutto ciò sembrava sufficiente a Lorrent.
Proprio nelle ultime pagine verrebbe voglia di guardare indietro e vedere almeno in lontananza il pianeta azzurro.
La letteratura spaziale contempla con stupore e tenerezza questo paradiso fragile, che visto da vicino sappiamo essere anche una valle di lacrime, ma pur sempre meraviglioso, sorprendente e infinitamente bisognoso di cura. Da HD-4037g o dalla Stazione Spaziale Internazionale, in uno spazio ancora di tutti e ancora sorprendente, ricordiamo che ci sono più cose sulla Terra di quante ne sogni la nostra filosofia. Altro che fughe in pianeti lontani: «Senza la Terra siamo finiti. Non potremmo sopravvivere un secondo senza la sua grazia, siamo tutti marinai su una nave in un mare scuro, profondo, impenetrabile».