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Emanuela Evangelista
L’Amazzonia si avvicina al punto di non ritorno

L’amazzonia Si Avvicina Al Punto Di Non Ritorno Cover Evangelista
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Tra pochi decenni, forse poco più di uno, la foresta amazzonica potrebbe morire. È una catastrofe studiata da anni, le cui conseguenze riguarderanno l'intero pianeta.

Ho il privilegio di vivere nell’Amazzonia intatta. Rigogliosa, umida, ricca di vita e di risorse, la foresta intorno al mio villaggio ci nutre, ci disseta, ci protegge e fornisce i materiali con cui costruiamo le abitazioni, gli arredamenti, le imbarcazioni e anche i giocattoli per i bambini. Ma è un paradiso a rischio estinzione e, anche se fa male solo pensarci, è necessario parlarne. Secondo numerosi studi all’Amazzonia restano pochi decenni di vita, forse poco più di uno. 

Perché esattamente? Con quali conseguenze? E, soprattutto, è davvero inevitabile?

È recente la notizia di un calo importante nella deforestazione brasiliana rilevato da MapBiomas, una coalizione di ONG, università e aziende che mappa annualmente la copertura e l’uso del suolo dell’intero territorio nazionale, oltre a monitorare mensilmente le superfici d’acqua e le cicatrici degli incendi. Secondo l’ultimo report della coalizione, nel 2024 il Brasile ha registrato una riduzione della deforestazione del 32,4% rispetto al 2023. La diminuzione in Amazzonia è stata del 17%, con circa 3.777 km quadrati di foresta rasa al suolo, segnando il dato più basso dal 2019.

“L’Amazzonia è un paradiso a rischio estinzione e, anche se fa male solo pensarci, è necessario parlarne”.

Il calo è attribuibile alle politiche di controllo dell’attuale governo, ma è ancora lontano il raggiungimento dell’obiettivo di zero deforestazione entro il 2030, annunciato dal presidente Lula da Silva all’inizio del suo mandato. Il dato riportato, anche se inferiore all’anno precedente, è comunque allarmante: in media, sono stati rasi al suolo 1.035 ettari di foresta al giorno, sette alberi ogni secondo. 

Inoltre, i dati di MapBiomas riguardano soltanto il Brasile mentre l’Amazzonia interessa 9 paesi: il Brasile ne detiene il 60% e il resto è diviso tra Perù, Bolivia, Colombia, Venezuela, Guyana, Guyana francese, Suriname e Ecuador. In Bolivia, per esempio, la deforestazione nell’ultimo anno è raddoppiata.

Con il nome Amazzonia si intende un bioma, ovvero un insieme di ecosistemi, che si trova nel nord dell’America latina e ne occupa il 40%. Le sue dimensioni sono stimate in 5,8 milioni di chilometri quadrati se si considera la sola foresta e 6,7 milioni se si misura l’intero bacino fluviale, il che equivale a una volta e mezza l’Unione Europa. 

“In media, sono stati rasi al suolo 1.035 ettari di foresta al giorno, sette alberi ogni secondo”. 

In Brasile, l’Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale (INPE) ha iniziato a raccogliere dati sulla deforestazione dell’Amazzonia negli anni ’70. Oggi il controllo avviene attraverso un sofisticato sistema a più satelliti che permette l’emissione di allerta prima e la conferma dei dati poi. 

Le immagini satellitari provengono da diverse fonti, tra cui i satelliti Landsat (NASA/USGS), Sentinel (ESA) e CBERS (un progetto congiunto Brasile-Cina). Queste immagini vengono elaborate e analizzate per identificare le aree di deforestazione e degrado. 

Il sistema si basa su due programmi distinti ma complementari: DETER e PRODES. 

DETER fornisce un’allerta precoce, utilizzando satelliti che sorvolano le aree forestali. È progettato per avvisare quotidianamente di qualsiasi cambiamento significativo nel manto boschivo, come nuovi tagli o la presenza di incendi. L’allerta è poi trasmessa alle autorità sul campo, che intervengono per contrastare le attività illegali prima che i danni siano irreversibili. Tuttavia, il numero limitato di agenti ambientali sul campo, le enormi distanze, le difficoltà logistiche e la scarsità di risorse economiche rendono il loro lavoro estremamente complesso e fanno sì che gli interventi non siano sempre possibili. DETER è comunque un’importante immagine istantanea, una serie di foto frequenti e non molto dettagliate che non hanno lo scopo di fare un bilancio preciso ma di dare l’allarme.

PRODES, d’altra parte, è il programma che conferma e quantifica la deforestazione a fine anno. Utilizzando immagini satellitari ad altissima risoluzione, PRODES fornisce il tasso di deforestazione, ovvero la misura precisa dell’area forestale che è stata distrutta in un determinato periodo. Questi dati consolidati vengono poi comunicati ai media e alla comunità internazionale, fornendo una base solida per l’analisi delle tendenze a lungo termine e per la definizione delle politiche ambientali. PRODES è dunque una fotografia annuale ad alta risoluzione, che fa il bilancio definitivo di quanta foresta è stata persa. 

“Per 65 milioni di anni, le foreste amazzoniche sono rimaste relativamente resilienti alla variabilità climatica. Ora, la regione è sempre più esposta a uno stress senza precedenti dovuto all’aumento delle temperature, siccità estreme, deforestazione e incendi, anche nelle parti centrali e remote del sistema”.

I tassi annuali di deforestazione, però, cambiano con i governi e con il valore delle commodity. Nell’ultimo ventennio sono saliti, poi scesi, poi saliti di nuovo e ora diminuiti; in certi anni in Brasile abbiamo perso anche 13.000 o 20.000 chilometri quadrati di foresta. Ma la preoccupazione sta nel dato cumulativo. Ad oggi, una stima prudente della deforestazione cumulativa per l’intero bioma amazzonico è di circa il 18% della sua estensione originale. Questo dato è in costante aumento e già equivale alla somma delle superfici di Francia, Italia e Portogallo. Numerosi modelli predittivi indicano il 20% di deforestazione cumulativa come un punto critico, raggiunto il quale la foresta si trasformerà in modo irreversibile. 

Pubblicato su «Nature» nel febbraio 2024, Critical transitions in the Amazon forest system, è uno tra i più recenti e importanti studi del settore. È stato condotto da un team di ricercatori internazionali che ha utilizzato dati satellitari e modelli ecologici per dimostrare che la resilienza della foresta ai disturbi è in diminuzione dai primi anni 2000, probabilmente come risultato dei cambiamenti climatici globali. “La possibilità che il sistema forestale amazzonico possa presto raggiungere un punto di non ritorno, inducendo un collasso su larga scala, ha sollevato una preoccupazione globale” si legge nell’articolo. “Per 65 milioni di anni, le foreste amazzoniche sono rimaste relativamente resilienti alla variabilità climatica. Ora, la regione è sempre più esposta a uno stress senza precedenti dovuto all’aumento delle temperature, siccità estreme, deforestazione e incendi, anche nelle parti centrali e remote del sistema.”

“La regione sud-orientale dell’Amazzonia è diventata una fonte di gas serra per l’atmosfera, come hanno rivelato le misurazioni aeree del flusso verticale di CO2: sono foreste che emettono più anidride carbonica di quanta ne assorbono”. 

Attualmente più dell’80% del bioma amazzonico è ancora coperto da foreste, ma alcune di queste stanno mostrando segni di preoccupante fragilità. In tutta la fascia che va dall’Oceano Atlantico fino alla Bolivia, la stagione secca si è allungata, la temperatura è salita localmente di 2-3°C e si sono registrate onde di calore fino a 5°C sopra la media climatologica giornaliera per il periodo e la località di riferimento. Le precipitazioni sono calate del 30%, rendendo la foresta più vulnerabile al fuoco con conseguente aumento del registro di incendi nella regione. Si è osservato un incremento della mortalità degli alberi del 20%, e cresce anche la sostituzione delle specie che muoiono con quelle più affini alla siccità, capaci di resistere meglio agli stress termici e idrici. La regione sud-orientale dell’Amazzonia è diventata una fonte di gas serra per l’atmosfera, come hanno rivelato le misurazioni aeree del flusso verticale di CO2: sono foreste che emettono più anidride carbonica di quanta ne assorbono. 

Le ho visitate recentemente, accompagnata dalla coltre di fumo che ha ricoperto i cieli amazzonici durante la peggior siccità mai registrata nella storia, iniziata nel 2023 e protrattasi (con una breve pausa durante la stagione delle piogge) fino a inizio 2025. A Santarem, capitale dello stato del Parà, deliziosa città storica che nasce dove il fiume Tapajos incontra il Rio delle Amazzoni, a causa dei numerosi incendi, si respirava in quei giorni l’aria peggiore del pianeta, con un livello di inquinanti fino a 40 volte superiore a quello raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nella sede dell’ente gestore delle aree protette della regione, governato dal Ministero dell’Ambiente, l’ingegnere forestale Bruno Delano mi ha fornito dati allarmanti, raccolti sul campo, sull’aumento della mortalità degli alberi madre. Così chiamati perché forniscono nutrienti, acqua e protezione al sottobosco e alle piantine giovani, questi giganti superano in altezza il profilo della foresta e spingono le radici più a fondo delle altre piante. Durante il giorno, quando il sole splende e la traspirazione è attiva, le loro radici possono assorbire acqua dagli strati del suolo più umidi, fino a raggiungere le falde acquifere. Di notte, quando la traspirazione diminuisce o cessa del tutto, il flusso dell’acqua diventa orizzontale. Le radici superficiali superano per potenziale idrico il suolo circostante e rilasciano acqua a beneficio di piantine e alberi più giovani che crescono nelle vicinanze, incapaci di raggiungere le acque profonde. 

“È da anni che la scienza presenta allarmanti evidenze di una sinergia letale tra deforestazione e surriscaldamento globale e richiama l’attenzione sulla minaccia concreta di eventi catastrofici per la foresta”.

Questi giganti generosi sono i primi a subire lo stress idrico. Il loro sistema idraulico entra in crisi, l’acqua diventa meno accessibile e tirarla su risulta così difficile che la pianta va incontro a morte per embolia. I botanici la chiamano cavitazione xilematica: è la formazione di bolle di gas all’interno dei vasi dello xilema, il tessuto vascolare della pianta, che trasporta acqua e nutrienti dalle radici alle foglie contro la forza di gravità. La bolla d’aria che si forma blocca il flusso dell’acqua, uccide foglie, rami e, spesso, porta alla morte l’intero albero.

La scomparsa degli alberi madre ha un impatto a cascata sull’intero ecosistema: non significa soltanto la perdita di un singolo individuo, ma l’interruzione di una rete vitale di supporto per l’intera comunità forestale. 

È da anni che la scienza presenta allarmanti evidenze di una sinergia letale tra deforestazione e surriscaldamento globale e richiama l’attenzione sulla minaccia concreta di eventi catastrofici per la foresta. La deforestazione incide direttamente sulla capacità dell’Amazzonia di generare le proprie piogge, creando aree più asciutte e suscettibili agli incendi. Allo stesso tempo, il cambiamento climatico rende la foresta intrinsecamente più vulnerabile alla siccità. Quando queste due forze si combinano, il rischio di mortalità di massa aumenta esponenzialmente: una foresta già indebolita dalla deforestazione ha meno capacità di resistere a una siccità estrema indotta dal clima. 

“Una volta scattato, il processo è irreversibile e colpirà il 60 o il 70% dell’Amazzonia, a seconda di quanto argineremo le emissioni, e interesserà anche parti remote e centrali del bioma”.

Secondo lo studio pubblicato su «Nature», grandi parti dell’Amazzonia subiranno eventi di mortalità di massa nei prossimi decenni. Intere sezioni della foresta perderanno gli alberi, cambiando radicalmente la struttura e la funzione dell’ecosistema e trasformando la foresta densa e umida in un paesaggio degradato e più povero di biodiversità, probabilmente dominato da arbusti o da vegetazione più resistente alla siccità. Un paesaggio simile a una savana.

Questa trasformazione si chiama transizione ecosistemica e sarebbe innescata al raggiungimento del punto critico del 20% di deforestazione. Viene chiamato anche punto di non ritorno, perché, una volta scattato, il processo è irreversibile e colpirà il 60 o il 70% dell’Amazzonia, a seconda di quanto argineremo le emissioni, e interesserà anche parti remote e centrali del bioma. Il suo raggiungimento è previsto in soli 15, forse 30 anni. 

Con quali conseguenze? Possiamo rispondere alla domanda solo in parte perché l’Amazzonia contribuisce in modi diversi a mantenere gli equilibri del pianeta, la cui alterazione può avere effetti non completamente prevedibili. Bernardo Flores, autore principale della pubblicazione di «Nature» e ricercatore presso l’Università Federale di Santa Catarina, parlando con Carbon Brief ha dichiarato: “una volta superato il punto critico perderemo il controllo su come si comporterà il sistema”. Vediamo alcune possibili conseguenze.

“Il collasso della grande foresta amazzonica quindi ridurrà la capacità del pianeta di assorbire future emissioni di CO2 e renderà molto più difficile per il mondo raggiungere obiettivi climatici come il contenimento del riscaldamento sotto i 2°C”. 

Il bacino amazzonico ospita la maggior foresta tropicale del pianeta e il fiume più lungo, che scorre per 6.992 chilometri dalle Ande fino all’Atlantico, trasportando più acqua di qualsiasi altro fiume al mondo. Il Rio delle Amazzoni, che riceve più di mille affluenti, molti dei quali con lunghezze di migliaia di chilometri, riversa ogni giorno 17 miliardi di tonnellate di acqua dolce nell’Oceano Atlantico, un quinto dello scarico mondiale. Il volume è tale che alla foce l’acqua di mare è sospinta per molti chilometri dentro l’oceano, che riesce a vincere la resistenza del fiume solo durante la luna nuova. Lo scontro tra le acque provoca onde fino a cinque metri di altezza, che abbattono alberi e spostano rive. Alterazioni in questo enorme flusso di acqua dolce potrebbero avere conseguenze sulle dinamiche oceaniche e interferire sul clima globale attraverso il complesso sistema delle correnti che distribuiscono calore sul pianeta.

Anche l’equilibrio atmosferico continentale ne sarebbe danneggiato perché fiumi ancora più maestosi scorrono in cielo, sopra la foresta. Sono conosciuti come “fiumi volanti” e spostano ogni giorno almeno 20 miliardi di tonnellate di acqua dolce. Si tratta di flussi atmosferici di vapore acqueo che trovano origine dall’evaporazione dell’Oceano Atlantico tropicale. I venti alisei li spingono verso l’interno del continente, dove si caricano di umidità sorvolando la fitta vegetazione che assorbe acqua dal suolo e la rilascia nell’atmosfera attraverso l’evapotraspirazione. Scorrendo verso ovest, i fiumi volanti raggiungono la barriera montagnosa delle Ande e qui deviano verso sud, portando umidità, piogge e terre fertili a una regione chiamata “quadrilatero fortunato”. Infatti, posta alla stessa latitudine dei grandi deserti di Atacama, di Namibia, del Kalahari e dell’Australia, questa regione non è un deserto. Al contrario, proprio grazie ai fiumi volanti, sostiene la maggior produzione agricola e idroelettrica del Brasile, ospita le grandi metropoli di São Paulo, Rio de Janeiro e Buenos Aires e produce il 70% del PIL dell’America Latina. 

Le conseguenze per l’equilibrio climatico del pianeta sono quantificabili e sarebbero catastrofiche.

“Le foreste ci proteggono da potenziali nuove pandemie, confinando al proprio interno virus e patogeni che potrebbero compiere il salto di specie e trasmettere nuove malattie dagli animali all’uomo. Numerose ricerche in Brasile hanno dimostrato una forte correlazione tra la deforestazione e l’aumento di casi di malattie infettive”.

Con un numero stimato di 400 miliardi di alberi, il suolo e la vegetazione della foresta immagazzinano da millenni più di 150 miliardi di tonnellate di carbonio, che viene rilasciato in forma di anidride carbonica ogni volta che un albero è abbattuto o bruciato. Inoltre, la compattazione del suolo causata dalla deforestazione aumenta le emissioni di ossido di azoto, anche questo un gas serra che contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale. L’emissione totale di gas climalteranti calcolata nel caso di perdita dell’Amazzonia ammonta a 300 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (l’unità di misura contempla anche gli effetti di altri gas serra). Considerando che il mondo emette ogni anno circa 53 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, perdere l’Amazzonia comporterebbe il rilascio in atmosfera di quasi sei anni di emissioni globali. 

Oltre a funzionare come depositi di carbonio, le foreste limitano il cambiamento climatico assorbendo CO2 dall’atmosfera attraverso la fotosintesi. In copertina sul numero di marzo del 2020, la rivista «Nature» titolava: Punto di saturazione – la capacità delle foreste tropicali di sequestrare CO2 è in declino. La pubblicazione multi-authorship – così definita perché realizzata da più di 100 autori, con dati provenienti dalle maggiori foreste tropicali del globo, Amazzonia e bacino del Congo – riporta che dagli anni ’90 fino ai primi anni 2000 le foreste tropicali del pianeta hanno garantito il sequestro del 50% del carbonio terrestre globale e rimosso dall’atmosfera circa il 15% delle emissioni di anidride carbonica di origine antropica. Eppure, con differenze tra le due foreste in gran parte dovute alla maggiore mortalità degli alberi registrata in Amazzonia, lo studio prevede che nel 2030 il deposito di carbonio africano si ridurrà del 14% mentre quello amazzonico raggiungerà quasi lo zero.

Il collasso della grande foresta amazzonica quindi ridurrà la capacità del pianeta di assorbire future emissioni di CO2 e renderà molto più difficile per il mondo raggiungere obiettivi climatici come il contenimento del riscaldamento sotto i 2°C. 

“Tutto questo è inevitabile? La risposta dipenderà in larga misura dalla nostra capacità di mantenere la foresta entro confini sicuri e di proteggerne la resilienza”.

Le conseguenze riguarderebbero anche gli equilibri ecologici del pianeta. La perdita di biodiversità locale potrebbe compromettere il funzionamento dell’intero bioma, rendendolo più vulnerabile a shock esterni e meno capace di fornire servizi ambientali quali la purificazione dell’acqua, il mantenimento del suolo o la prevenzione dell’erosione. I diversi ecosistemi amazzonici sono come mattoni della biosfera globale, necessari alla propagazione della vita stessa. Ogni specie vivente svolge un ruolo, moltissime sono uniche e non si trovano altrove sul pianeta. È una ricchezza preziosa e per lo più sconosciuta, la cui perdita sarebbe un incalcolabile danno economico e culturale. Il patrimonio genetico della biodiversità amazzonica ha, per esempio, un valore strategico per lo sviluppo di nuovi farmaci e nuovi fitoterapici. La medicina moderna non sarebbe stata possibile senza l’apporto di prodotti naturali quali piante, tossine animali e microrganismi. Non solo, le foreste ci proteggono da potenziali nuove pandemie, confinando al proprio interno virus e patogeni che potrebbero compiere il salto di specie e trasmettere nuove malattie dagli animali all’uomo. Numerose ricerche in Brasile hanno dimostrato una forte correlazione tra la deforestazione e l’aumento di casi di malattie infettive. Infatti, la distruzione dell’habitat forestale crea nuovi ambienti e frange che favoriscono la riproduzione delle zanzare vettori di malattie, portando a tassi più elevati di trasmissione di malaria e di arbovirus che trasmettono Chikungunya, Dengue, Febbre gialla e Zika.

Tutto questo è inevitabile? La risposta dipenderà in larga misura dalla nostra capacità di mantenere la foresta entro confini sicuri e di proteggerne la resilienza. Ciò implica l’azzeramento della deforestazione, la riduzione del degrado, la riforestazione e, contemporaneamente, il blocco delle emissioni di gas serra. Per capire se questi siano obiettivi concreti e realmente raggiungibili, dobbiamo partire dalle cause della distruzione. Ne riparleremo tra un mese, nel prossimo numero di questa rubrica. 

Emanuela Evangelista

Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, è impegnata da 25 anni nella difesa dell’Amazzonia, della sua biodiversità e dei suoi popoli. Specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, è membro SSC dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. È presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti. Vive nel cuore della foresta, in un piccolo villaggio sulle rive di un fiume, in una regione remota e abitata da popolazioni indigene e tradizionali. Il suo lavoro e i risultati delle sue ricerche hanno contribuito alla protezione di 600.000 ettari di foresta intatta, un’estensione pari a due terzi della Corsica. Per il suo impegno è stata insignita dal Presidente della Repubblica della carica di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il suo primo libro Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta (Laterza, 2023) ha vinto il premio Campiello Natura 2024.

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