Una conversazione con uno dei principali teorici della crisi climatica sul fallimento della COP30, i limiti della critica al capitalismo e la necessità di una tecnologia politica della cura che guardi oltre l'umano.
“Ho studiato i tuoi libri quando ero uno studente di storia alle prime armi, quindi stare qua ad ascoltarti è davvero una delizia”.
Lo dice al microfono un giovane uomo in giacca di tweed, così alto che anche da seduto svetta tra il pubblico riunito alla Casa dei Tre Oci di Venezia, la sede europea del Berggruen Institute, un’officina di idee diretta dal filosofo Lorenzo Marsili che ha ospitato pensatori del calibro di Slavoj Žižek e Peter Sloterdijk.
Parla a titolo personale, ma scommetto che molte delle persone presenti si ritrovano in quello che ha detto, io per primo. La persona sul palco è Dipesh Chakrabarty: grazie a lui abbiamo iniziato a riflettere in modo diverso sul nostro ruolo dentro alla storia naturale della Terra.
La sua storia personale ne contiene molte: si concepisce come un individuo fatto a strati, al pari di una struttura archeologica o geologica. Nato in India alla fine degli anni Quaranta, dice di essere cresciuto in una Calcutta dove ogni persona mossa da alti princìpi morali era naturalmente portata a diventare comunista. In altri contesti geografici, gli stessi individui guidati dal medesimo fervore avrebbero potuto prendere i voti sacerdotali.
A differenza dei suoi amici però non se la sentiva di diffondere il verbo maoista nei villaggi e rischiare così l’arresto e la tortura. Con un misto di disgusto e tristezza, dopo una laurea in fisica decide di iscriversi in una scuola di amministrazione aziendale. Trova lavoro, ma un suo professore di storia economica lo risospinge verso l’università: “vuoi essere un manager o uno storico?”. Per fortuna sceglie la seconda opzione.
L’opera di Chakrabarty attraversa due fasi di grande rilevanza internazionale: la prima nel ventennio scarso che trascorre in Australia a studiare la storia di contadini e lavoratori in India e nel Sud-Est asiatico. Quel percorso accademico lo consacra come una delle voci più autorevoli e riconosciute dei subaltern studies, un ambito disciplinare nato per rivedere il canone storiografico attraverso il punto di vista degli oppressi, specialmente nel contesto coloniale. Questa traiettoria raggiunge il culmine con la pubblicazione di Provincializzare l’Europa, uno dei testi più studiati e discussi degli studi post-coloniali.
L’articolo Il clima della storia inaugura la seconda fase e rende Chakrabarty un riferimento per chiunque oggi voglia rendere le scienze umane all’altezza della crisi climatica. Pubblicato in Italia da nottetempo nella raccolta Clima, Storia e Capitale curata da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, Il clima della storia si articola in quattro tesi riassumibili così: la crisi climatica cancella la distinzione tra storia naturale e storiografia, pertanto ci costringe a fare i conti con i limiti umani, troppo umani della linea del tempo in cui siamo abituati a posizionarci sin dalla scuola dell’obbligo: mezzaluna fertile, egizi, greci, romani, Medioevo, Rinascimento, eccetera.
Con questa rottura degli argini, Chakrabarty rimette in prospettiva i suoi studi precedenti attraverso una nuova distinzione: quella tra globo e pianeta. Il primo è l’immagine su cui si regge la globalizzazione, dove il racconto della vicenda umana – esplorazioni, commerci, colonizzazioni, migrazioni, guerre, industrializzazioni – occupa il primo piano in modo tanto ingombrante da occludere lo sguardo delle scienze umane, e gli impedisce così di visualizzare il secondo: l’abisso del tempo planetario, non umano, dominio delle discipline scientifiche, senza il quale però la crisi ambientale e i suoi effetti sul mondo umano risultano incomprensibili.
La diagnosi di Chakrabarty richiede una terapia che provi a ricucire questa lacerazione, o perlomeno a non ignorarla: una sfida politica, etica e conoscitiva che ha acceso dibattiti sul passato e il futuro della condizione umana.
Lo incontro la mattina dopo la sua conversazione con lo storico François Hartog, sempre alla Casa dei Tre Oci. Comincio la nostra conversazione a partire dal finale deludente dell’ultimo grande evento della politica climatica internazionale, che si è chiuso in Brasile una manciata di giorni prima di questa intervista.
Ti sei formato nella tradizione marxista, che nel Novecento ha avuto una presa ampia e profonda sulla società attraverso partiti e sindacati. Era figlia del periodo storico globale, e ha dato vita a un’epoca di mobilitazione di massa attorno a grandi questioni come il lavoro, la giustizia, la pace.
Oggi invece assistiamo ai risultati sconfortanti della COP30 a Belém, che aveva il compito di sincronizzare le agende politiche delle nazioni di tutto il mondo con l’urgenza planetaria della crisi climatica. Avrebbe dovuto suscitare l’adesione dell’umanità intera, ma è iniziata e finita nell’indifferenza della maggior parte di essa. La politica dell’epoca planetaria è una politica della smobilitazione di massa?
Fammi cominciare dall’inizio. Il problema del clima viene posto per la prima volta nella vita pubblica – e non solo tra gli scienziati – alla fine degli anni Settanta, quando si discute la possibile esistenza di un buco nell’’ozono, confermata poi tra l’83 e l’84: è la prima volta che sappiamo che i propellenti nelle bombolette spray danneggiano l’ozono nella stratosfera. Troviamo per caso una soluzione temporanea, che vale un Nobel a Paul Crutzen e agli altri. Ecco, il dibattito sullo strato di ozono non era un dibattito sulla composizione di classe dell’umanità, non si parlava di disuguaglianza. C’era un problema e c’era una soluzione tecnica. Siamo stati fortunati, anche se la soluzione tecnica non ha risolto del tutto il problema.
Poi nell’87 James Hansen informa i politici statunitensi dell’esistenza del riscaldamento globale. Hansen era un astrofisico a capo di un centro della NASA che a quei tempi studiava Venere e si chiedeva perché fosse tanto calda. Scoprì che la causa era un effetto serra molto intenso e mise in pausa il lavoro su Venere per esaminare il nostro pianeta e controllare se stessero accadendo cose simili anche qui.
Nell’88 viene istituito l’IPCC, poi nel 1991 c’è la Conferenza di Rio, quindi trascorrono circa sette anni dal buco dell’ozono alla Conferenza di Rio, dove due delegati indiani, Anil Agarwal e Sunita Narain, fanno circolare un opuscolo chiamato Riscaldamento globale in un mondo diseguale. La loro provenienza è importante, perché in conferenze globali come quelle dell’ONU l’India aveva mantenuto una posizione terzomondista: il Terzo Mondo poteva incolpare il Primo della gran parte dei suoi problemi, spesso con buone ragioni.
Agarwal e Narain dissero che erano le emissioni occidentali la causa della crisi climatica, ed era vero. Quindi si iniziarono a calcolare le emissioni pro capite, come nel Protocollo di Kyoto, ma più ne facevamo un problema di uguaglianza e disuguaglianza umana, più perdevamo la capacità di dire che è un problema di tutti.
“Disuguaglianza” significa che le persone sono colpite in modo diverso, ma sono tutte coinvolte, giusto? Se sei una persona ricca, i tuoi investimenti potrebbero soffrirne. Quando ho iniziato a lavorare sul cambiamento climatico è stato a causa dei grandi incendi del 2003 in Australia, che era un Paese relativamente ricco ma anche molto spaventato. Ne avevo scritto perché mi sembravano dimostrare che anche un luogo che godeva di forte benessere poteva essere ferito dalla crisi climatica.
Slavoj Žižek mi aveva risposto con una battuta: “quindi anche gli incendi hanno una coscienza di classe?”, che è una gran bella battuta, ma il punto è che, se vuoi che i potenti e i ricchi affrontino il problema e aiutino i poveri, non puoi aspettarti che lo facciano se gli dici che non è affar loro e solo i poveri soffriranno. In quella fase peraltro sembrava ancora che la tecnologia potesse risolvere la crisi, e l’idea era che i paesi ricchi avrebbero sviluppato degli strumenti di adattamento e mitigazione e li avrebbero condivisi con il terzo mondo.
“La politica climatica ora è così diseguale perché il suo controllo è stato assunto dalle compagnie petrolifere e dai tecnocrati, e perché mi sembra che le COP siano diventate ancelle degli interessi capitalisti”.
Ma per chi non amava l’idea dell’Antropocene e preferiva parlare di Capitalocene, l’assunto che il capitalismo produca il riscaldamento globale attraverso la disuguaglianza è diventato così importante che siamo arrivati ad argomentare che la crisi climatica non toccherebbe i ricchi, ma solo i poveri.
Quindi per loro il riscaldamento globale illustrava una disuguaglianza, e pertanto poteva rafforzare la richiesta di uguaglianza sociale, di un sistema non capitalista. In questo processo non siamo riusciti a formulare un’argomentazione che lo rendesse un problema di tutti, mentre io penso che lo sia – anche dei ricchi, pensiamo agli incendi di Los Angeles – ma che i poveri siano più vulnerabili.
Il risultato è che le procedure dell’IPCC, dell’ONU e delle COP sono sembrate sempre meno ispirate da nobili ideali: oggi pare che nessun governo le abbia prese sul serio. Anche gli accordi di Parigi non sono stati rispettati da molti Paesi, e tutti sono andati per la propria strada. Secondo me la politica climatica ora è così diseguale perché il suo controllo è stato assunto dalle compagnie petrolifere e dai tecnocrati, e perché mi sembra che le COP siano diventate ancelle degli interessi capitalisti, cioè del tornaconto delle aziende petrolifere e dei combustibili fossili: perché se si afferma che basta catturare e sequestrare l’anidride carbonica nell’aria, allora i combustibili fossili sono parte della soluzione, non del problema.
In risposta a questo fallimento della politica tradizionale di fronte alla crisi climatica, hai suggerito di pensare all’umanità attraverso il concetto di specie biologica per conciliare due scale temporali inconciliabili: quella del tempo profondo e inumano del nostro pianeta e quella delle preoccupazioni politiche, contingenti del mondo moderno e contemporaneo.
In molti ti hanno accusato di non incolpare abbastanza il capitalismo per le nostre sciagure: dicono che hai voltato le spalle al marxismo e abbandonato il concetto di classe in favore di quello di specie, che però secondo loro non sarebbe in grado di sostituirlo.
Le critiche formulate in questi termini si basano su una lettura errata della mia opera. Ho detto che siamo arrivati a questo problema attraverso il capitalismo. In un paragrafo che è stato molto criticato, quello di Il clima della storia in cui dicevo che non ci saranno scialuppe di salvataggio per ricchi e potenti, proprio lì ho scritto anche che la crisi climatica accentuerà le disuguaglianze su cui si regge il dominio capitalista. E poi ho aggiunto che noi non facciamo esperienza della nostra appartenenza a una specie, quindi non può esserci un progetto politico orientato al futuro costruito attorno a questo concetto.
Però dobbiamo riconoscere che siamo una forma di vita minoritaria che è diventata dominante. E anche i poveri partecipano ai benefici di questo dominio perché la loro longevità è aumentata: forse non fanno delle belle vite, ma vivono più a lungo grazie alla sanità pubblica.
Anche se la disuguaglianza è aumentata, nel complesso la classe media globale si è espansa e diversi strati sociali umani hanno tratto beneficio da come la tecnologia e il mercato hanno ampliato le possibilità di vita, e la longevità è una di queste, anche se ciò non significa che non ci siano sacche dove gli esseri umani hanno vite brevi a causa delle privazioni che subiscono.
Tutto sommato però ci sono stati dei miglioramenti, per esempio nelle statistiche sulle persone che non hanno accesso all’acqua dolce: quando ho iniziato a fare ricerca erano 2 miliardi, ora sono diminuite. Allo stesso tempo le disuguaglianze persistono: nella guerra a Gaza e in Ucraina troviamo tutti i tipi di sofferenza, non c’è modo di negarlo.
Ho sollevato la questione della specie solo per dire che, come qualsiasi forma di vita animale, persino la più selvaggia, anche gli esseri umani danno il mondo per scontato. I gabbiani qui a Venezia danno l’acqua per scontata. Pensano che ci troveranno dei pesci, e se non ci sono li cercano altrove.
Anche gli esseri umani sono così. Oggi ho scritto a un mio amico che quando beviamo dell’acqua raramente ci chiediamo quanti anni ha. A volte ci dissetiamo con dell’acqua che si è formata milioni di anni fa in una falda acquifera, ma io la bevo e non me ne curo: è semplicemente nel presente.
Nella nostra condizione normale trascuriamo la storia profonda da cui veniamo. Ora dobbiamo ricordarla a causa di ciò che leggiamo, di ciò che pensiamo. Non avrei mai prestato attenzione all’età dell’acqua se non avessi lavorato sulla crisi ambientale.
Quindi da un lato direi ai miei critici che fraintendono il mio lavoro, ma vorrei aggiungere qualcosa a partire da un testo pubblicato dal Berggruen Institute, il libro di Nils Gilman e Jonathan Blake, Children of a Modest Star, dove hanno scritto una frase che trovo pregna di significato. Sto pensando di approfondirla, perché penso sia molto importante.
Quando spieghi qualcosa attraverso il capitalismo si tratta di una spiegazione globale, giusto? Ecco, Gilman e Blake dicono che non prenderemo sul serio la dimensione planetaria fino a che la capacità del quadro globale di spiegare i flussi del non-umano non si esaurirà.
Per certi versi i miei critici lavorano con il presupposto che il capitalismo sia il miglior quadro per comprendere la crisi climatica. Io penso invece che sia una buona cornice concettuale ma che non racconti tutta la storia. In secondo luogo, pensano che il capitalismo ne sia la causa finale. Io invece penso che la situazione che stiamo affrontando appartenga al campo multi-causale della complessità.
Per esempio, le navi portacontainer trasportano specie da un luogo all’altro nelle loro acque zavorra. Si potrebbe dire che è un effetto del capitalismo, ma ciò che queste creature fanno una volta che sono state rilasciate deve essere studiato dai biologi, giusto? In un caso come questo, una spiegazione del mondo che si riferisce solo alle istituzioni capitaliste è parziale, perché dobbiamo anche pensare alla storia naturale, ad altri processi non-umani e ad altre forme di processi vitali. È per questo che secondo me il quadro della critica marxista è ancora valido, ma limitato.
Lo storico Adam Tooze sintetizza quello che dici nel concetto di policrisi, che ha molti punti di contatto con quanto scrivevi in Clima e capitale: la conoscenza che abbiamo del sistema Terra e del nostro ruolo in esso è complessa, non-lineare.
Dici che, per ironia della storia, sembra che i nostri sforzi per controllare quel disordine abbiano prodotto più disordine. Mi sembra che gli studiosi indichino due vie di fronte a questa situazione: rinunciare alle nostre ambizioni di dominio sul mondo naturale, oppure intensificarle. Qual è la strada giusta?
Penso che nella maggior parte dei casi le scienze sociali non abbiano gli strumenti per affrontare ciò che gli scienziati chiamano complessità.
Si vede per esempio nel modo in cui pensiamo ai diritti. Nel 1950 eravamo circa 2 miliardi e mezzo: trovo affascinante che i teorici politici non abbiano mai pensato che potesse esserci una relazione tra quali diritti sono praticabili e il numero di esseri umani che esercita quei diritti.
L’esercizio dei diritti implica il consumo di risorse ed energia. Potremmo pensare che se dobbiamo nutrire 800 persone oggi e 80.000 domani si possa semplicemente coltivare cibo nella medesima proporzione senza che nulla cambi: questo è un esempio di che cosa vuol dire non tenere conto della complessità.
Infatti per nutrire così tante persone in più devi usare i fertilizzanti, che a loro volta influenzano altri fattori e, come dici tu, innescano altri processi non-lineari, nei quali vengono introdotte varianti sconosciute man mano che la scala cambia. E nelle scienze sociali pensiamo che il cambiamento di scala crei nuovi problemi solo nelle società umane. È per questo che secondo me la critica del capitalismo va unita con la scienza della complessità. Questo non è ancora accaduto: pensiamo ancora che il capitalismo sia una struttura che si limita a replicarsi su scale diverse.
Quindi, tornando alla tua domanda sul da farsi: ci ritiriamo, lasciamo che le cose facciano il loro corso, evitiamo di diffonderci ovunque? Bisogna chiedersi come vivere in quanto minoranza planetaria: è una questione etica che spero un giorno diventi anche una questione programmatica.
Anche uno scienziato come Edward O. Wilson proponeva di tutelare gli hotspot di biodiversità dall’espansione del cemento, restaurare tutti i parchi nazionali alle loro condizioni incontaminate e reintrodurre le specie chiave.
Non credo però che si tratti di un aut aut. Penso che dovremmo ritirarci quando è funzionale. Allo stesso tempo però siamo 8 miliardi di persone e abbiamo il dovere di pensare alla sicurezza umana. In quanto umani, dobbiamo pensare alla vita umana, a nutrire gli esseri umani, e penso che non possiamo farlo senza la tecnologia. Se ci fosse una nuova pandemia dipenderemmo dagli impianti di refrigerazione e climatizzazione per preparare, conservare e trasportare i farmaci.
Quindi la capacità umana di controllare temperature molto alte e molto basse è diventata centrale per la nostra sussistenza. Dobbiamo trovare un equilibrio tra il controllo e l’abbandono. E il problema di quello che ho appena detto è: chi è questo noi che ha la responsabilità di decidere? È una prima domanda che ci riporta alle difficoltà della governance globale, della governance planetaria, di come creare questo noi. La seconda domanda è: questo noi dovrebbe includere anche una rappresentanza non-umana? Queste sono le due questioni politiche con cui ci confrontiamo oggi.
Sono domande che se ne portano dietro un’altra: che cosa può tenere insieme un noi composto così? Pensatori come Bruno Latour e Donna Haraway, che fanno parte del tuo stesso canone contemporaneo, hanno insistito molto sulle potenzialità delle emozioni e degli affetti sprigionati da narrazioni e opere d’arte nella costruzione di questo legame tra umani e non-umani.
Tu invece, in Il clima della storia, sostieni che una connessione emotiva con la nostra appartenenza a una storia naturale più grande sia politicamente insufficiente. Le emozioni sono armi spuntate di fronte alla crisi?
Le emozioni sono senz’altro importanti nella politica, perché gli esseri umani sono esseri emotivi. Pensiamo alla pace: ne facciamo un’esperienza emotiva. Una visita a un cimitero, la sua pace e la sua quiete, tutto questo fa capo alla sfera affettiva.
Una ricerca recente sull’uso della lingua inglese negli ultimi 200 anni in Inghilterra ha scoperto che il numero di parole legate alla natura sta diminuendo. Usiamo sempre meno metafore legate al mondo naturale, mentre sono più frequenti quelle legate alle macchine o agli oggetti.
È un effetto dell’urbanizzazione: è molto difficile che chi è abituato alla vita in città e non ha nulla a che fare con la produzione del cibo o la crescita delle piante si preoccupi di questioni così lontane dalla propria esperienza. Chi vive così si aspetta di trovare del cibo quando va al supermercato.
Il problema è che non basta invitare le persone a prendersi cura del mondo: è necessario che facciano esperienza della cura. In questo senso, credo che la discussione sull’agricoltura urbana e verticale sia un bene, anche se sono tecniche che permettono soltanto coltivazioni che non richiedono spazi ampi, come erbe aromatiche e verdure. Per produrre grandi quantità di calorie occorrono appezzamenti di terreno altrettanto grandi. I campi di grano e di riso quindi rimarranno prerogativa di grandi aziende come la Kellogg’s, o di contadini e agricoltori in posti come l’India, in cui però l’urbanizzazione è in crescita.
Quindi la questione della cura è fondamentale: forse non possiamo affrontare il cambiamento climatico, ma possiamo creare progetti di educazione alla cura. Penso che intorno a essa si possano generare ottimismo e nuove forme di conoscenza delle nostre relazioni con il resto del mondo.
“Penso che nella maggior parte dei casi le scienze sociali non abbiano gli strumenti per affrontare ciò che gli scienziati chiamano complessità”.
È per questo che la cura è impossibile senza uscire dal linguaggio insulare delle scienze sociali, che non parlano il linguaggio delle piante, della terra, del suolo. Pensa a una distinzione come quella tra polvere e suolo: il suolo ha vita, la polvere no. Se introduci queste differenze, allora ti rendi conto di quanto è limitante immaginare che il capitalismo sia l’unica lente con cui osservare i flussi del non-umano.
Anche là dove non c’è il capitalismo, il flusso scorre. Un albero sembra statico, immobile, ma le sue radici sono molto mobili. A Chicago quando le radici non riescono a trovare dell’acqua per strada entrano nei miei scarichi, e mi costringono a chiamare l’idraulico! Non c’è niente nella critica al capitalismo che spieghi perché le radici si comportano così, per capire i loro movimenti e la loro comunicazione bisogna leggere la botanica o la biologia.
Per tornare a quel che dicevo prima, la tecnologia della cura può essere tale solo se includiamo di più il non-umano nelle nostre vite urbane. Vanno trovati dei modi intelligenti per farlo: soluzioni come gli orti urbani e i marciapiedi agricoli sono praticabili nei Paesi ricchi, in India i marciapiedi sono occupati da persone povere o cani randagi. Posso immaginare coltivazioni sui marciapiedi o l’agricoltura verticale in città come Sydney, Venezia, Firenze o Chicago.
Sono contesti in cui si potrebbe coltivare il senso della cura e la consapevolezza della distinzione tra tecnologie della cura e tecnologie dell’incuria. Sono queste che distruggono le cose.
La tecnologia deve essere coinvolta in questo cambiamento, perché gli ingegneri dovranno costruire nuovi tipi di pesticidi che non causano danni, capaci di disarmare i parassiti senza ucciderli perché potrebbero produrre altri servizi ecosistemici di cui noi non abbiamo bisogno, ma altri esseri non-umani sì. È per questo che dobbiamo impegnarci in progetti di cura del nostro ambiente immediato.
D’altra parte hai scritto molto sugli effetti collaterali di tecnologie distruttive come quelle militari: senza la militarizzazione di atmosfera, esplorazione spaziale e crosta terrestre avvenuta durante la Guerra Fredda non avremmo avuto le infrastrutture per sviluppare le scienze del sistema Terra, e dunque forse non saremmo mai stati consapevoli della crisi climatica.
Oggi vedi delle prospettive simili nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, di cui ogni giorno si studiano nuove applicazioni belliche? Nuove tecnologie della cura emergeranno da nuove tecnologie dell’incuria?
Penso che sia possibile, ma solo a patto che, anche nel campo dell’IA, gli ingegneri si assumano in prima persona la responsabilità della cura. Questo può avvenire solo grazie a un cambiamento della nostra educazione come soggetti urbani.
Il nostro problema è che le tecnologie non sono ben indirizzate. Torniamo ai pesticidi: pensa al modo in cui affrontiamo gli insetti parassiti, dalle biblioteche all’agricoltura. Abbiamo industrializzato dei veleni per uccidere gli insetti che non vogliamo che interferiscano con il cibo. Un uso cieco di questi strumenti è un esempio di tecnologia dell’incuria, perché non considera, per esempio, quali servizi ecologici le tarme dei libri forniscono ad altre specie.
La natura funziona come un’economia del dono. Tu sei nato grazie a qualcun altro, è per mezzo di un’altra specie che la nostra è venuta al mondo, e infine viviamo solo in relazione ad altre creature. Ma quando ci limitiamo a produrre del veleno per affrontare i nostri problemi non ci prendiamo cura della rete in cui esistiamo.
È per questo motivo che torno sull’esempio dei pesticidi, perché ci stiamo accorgendo che un pesticida puramente letale produce anche insetti che possono resistergli. Se la comprensione di questi servizi ecologici tra forme di vita potesse far parte della formazione ingegneristica o informatica, o dell’educazione di tutti, allora potremmo costruire tecnologie più attente alla dimensione della cura.
Invece, le società di mercato capitaliste ad alta tecnologia si basano su tecnologie dell’incuria perché sono antropocentriche. Avevano il solo scopo di avvantaggiare un gruppo di esseri umani, o più raramente tutti gli esseri umani.
Gli antibiotici sono un altro esempio: i batteri che gli resistono esistono perché cerchiamo semplicemente di ucciderli, e in questo modo selezioniamo quelli che non riusciamo a eliminare. Non abbiamo tenuto conto di come funziona l’evoluzione, ma ora lo facciamo: per esempio nell’ospedale della mia università c’è una nuova ala dove, prima di prendere in carico qualsiasi paziente, hanno fatto una mappatura batteriologica completa dell’intero edificio per scoprire quali batteri lo popolavano e minimizzare il rischio di fargli sviluppare una resistenza agli antibiotici.
Noi usiamo gli antibiotici come il combustibile fossile della medicina. Li adoperiamo qualsiasi cosa accada, nelle farmacie indiane si potevano comprare senza prescrizione. La gran parte del loro utilizzo è stato nell’allevamento, e ciò a volte ha cambiato anche il microbiota intestinale umano. Quindi gli antibiotici finora hanno salvato molte vite umane ma in modo poco attento alla cura, perché si sono preoccupati solo delle vite umane. Le nuove tecnologie devono assumersi il compito della cura, ma è una conversazione difficile da fare con chi le costruisce perché vige una cultura dell’hybris, della tracotanza, che deve essere abbattuta prima di poterne parlare. Faccio affidamento sulla crisi perché questa arroganza finisca.