In Germania la convergenza delle lotte per la Palestina e per il clima divide l'attivismo ambientalista, mentre lo stato tedesco reprime il diritto alla protesta.
La Palestina è uno dei luoghi di convergenza tra la questione ambientale e quella sociale, in primis perché è una delle sponde del Mediterraneo, e dunque si riscalda più velocemente della media terrestre. Andreas Malm, autore di Distruggere la Palestina, distruggere il Pianeta (Ponte alle Grazie, 2025) individua nel 1840 il momento in cui per la prima volta viene sguinzagliata la potenza delle navi a vapore alimentate dal più climalterante dei combustibili fossili, il carbone, e in cui viene polverizzata la città palestinese Acri da parte dell’Impero Britannico, che Malm chiama “Impero Fossile”. Quando l’Impero britannico occupò la Palestina e si mise a implementare la dichiarazione Balfour, il combustibile fossile del tempo non era più il carbone, ma il petrolio. Un obiettivo dirimente del Mandato britannico divenne l’oleodotto che trasportava il greggio dall’Iraq attraverso la Cisgiordania settentrionale fino alla raffineria di Haifa. “Non si può capire il Mandato se non in rapporto alla ricerca sempre più capillare del petrolio nella regione; e il Mandato utilizzò il petrolio per riassegnare la terra dai palestinesi agli ebrei”, scrive Malm.
Il supporto delle potenze occidentali alla Nakba – la cacciata nel 1948 di quasi un milione di palestinesi di cui la settimana scorsa ricorreva il 77º anniversario – ha a che fare con gli interessi estrattivi e, in particolare, con il fossile. Gli eserciti, prima del Regno Unito e poi degli Stati Uniti, hanno scoperto che carbone e petrolio erano indispensabili per fabbricare armi, trasportare soldati sul campo di battaglia, e – a guerra in corso – fornire mobilità e potenza di fuoco. Tra il 5 e il 20 per cento delle emissioni annue di CO2, come ricorda spesso Amitav Ghosh, sono attribuibili agli eserciti, quello statunitense in testa. Nel 1986, il futuro presidente degli Stati Uniti Joe Biden disse al Congresso:
“Per Israele non c’è da chiedere scusa. Per niente affatto! Israele è il nostro miglior investimento da tre miliardi di dollari. Se non ci fosse Israele, per proteggere i nostri interessi nella regione, gli Stati Uniti dovrebbero inventarlo.”
Negli ultimi anni, il capitale israeliano è divenuto un protagonista dell’incremento estrattivo del fossile, dal Mediterraneo al Mare del Nord: Ithaca Energy, con sede a Tel Aviv, possiede il giacimento Cambo e un quinto del Rosebank – due bombe climatiche. Quando nel 2022 Ithaca è stata quotata alla Borsa di Londra, è stato il l’ingresso più grosso dell’anno.
L’economia politica degli Accordi di Abramo altro non è che la normalizzazione dei rapporti e l’unificazione dei capitali tra Israele e i Paesi arabi produttori di gas e petrolio per far soldi grazie all’industria fossile. “I palestinesi, d’altra parte, non hanno alcun interesse nel processo: niente piattaforme, niente impianti di trivellazione, niente oleodotti, niente società quotate in Borsa a Londra”, scrive Malm. il giorno dopo l’astensione dell’Italia a una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiedeva una tregua a Gaza, Eni – partecipata dello Stato italiano – ha ricevuto da Israele la concessione di sfruttare un giacimento di gas in acque teoricamente palestinesi.
Un momento di articolazione odierno tra la lotta climatica e quella per la Palestina è l’inedita repressione che i movimenti che le portano avanti stanno subendo.
Quando la portata dei crimini commessi da Israele è divenuta chiara alla fine del 2023, i movimenti ambientalisti di tutta Europa e di tutto il mondo hanno incluso convintamente nella propria lotta i simboli – a partire dalla kefiah, indossata presto da Greta Thunberg – e le istanze della causa palestinese. “L’occupazione della Palestina è il risultato di un processo coloniale finanziato dai governi occidentali come Stati Uniti, UE, UK, Giappone, che provano a mantenere la propria influenza su Israele per i propri interessi geopolitici della regione”, scrisse a fine ottobre 2023 Fridays For Future MAPA (acronimo usato per riferirsi alle persone e alle aree del Sud Globale più colpite dalla crisi climatica), che già allora chiedeva l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia, il boicottaggio delle istituzioni israeliane, un cessate il fuoco e la “fine dell’occupazione, dell’apartheid, del genocidio”.
Alla Conferenza sul clima di Dubai (COP28) del novembre 2023 l’anguria si è affermata nella comunità internazionale come sinonimo – grazie ai suoi colori – della bandiera palestinese, penalizzata dai social e addirittura bandita dalla presidenza degli Emirati Arabi Uniti, oltre che come simbolo dell’unione di giustizia ambientale e sociale – verde all’esterno, rossa all’interno.
Il sostegno dei più strutturati movimenti per il clima alle spontanee manifestazioni per la Palestina è avvenuto praticamente in tutti i Paesi europei. In tutti, tranne che in Germania.
Nello Stato più popoloso e forte dell’Unione, dal 2019 i recenti movimenti per il clima – Fridays For Future su tutti – hanno esplorato temi non strettamente legati alla questione ambientale, co-organizzando le colossali manifestazioni per la democrazia e contro il partito neonazista Alternative für Deutschland, e hanno partecipato a momenti di più ampia convergenza, come quello nel 2023 contro la distruzione della cittadina di Lützerath per espandere la più grande miniera di carbone in Europa. Fridays For Future Germania, però, è sempre stata restia a esprimersi sulla questione palestinese.
Ci si aspetterebbe che non ci siano persone più in grado degli attivisti di avere uno sguardo capace di superare l’orizzonte e i confini nazionali, ma essi sono, siamo, come tutti, profondamente influenzati dai rispettivi dibattiti nazionali. I cittadini europei hanno preoccupazioni comuni ma differenziate da Stato a Stato, e si dividono principalmente su crisi almeno apparentemente esterne ai confini dell’Unione, due su tutte: Ucraina e Palestina.
Sono anche le uniche due questioni su cui divergono le autrici e gli autori del libro collettivo Per molti anni da domani. Ventisette attivisti europei scrivono di clima, pace, diritti (Bollati Boringhieri, 2024).
Se Fridays For Future Germania non ha avuto problemi a condannare l’invasione e l’occupazione russa dell’Ucraina, lo stesso non si può dire per quella israeliana in Palestina.
Questa scelta ha portato a una spaccatura profonda tra Fridays For Future Germania, il gruppo più partecipato del movimento, e tutti gli altri gruppi nazionali, soprattutto quelli del Sud Globale, che da FFF Germania avevano a lungo ricevuto sostegno.
È forte l’idea che la sicurezza di Israele sia ragion di Stato in Germania, e il motivo è da ricercarsi nella storia della Germania e nella Staatsräson tedesca.
Nel 2015, la Germania ha venduto quattro navi da guerra a Israele in modo da poter difendere al meglio le sue piattaforme gasiere. Nel 2022, vista la crisi del mercato del gas provocata dalla dipendenza europea dalla Russia e dall’invasione dell’Ucraina, Israele ha iniziato a rifornire la Germania e altri Paesi dell’UE di gas e greggio dai giacimenti di Leviathan e Karish, attivati nell’ottobre di quell’anno.
Ci si può fare un’idea dell’aria che tira in Germania dal numero del 18 novembre 2023 dello Spiegel, settimanale di riferimento del centro-sinistra in Germania. In prima pagina, la scritta “errore di un idolo” accompagnava il volto di Thunberg. Il lunghissimo articolo di apertura, scritto a dodici mani, aveva come titolo Greta Thunberg ha tradito il movimento per il clima? e come sottotitolo “Thunberg è antisemita o semplicemente naïve?”
La notizia da cui parte l’articolo è la prima presa di posizione pubblica di Thunberg sul tema, durante una manifestazione ad Amsterdam davanti a circa 85.000 persone. In quell’occasione, un signore, Erjan Dam, aveva provato a strapparle il microfono. “Quando Greta Thunberg o altri attivisti di spicco parlano della questione palestinese, creano disunità” ha detto poi allo Spiegel. L’ambasciata israeliana a Berlino scrisse su X: “Triste come Greta Thunberg abbia usato di nuovo il palcoscenico climatico per i propri scopi”. “Nessun palcoscenico per gli antisemiti!” Accuse simili sono arrivate da Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania e da Ricarda Lang, allora co-leader dei Verdi.
Il sostegno pressoché incondizionato allo Stato di Israele e le accuse di antisemitismo verso chiunque lo metta in discussione riguarda in Germania anche la sinistra.
La sinistra tedesca è lacerata dalla spaccatura tra i cosiddetti “antiDeutsche”, che hanno interiorizzato il sentimento di colpa dell’Olocausto e lo hanno convertito in un appoggio incondizionato a Israele, e gli “antiImperialistiche”, che criticano il governo israeliano ma che vengono dipinti come gruppi estremisti della sinistra extraparlamentare. Nemmeno Die Linke, che alle ultime elezioni federali ha raccolto l’8% dei consensi generali e il 27% tra i giovani (nella fascia under 25 il 15% tra gli uomini e il 34% tra le donne), si azzarda a utilizzare espressioni di forte condanna.
Luisa Neubauer, portavoce di Fridays For Future Germania e figura centrale nel dibattito politico del Paese, che di Greta era amica, disse che “la perdita di fiducia è immensa” e affermò che il gruppo nutre “solidarietà illimitata” con il popolo ebraico.
In Germania Israele e le sue istituzioni sono viste, in modo sineddotico, come completamente aderenti al popolo ebraico, di cui meno della metà vive in Israele. Il contrasto all’antisemitismo, doveroso e legittimo, è invece utilizzato per mettere a tacere chi si oppone ai crimini del governo Netanyahu.
“Qui ci occupiamo di clima, non possiamo occuparci di tutto, soprattutto di un tema divisivo”, mi dice Max alla fine di una partecipata assemblea di Fridays For Future a Berlino. “Anche movimenti che sembrano più radicali di FFF non prendono posizione quando si tratta della Palestina”, afferma un’attivista che invece si è allontanata dal movimento per la sua incapacità di prendere posizione sul tema. Me lo conferma Ludovica Gatti, studentessa di fisica del clima, che mi accoglie nell’istituto di Potsdam che si occupa di ricerca polare. Ludovica è un’attivista di Extinction Rebellion e porta spesso una kefiah al collo. Se XR in Italia, pur tenendo come stella polare la crisi climatica, quasi da subito si è speso per i diritti in senso ampio – delle donne, delle persone migranti, della comunità LGBTQUIA+, dei popoli oppressi – per il ramo tedesco la questione palestinese è un tabù. “Individualmente possiamo partecipare alle proteste pro Palestina, ma è controproducente che Fridays For Future vi aderisca ufficialmente”, sostiene Helena. “Una piattaforma ampia ci ha permesso di continuare a coinvolgere persone da segmenti sociali diversi e bacini distanti”, ragiona Louis, uno dei più navigati del movimento, che con il suo post a sostegno alla Freedom Flotilla bombardata è uno dei pochi degli attivisti di FFF Germania ad aver sostenuto pubblicamente l’operato di Greta in tempi recenti. “La polizia adotta due pesi e due misure al movimento per il clima e ai pro Palestina”, dice Mika.
I media – in particolare in Germania, dove Bild, die Welt, Fakt ma anche Politico fanno parte del gigante editoriale Axel Springer, che sostiene gli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania – hanno avuto un ruolo importante nella criminalizzazione dei gruppi Pro Palestina e all’oscuramento del movimento climatico che li ha sostenuti.
“Negli ultimi mesi Greta sembra sparita dalla vita politica, prima era ovunque – sui social, sui giornali, sui telegiornali – mentre oggi è assente”, dice la ricercatrice Chiara Comerci a «Internazionale». Quando le viene chiesto il perché, Comerci risponde: “Negli ultimi anni Thunberg ha ampliato il suo discorso e il suo attivismo si è fatto più politico, più intersezionale: ha cominciato a parlare apertamente del legame tra crisi climatica, capitalismo, colonialismo, oppressione globale. Ha partecipato a proteste per il popolo palestinese, è stata alla GKN di Campi Bisenzio per sostenere i lavoratori in lotta. Ha parlato del legame tra giustizia climatica e giustizia sociale. Se prima era vista come la ragazzina innocente con il cappotto giallo e il cartello in mano, oggi è una giovane donna che indossa la kefiah, simbolo di resistenza palestinese. […] Mi hanno fatto molto pensare i titoli di giornali quali Greta si radicalizza o Greta glorifica il terrorismo palestinese. La stessa stampa che prima la idolatrava ora sembra volerne prendere le distanze.” Le voci alternative sui media mainstream sono rare, come quella di Sophie von der Tann di Ard, che ha detto che “quando il (nuovo) governo Merz invita Netanyahu in Germania, disattende la sua storica responsabilità”.
Nel già citato articolo sullo «Spiegel», gli autori scrivevano: “Molti giovani attivisti per il clima, soprattutto in altri Paesi, si stanno ispirando alle tradizioni critiche della sinistra verso Israele. Sostengono che Israele uccida indiscriminatamente o stia addirittura commettendo un genocidio, e che l’attacco di Hamas fornisca ora al Paese un pretesto per accrescere ulteriormente la violenza contro i palestinesi. Questo messaggio si legge sui manifesti e nei post sui social network durante le proteste.” Due anni dopo, viene da dire che gli attivisti avevano ragione.
Il diritto per la protesta esiste in Germania, ma non se si tratta della Palestina.
La repressione del dissenso politico in Germania, in particolare con chi esprime solidarietà alla Palestina o critica Israele per le sue gravi violazioni dei diritti umani, negli ultimi anni ha visto una significativa escalation.
Prima, alla Fiera di Francoforte – la più importante manifestazione dell’editoria in Europa – è stata annullata la cerimonia di premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli per il suo libro Un dettaglio minore (La nave di Teseo, 2021).
Successivamente Nancy Fraser, docente di New York ed ebrea statunitense, è stata esclusa da una prestigiosa cattedra all’Università di Colonia per aver firmato una lettera in cui auspicava il boicottaggio delle istituzioni israeliane. All’inizio di quest’anno, dopo un intervento del sindaco di Berlino e dell’ambasciatore israeliano, l’Università Libera – nonostante il suo nome – ha cancellato l’evento che avrebbe dovuto ospitare Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, anch’essa tacciata di antisemitismo. Lo spazio Kühlhaus, che era stato individuato come alternativa, ha ritirato a sua volta la disponibilità. L’evento si è poi svolto in un’agghiacciante clima di censura, con diversi poliziotti in sala, nella sede del quotidiano Junge Welt, che si è fatto avanti in extremis.
Nonostante dai media nostrani non sia quasi mai interpellata, Francesca Albanese è divenuta un simbolo per coloro che hanno a cuore i diritti del popolo palestinese – dal Nord al Sud Globale. “In Germania c’è una normalizzazione della violenza e della repressione che negli ultimi tre anni non ho visto da nessun’altra parte. Ho viaggiato in paesi che hanno un regime repressivo, ma non ero mai stata silenziata o vagamente minacciata di essere arrestata. Questo è il cuore dell’Europa, e fa piuttosto paura”, ha detto Albanese.
Notizia fresca è che le autorità tedesche si stanno muovendo per deportare quattro attivisti che hanno partecipato a manifestazioni per la Palestina, nonostante non siano condannati per alcun crimine.
Cooper Longbottom, Kasia Wlaszczyk, Shane O’Brien e Roberta Murray sono cittadini, rispettivamente, degli Stati Uniti, della Polonia e dell’Irlanda (gli ultimi due). Ognuno dei quattro manifestanti affronta accuse separate, tutte provenienti dalla polizia e legate a eventi a Berlino. Le proteste in questione includono un sit-in di massa alla stazione centrale, un blocco stradale, l’ostruzione di un arresto e l’occupazione alla fine del 2024 di un edificio presso l’Università Libera di Berlino, che è l’unico evento che lega i quattro casi. Alcune sono accuse penali ma quasi nessuna di esse è stata portata davanti a un tribunale penale. Nessuno dei manifestanti è pregiudicato e nessuno è accusato di vandalismo o violenza.
Gli ordini di espulsione citano invece il sostegno a Hamas, senza prove, e la pronuncia di slogan pro Palestina che sono illegali in Germania come “From the river to the sea, Palestine will be free”. Due di loro sono accusati di aver chiamato un agente di polizia “fascista” – il che sarebbe un crimine.
Sotto accusa, a ben vedere, sembra che ci sia la protesta stessa.
Secondo la legge tedesca sull’immigrazione, le autorità non hanno bisogno di una condanna penale per emettere un ordine di espulsione, ha spiegato Thomas Oberhäuser, avvocato e presidente del Comitato esecutivo per la legge sull’immigrazione presso l’Ordine degli avvocati tedeschi. Le ragioni citate, tuttavia, devono essere proporzionali alla gravità della deportazione. “La domanda chiave è: quanto è grave la minaccia e quanto è proporzionata la risposta?”, ha detto Oberhäuser, che non è coinvolto nel caso. “Se qualcuno viene espulso semplicemente per le sue convinzioni politiche, è un enorme eccesso”.
Criticare Israele in teoria non è reato, ma in Germania può costarti la cittadinanza. A chi è giudicato antisemita, essa è revocata se si è cittadini da meno di dieci anni. Come riferimento, la legge utilizza la controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, che è vaga e onnicomprensiva.
Le mail interne ottenute da The Intercept mostrano la pressione politica dietro le quinte per emettere gli ordini di espulsione, nonostante le obiezioni dei funzionari dell’immigrazione di Berlino. Dopo che il dipartimento degli Interni del Senato ha chiesto un ordine di espulsione firmato, Silke Buhlmann, responsabile della prevenzione del crimine e del rimpatrio presso l’agenzia per l’immigrazione, ha sollevato obiezioni, condivise dal massimo funzionario dell’agenzia di immigrazione Engelhard Mazanke. Buhlmann ha esplicitamente avvertito che la base legale per revocare la libertà di movimento dei tre cittadini dell’UE era insufficiente e che deportarli sarebbe stato illegale. L’obiezione interna è stata però respinta dal dipartimento del Senato di Berlino, nella persona di Christian Oestmann, che ha ordinato di procedere comunque con gli ordini di espulsione. “Per questi individui, la continua libertà di movimento non può essere giustificata per motivi di ordine pubblico e sicurezza, indipendentemente da eventuali condanne penali”.
Il conflitto interno è sorto perché tre degli attivisti presi di mira sono cittadini europei, che normalmente godono della libertà di movimento tra i Paesi dell’Unione.
“Se pensate che le politiche migratorie di Trump siano estreme, guardate all’UE”, aveva titolato Politico. Si potrebbe dire lo stesso sulla repressione del dissenso e sull’espulsione degli attivisti. Solo che Trump la mette in atto a gran voce, mentre i Paesi europei – su tutti Germania e Regno Unito, a cui dedicheremo il prossimo articolo della rubrica – lo fanno in punta di piedi.
“Da un punto di vista legale, siamo stati allarmati dal ragionamento, che ci ha ricordato il caso di Mahmoud Khalil”, ha detto Alexander Gorski, un avvocato dell’European Legal Support Center (ELSC) che rappresenta due dei manifestanti.
L’ELSC fornisce assistenza legale gratuita per “proteggere i difensori dei diritti dei palestinesi”. I quattro attivisti sono stati intimati a lasciare il Paese entro il 21 aprile, ma i loro avvocati hanno presentato una mozione urgente per una sospensione provvisoria insieme a un appello formale che contesta la legalità degli ordini di espulsione. Gorski ha lavorato su casi simili in cui la legge sull’immigrazione è stata utilizzata per prendere di mira gli attivisti filo-palestinesi, ma ciò che distingue i quattro casi, ha detto, è l’apertura con cui viene utilizzata la cosiddetta Staatsräson tedesca per giustificare le espulsioni.
“Le fedine penali di queste persone sono pulite”, ha sottolineato l’avvocato. Eppure il governo di Berlino sembra costruire una narrazione di “pericolo imminente” per eludere il giusto processo. Gorski ha avvertito che i casi sono un test per una più ampia repressione contro immigrati e attivisti in Germania, non solo di quattro manifestanti. Dall’ottobre 2023, l’Ufficio federale tedesco per la migrazione e i rifugiati ha congelato illegalmente il trattamento di tutti i richiedenti asilo di Gaza.
“La difficile situazione del popolo palestinese dovrebbe essere una ragione sufficiente per essere solidali con loro. Respingo l’idea che la solidarietà si basi sulla paura che qualcosa di simile ci accada un giorno”, ha scritto sul «Guardian» Kasia Wlaszczyk, uno dei quattro attivisti. Lo incontro a Berlino fuori dal tribunale, dove è in corso un presidio in solidarietà di altri attivisti sotto accusa. Siamo circondati dalla polizia, e Wlaszczyk preferisce non scambiare più di qualche battuta. Arrivano aggiornamenti dall’udienza: il giudice non sapeva cosa fosse l’antisionismo, ha chiesto alla persona che teneva il minutaggio di cercarlo su google, e ha detto su due piedi che non gli sembra ascrivibile ad azioni antisemite. Bene ma non benissimo.
Il giorno successivo, l’8 maggio, nel giorno della liberazione dal nazismo, da un lato di Bebelplatz ci sono diverse bandiere israeliane, dall’altro si vede qualche persona con indosso una kefiah, tra cui un gruppo di italiani. “Quasi mi manca il nostro governo con la repressione che c’è qui”, dice Sara. “Alla manifestazione a Milano (dove ci sono comunque stati scontri, ndr) c’era un’aria più rilassata, mentre a Berlino può succedere di tutto”. “Anche la situazione in Italia è molto preoccupante”, ricorda Maria. “Le generazioni più anziane della sinistra si trovano in difficoltà a prendere posizione, mentre i più giovani sanno da che parte stare”, conclude.
Il 14 maggio, l’ELSC ha lanciato un Indice della Repressione della solidarietà palestinese in Germania. Dal 2019, sono stati documentati 766 casi di repressione violenta – che hanno coinvolto migliaia di persone – e otto meccanismi di silenziamento, che evidenziano che “la repressione della solidarietà non è isolata e accidentale, ma strutturale e sistemica”. Il 17 maggio, al corteo a Berlino per l’anniversario della Nakba è stato vietato di muoversi e oltre 150 persone sono state arrestate. Alcune di loro successivamente sono state ospedalizzate.
La repressione della solidarietà pro Palestina in Germania non ha precedenti nell’Unione Europea. Gli ordini di espulsione dal Paese di quattro attivisti che non sono condannati di alcun crimine minano lo stato di diritto.
I movimenti per il clima non possono rimanere neutrali. Fridays For Future, che gode di una rispettabilità trasversale, dovrebbe trovare il coraggio di sostenerli.
La giustizia climatica è per sua natura intersezionale: non può essere scissa dalla lotta per i diritti dei lavoratori, delle persone migranti, delle donne, della comunità LBTQUIA+, dei popoli del Sud Globale, contro ogni guerra e genocidio.
L’ultimo libro di Luisa Neubauer è intitolato Was wenn wir mutig sind?, ovvero “Cosa accadrebbe se fossimo più coraggiosi?”. La domanda è valida, ma l’accusa che le viene rivolta è proprio di non esserlo abbastanza. Nel libro dedica ampio spazio al tema della speranza. Neubauer scrive che la speranza deve essere attiva e “sconveniente”, ma questo presuppone occuparsi anche delle cause più scomode, una su tutte – in Germania – quella palestinese. Si può decidere di evitarla per risparmiare divisioni iniziali, ma non si può parlare di giustizia climatica senza affrontarla.
“Sono venuto qui per una dimostrazione del clima, non per una visione politica”, aveva detto il signore che aveva provato a strappare il microfono a Greta Thunberg nei Paesi Bassi, dove il 18 maggio 2025 – un anno e mezzo dopo – 200.000 persone sono scese in piazza per la Palestina. Al movimento per il clima non serve meno politica, ma più politica. E la capacità di esprimerla in una visione chiara, desiderabile, inclusiva, intersezionale, internazionale.