Gli antichi scribi mesopotamici prevedevano il moto dei pianeti a partire da domande distantissime da quelle dell'astronomia moderna, che ci spingono a ripensare la natura della conoscenza scientifica.
Babilonia, 3000 anni fa. È notte. Ti sei spinto nella steppa, lontano dalla città. Sopra di te si svolge uno spettacolo mozzafiato: quello del cielo. È un mondo lontano fatto di puntini luminosi che appaiono dopo che tramonta il sole e si muovono in maniera circolare, da est a ovest. Li osservi tutte le notti e sai che ritorneranno al punto di partenza. A volte, il loro movimento è interrotto da puntini erranti che compiono tragitti irregolari: sono i pianeti.
Che senso ha tutto questo per te? Hai imparato a calcolare dove e quando gli astri si sposteranno nel futuro. Non solo: sei anche in grado di prevedere le conseguenze di questi spostamenti per gli esseri umani.
Sin dall’antichità abbiamo osservato e interrogato il cielo in cerca di risposte a domande sempre diverse. Troviamo ancora oggi tracce arcaiche di questo rapporto fra noi e la volta celeste nell’astrologia, la pseudoscienza più popolare e amata in Occidente. Questa storia va di pari passo con quella del pensiero scientifico. A Babilonia non c’erano i limiti che tracciamo fra scienza e pseudoscienza, o fra astronomia e astrologia. Gli studi di Assiriologia – la disciplina che riguarda la cultura e la storia della Mesopotamia – rivelano che gli scribi erano in grado di ottenere risultati matematicamente precisi allo scopo di indagare l’influenza degli astri sulla nostra vita. Oggi ci si interroga su come definire ciò che facevano quei sapienti babilonesi: è possibile concepire una scienza che includa conoscenze che noi definiremmo “non scientifiche”?
“Gli scribi erano in grado di ottenere risultati matematicamente precisi allo scopo di indagare l’influenza degli astri sulla nostra vita”.
È difficile immaginare una disciplina scientifica priva delle caratteristiche a cui siamo abituati. A scuola impariamo che le scienze naturali sono quelle che ci svelano i “fatti oggettivi”. Ma cosa sono davvero i “fatti oggettivi”? Un batterio non si presenta a noi con CV e lettera motivazionale. Quello che vediamo in un batterio, attraverso gli esperimenti, lo traduciamo nel nostro linguaggio umano, creando un fatto e poi una teoria. Quelli che chiamiamo “fatti oggettivi” sono sempre fatti umani, anche se ispirati da ciò che ci circonda.
La divisione fra “natura” oggettiva e “noi” che la osserviamo è stata inventata in Occidente. I primi sono stati i Greci, che vedevano la natura, o physis – cioè le stelle, le piante, gli animali, gli organi del corpo –, come qualcosa di governato da leggi proprie, che dovevano essere scoperte. I Greci si sono chiesti come funziona la natura? E questa domanda, da sola, ha trascinato tutta la storia della scienza fino a oggi. Ma se la questione fosse un’altra?
La Mesopotamia, il cosiddetto “luogo fra i due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate, ha ospitato numerose popolazioni fra i 5.000 e i 2.000 anni fa, tutte accomunate dall’uso della scrittura cuneiforme, impressa su tavolette d’argilla. Negli scavi archeologici fra l’Iraq e l’Iran, nelle antiche città di Ninive, Assur e Babilonia, abbiamo trovato le prime leggi, le prime ricevute commerciali, i primi miti, i primi dèi. Ma i testi cuneiformi non contengono solo il racconto epico di Gilgamesh o il codice di Hammurabi. Di numeri e formule strane, la Mesopotamia era così piena da attirare l’attenzione di astrofisici e matematici sin dalla fine del XIX secolo. Parallelamente alla decifrazione della scrittura, sono stati studiati anche i testimoni di quella che oggi chiamiamo “astronomia matematica predittiva”: algoritmi in lingua cuneiforme creati per sapere quando i pianeti sarebbero riapparsi nel cielo, nello stesso punto, senza l’uso di strumenti ottici.
“Negli scavi archeologici fra l’Iraq e l’Iran, nelle antiche città di Ninive, Assur e Babilonia, abbiamo trovato le prime leggi, le prime ricevute commerciali, i primi miti, i primi dèi. Ma anche numeri e formule strane”.
Siamo di fronte alla prima scienza? La risposta non è così immediata. L’assiriologa e storica della scienza Francesca Rochberg si è occupata di questa e altre domande nel libro Before nature: Cuneiform Knowledge and the History of Science, in cui sottolinea che su nessuna tavoletta di argilla c’è una singola parola, frase, o concetto che potremmo tradurre con “natura”. Agli scribi non importava di che materia fossero fatte le stelle e i pianeti, di che forma fossero o di quali leggi li governassero. Il moto degli astri si traduceva in quantità astratte: numeri. Dopo anni di osservazioni a occhio nudo, gli scribi formularono quella che noi oggi chiameremmo “teoria”, con risultati che definiremmo “scientifici”, ma partendo da idee di fondo del tutto diverse dalle nostre. Dopo aver calcolato dove un pianeta si sarebbe spostato nel cielo, gli scribi creavano previsioni sul futuro. Credevano, cioè, che l’andamento degli astri corrispondesse a quello della vita di un individuo, oppure del meteo, o dei prezzi di mercato.
Un esempio: il pianeta Venere, se osservato dalla terra, è visibile e brillante quando il sole tramonta o sorge; ma può essere anche meno luminoso, o invisibile, per alcuni giorni. Oggi diremmo che ciò dipende dalla distanza fra Venere, il sole, e la terra: Venere impiega circa 584 giorni per tornare nello stesso punto del cielo rispetto al sole, perché la sua velocità orbitale è di circa 35 km al secondo. Uno scriba direbbe che Venere sorge nel segno del Leone, nella stessa data del calendario, ogni otto anni; perciò, un evento accaduto in quella data (un forte temporale, per esempio) si sarebbe verificato identico otto anni dopo. Le previsioni astronomiche dello scriba sono corrette anche per noi: 584 giorni ripetuti cinque volte corrispondono a circa 8 anni, il tempo che ci vuole affinché Venere ritorni nello stesso punto del cielo, nella stessa data. Ma il motivo per il quale lo scriba ha creato questi dati è diverso da quello per cui li creiamo noi. L’astronomia matematica predittiva non aveva lo scopo di capire come funzionavano i fenomeni nel cielo, ma di capire quando funzionavano, e cosa significavano.
Come può esistere una scienza che non si chiede come funziona la natura? La prima risposta è che non può essere scienza: deve essere altro. Una curiosità, una proto-scienza, un accumulo di conoscenza. Cicerone, nella sua opera intitolata De divinatione, definì gli scribi della Mesopotamia “praticanti di una forma di divinazione astrale”, capaci di predire il destino di un uomo leggendo la posizione delle stelle alla sua nascita. Riteneva, quindi, che la loro arte non fosse credibile poiché irrazionale e superstiziosa. Da lì in poi la scienza è rimasta per secoli appannaggio dell’Occidente e della nostra idea di “razionalità”.
Solo nel ventunesimo secolo, l’Occidente ha cominciato a dubitare di questa visione del pensiero scientifico. Negli anni Settanta, ad esempio, i sociologi Bruno Latour e Steve Woolgar condussero uno studio antropologico sugli scienziati del Salk Institute di La Jolla, California. Analizzarono il loro comportamento, come gestivano gli esperimenti, in cosa credevano. Abbiamo scritto tanti volumi sulle tribù dell’Africa, perché non dovremmo studiare anche noi stessi? Il risultato ci coglie ancora di sorpresa: la scienza fatta dagli scienziati è molto meno “scientifica” di quello che immaginiamo. Non è composta solo di esperimenti e teoria, ma include narrazioni, intuizioni, credenze e pregiudizi. Il metodo scientifico, da solo, non risolve i problemi, perché la scienza non è al di sopra della società: ne fa parte.
Oggi sentiamo più che mai l’urgenza di riformulare il significato di tante cose – anche della scienza, perlomeno nell’ambito della storiografia. Non dovremmo intendere la scienza solo come la scoperta di un segreto che la natura ci nasconde; in termini più inclusivi, la scienza è – sostiene Francesca Rochberg – un’attività umana che produce sistemi di conoscenza, basati sul modo in cui immaginiamo e percepiamo il nostro mondo. Se la scienza dipendesse solo dalla natura, dalle domande che ci poniamo, dalle tecnologie a nostra disposizione o da ciò in cui crediamo, a quest’ora dovremmo dire che Isaac Newton è stato un povero sciocco a non essersi accorto dei quanti, o che era un ciarlatano perché era anche uno studioso di alchimia.
“Come può esistere una scienza che non si chiede come funziona la natura? La prima risposta è che non può essere scienza: deve essere altro. Una curiosità, una proto-scienza, un accumulo di conoscenza”.
Chiarito che la scienza non è universale e che i “fatti oggettivi” non esistono, che succede se guardiamo di nuovo alla Mesopotamia e a tutto quanto abbiamo etichettato come irrazionale? Scopriamo una scienza che non è Occidentale, ma è una scienza “cuneiforme”, che non si chiede come funziona? ma cosa significa? e quando accade?
Non solo: scopriamo che questa scienza è molto razionale. Nasce da un florido sottobosco in cui osservazioni, fatti, narrazioni, e inferenze logiche si intrecciano in maniera sistematica – razionale, per l’appunto. L’indagine scientifica della Mesopotamia è basata non sulla ricerca di leggi fisiche, ma linguistiche, simmetriche, analogiche.
Le tavolette d’argilla della Mesopotamia ci raccontano una storia che risuona con gran parte della filosofia della scienza di oggi: la scienza non è sempre stata (e non è) così “scientifica” come crediamo. Con questo, non voglio essere antiscientifica: al contrario, voglio sostenere che quella che chiamiamo scienza è molto più di esperimenti e teorie. È un sistema complesso, estremamente creativo, che stiamo ancora scoprendo. Ma per capire dove stiamo andando, non possiamo ignorare da dove siamo venuti. E poiché dove stiamo andando, per ora, sembra essere un razzo diretto verso Marte pieno di star Hollywoodiane, cambiare prospettiva non può farci troppo male.