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Maria Teresa Renzi-Sepe
La scienza astronomica è nata per fare l’oroscopo

La Scienza Astronomica È Nata Per Fare L’oroscopo Cover Renzi.sepe
Scienza spazio storia

Le origini babilonesi dell'astrologia mettono in discussione la separazione assoluta tra spazi siderali e stelle personali che vige nel positivismo occidentale.

Negli anni Sessanta, Karl Popper ha sostenuto che “il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità e controllabilità”. È il cosiddetto principio di demarcazione: prevede che una scienza possa dirsi tale se è in grado di prevedere fenomeni futuri, verificabili tramite osservazioni. È così che oggi distinguiamo la psichiatria dalla frenologia: in caso di omicidio, nessun tribunale prenderebbe più in considerazione le teorie ottocentesche di Franz Gall – secondo cui la personalità di un essere umano dipende dalla forma del suo cranio. Allo stesso modo, siamo in grado di separare l’astronomia dall’astrologia. Ma a differenza della frenologia, gli oroscopi e i segni zodiacali sono ancora molto amati, almeno quanto le sonde su Marte e il suono dei buchi neri. 

Una spiegazione potrebbe risiedere nell’origine di questi due corpora di conoscenze. Astronomia e astrologia sono separate oggi, ma non lo sono state per centinaia di anni. Sono nate fra l’attuale Iraq e Iran, circa tremila anni fa, nell’antica Mesopotamia. Per gli scribi del luogo, che padroneggiavano la scienza di quell’epoca, non esisteva il concetto di “natura”, cioè l’insieme delle proprietà che fanno sì che una cosa sia esattamente com’è. Capire la natura significa spiegare perché le stelle si muovono in un certo modo, o per quale ragione abbiamo la febbre. Gli scribi non si chiedevano perché i fenomeni funzionassero, ma quando sarebbero accaduti e cosa significano per gli esseri umani. Questa è la differenza principale fra la scienza occidentale e quella cuneiforme dell’antichità. Mentre i Greci spiegavano il mondo da un punto di vista materiale e meccanico, a Babilonia c’era qualcosa di simile a una fenomenologia – una spiegazione di come i fenomeni si manifestano nella realtà – accompagnata da una ricerca di senso per l’umanità intera. Una ricerca che passa attraverso una logica ante litteram.

Se osserviamo le stelle per alcune notti di fila, ci accorgiamo che si muovono da est a ovest, in maniera circolare. Questo non vale, però, per alcuni puntini erranti e vagabondi, che compiono tragitti diversi: i pianeti.

Gli scribi della Mesopotamia notano i pianeti già fra i 4000 e i 5000 anni fa, e li chiamano “pecore selvagge”. Identificano prima quello che noi chiamiamo Venere e poi, a seguire, Giove, Marte, Mercurio e Saturno. A questi associano un’identità e una simbologia: Venere è Ishtar, dea dell’amore e della guerra; Giove è Marduk, il re degli dèi; Marte è Nergal, il dio della distruzione; Mercurio e Saturno sono ambigui e non rappresentano nessuna divinità in particolare: il primo è più positivo, l’altro più negativo. In termini filosofici, potremmo dire che i pianeti fossero considerati sia trascendenti – autonomi, con il proprio movimento – che immanenti – divini, conoscitori della vita sulla terra.

Dopo centinaia di anni di osservazioni, gli scribi notano una certa ciclicità nei movimenti dei pianeti. Già la divinazione celeste si basava sulla ricerca di somiglianze sistematiche fra gli eventi del cielo e della terra; la ciclicità dei pianeti genera nuovi scenari. Anche i fenomeni sulla terra sono ciclici? E, se lo sono, lo è anche la nostra individualità? Pensiamo sia nata così l’astrologia in Mesopotamia, che nei testi cuneiformi aveva questa forma:

Se nasce un bambino e si vede Giove, sarà sano, pacifico, ricco, avrà giorni lunghi. Se si vede Venere, sarà calmo, eccezionale, accettato ovunque vada. Se si vede Mercurio, sarà eroico, signorile, forte. Se si vede Marte, sarà strano, riottoso. Se si vede Saturno, sarà cupo, malato.

Queste sono solo alcune delle apparizioni basilari ma significative degli astri al momento di una nascita. Ai “caratteri” dei pianeti si possono aggiungere la luna e le sue fasi, la luminosità dei pianeti stessi e in quale costellazione si trovavano: tutti eventi che simboleggiano altrettanti pronostici sulla vita di un essere umano, combinabili per produrre risultati che spaziavano in diverse aree dell’esistenza, dalle relazioni, alla salute, fino al rapporto con le divinità. 

Per segnalare in maniera sempre più accurata i punti in cui i pianeti si trovano, gli scribi creano un sistema di misurazione che divide il cielo e le stelle in dodici sezioni uniformi, all’interno delle quali i pianeti si spostano. A ciascuna di queste sezioni viene assegnata una figura, un nome e una simbologia specifica. Questo è lo zodiaco, con i suoi dodici segni come Ariete, Gemelli, Vergine o Leone, quasi del tutto identici a quelli che conosciamo oggi. Attraverso algoritmi – calcoli e tabelle di numeri – gli scribi sono in grado di prevedere con una certa esattezza quando e dove un astro riapparirà nel cielo in futuro, per poi comprenderne il significato intrinseco. 

È utile aprire una parentesi storica: a differenza dei Greci, gli scribi della Mesopotamia non ci hanno lasciato trattati di scienza e filosofia. Tra le migliaia di fonti in scrittura cuneiforme abbiamo per lo più testi “tecnici”, dove il sapere degli scribi veniva messo per iscritto tralasciando spiegazione alcuna. Un po’ come scrivere un’equazione sul quaderno degli esercizi di matematica: di rado usiamo il linguaggio verbale per spiegarne il significato. Quindi, ciò che abbiamo a disposizione sono perlopiù numeri, testimoni di predizioni astronomiche senza alcuno scopo apparente se non quello di incrociare dati relativi alla simbologia divinatoria tra loro.

L’astrofisico e assiriologo Mathieu Ossendrijver, che ha studiato e interpretato gli algoritmi degli scribi, non ha escluso che quella che chiamiamo oggi astrologia potesse essere stata il fine ultimo dell’astronomia – intesa come un’indagine scientifica che produce predizioni future e falsificabili. Pensando il cielo come un linguaggio, matematico e cuneiforme, per leggere la realtà, l’astronomia sembra essere nata come ancella dell’astrologia, per trasformare dati quantitativi in qualitativi. Ribadiamo che, in un luogo come la Mesopotamia, in cui non esisteva il concetto di “natura”, non si può applicare la divisione fra scienza e pseudoscienza. C’era un’unica scienza, razionale e che usava diversi tipi di logica, da cui discendono sia l’astronomia che l’astrologia di oggi. L’astrologia cuneiforme non predice in senso causale, ma suggerisce corrispondenze: interpreta i fenomeni del cielo come fossero segni della personalità e delle tendenze che si avranno nell’arco di una vita. E ciclicità non era sinonimo di determinismo: sono moltissimi i testi cuneiformi che ci suggeriscono come, fra medicine, incantesimi, amuleti e rituali, il destino potesse essere modificato. 

“Pensando il cielo come un linguaggio, matematico e cuneiforme, per leggere la realtà, l’astronomia sembra essere nata come ancella dell’astrologia, per trasformare dati quantitativi in qualitativi”.

In Grecia, dove abbiamo a lungo ritenuto fosse nata la scienza, l’astrologia e l’astronomia furono praticate sotto la grande influenza di quella della Mesopotamia. Gli studiosi greci fecero propri numerosi aspetti della scienza cuneiforme, ma immaginavano il cielo come un insieme di connessioni geometriche, invece che linguistiche e numeriche. Una geometria che portiamo con noi da allora, quando spieghiamo il moto dei pianeti attraverso le leggi di Keplero formulate nel Seicento: il sole sta in uno dei due fuochi di un’ellisse, lungo la quale i pianeti orbitano mentre al contempo girano sul loro stesso asse. 

Quando Claudio Tolomeo, uno fra i primi teorici dell’astrologia, scrisse i suoi trattati nel secondo secolo, incluse concetti tipici dei testi di Babilonia, basati sugli stessi principi logico-simbolici della divinazione. Gli intellettuali ellenistici canonizzarono ciò che in Mesopotamia era già da tempo alla base della scienza – il fatto che i fenomeni del cielo si associano agli eventi sulla terra – e lo resero fondamento del pensiero filosofico occidentale. Tale è rimasto, incontrastato fino al Rinascimento, trasformandosi nel mezzo per interpretare un mondo gerarchicamente ordinato e influenzato da principi divini. Sebbene le fonti cuneiformi siano rimaste sconosciute fino al diciannovesimo secolo, la fama dell’astrologia è sopravvissuta grazie ai testi Greco-Romani e ai filosofi neoplatonici, convivendo sia con la religione che con la scienza empirica. Facendo un grande salto in avanti di qualche secolo nella storia della scienza, il pensiero positivista ha tenuto l’astronomia e scartato l’astrologia per via della sua incompatibilità con l’empirismo e la sperimentazione. Eppure, non ci siamo mai liberati del tutto dell’astrologia: divenuta, negli anni Trenta, una rubrica alla fine dei periodici, poi un passatempo da televendita strumentalizzato a scopi commerciali e, infine, uno strumento di auto-definizione, ci si chiede spesso quale sia il motivo di tanta resilienza. 

Oltre l’invenzione di una logica sistematica, dell’astronomia e dell’astrologia, è il concetto di “segno” o “simbolo” – cioè qualcosa che sta per, oppure evoca qualcos’altro – il più grande apporto intellettuale della Mesopotamia. Oggi distinguiamo un segno (che indica un contenuto noto) da un simbolo (che ha significati diversi per ognuno di noi), ma nella cultura della Mesopotamia non vi era una tale distinzione: ogni segno può essere anche simbolo. Sotto questa luce, l’astrologia ha più in comune con alcune branche della psicologia che con l’astronomia. Entrambi questi saperi rispondono alla necessità di interpretare il sé, e di narrarlo utilizzando la logica e i simboli. L’astrologia forse è così popolare e duratura perché è una semiotica applicata alla narrazione dell’individuo. Questi due concetti sono stati sia pilastri del pensiero cuneiforme sia due leitmotiv del Novecento.

La “nuova” storia dell’astronomia e dell’astrologia, che ancora stiamo scrivendo e che si intreccerebbe anche con quella della filosofia, rivela una controtendenza rispetto alla narrativa classica della scienza occidentale, dove anche la personalità e il comportamento degli esseri umani sembrano essere una questione di fisica. In un mondo in cui tutto è riconducibile a elettroni, gli studi sulla Mesopotamia ci ricordano che la narrativa, il modo in cui percepiamo il mondo e la società, hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale nella traiettoria scienza, nel definirne gli obiettivi. Sugli astri, da Babilonia a oggi, abbiamo proiettato le vette della razionalità e della filosofia, ma anche  desideri e paure: il bisogno umano di cercare un senso non si esaurisce né con l’astrologia né con la fisica.

Maria Teresa Renzi-Sepe

Maria Teresa Renzi-Sepe è ricercatrice presso l’Istituto di Storia della Conoscenza dell’Antichità alla Freie Universität di Berlino. È laureata in Archeologia e ha un dottorato in Assiriologia. La sua ricerca spazia tra la filologia e la storia della scienza, concentrandosi sulla concettualizzazione delle stelle e dei pianeti nel mondo cuneiforme. Scrive anche di libri su alcune riviste culturali online.

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