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Danilo Zagaria
Lasciamo che i fiumi allaghino le pianure

Lasciamo Che I Fiumi Allaghino Le Pianure Cover Zagaria
clima politica Scienza

Le alluvioni ci sono sempre state e hanno plasmato il nostro modo di vedere il mondo. Oggi però sono più violente e frequenti. Tentare di bloccarle non aiuta: argini dei fiumi rinaturalizzati, invece, possono farle esaurire più in fretta, con persone preparate ad affrontarle.

Il mito biblico del diluvio lo conosciamo tutti. Dio è arrabbiato con l’umanità corrotta e malvagia al punto che decide di punirla inondando la Terra. Soltanto un uomo retto, Noè, viene avvertito e investito del compito di salvare dalla furia delle acque sé stesso, la sua famiglia e una coppia di rappresentanti di ogni animale costruendo in anticipo una grande arca. Dopo sette giorni, si aprono le cateratte del cielo e i flutti salgono fino a ricoprire le montagne più alte. Piove per quaranta giorni e quaranta notti e il mondo resta sott’acqua per centocinquanta giorni.

Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra asciutta morì. Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arc

Siamo soliti chiamare questo diluvio “universale” proprio per via dei suoi catastrofici effetti raccontati nella Bibbia, paragonabili a una vera e propria estinzione di massa, un cataclisma di proporzioni immense. Eppure, se esaminiamo altre mitologie e altre storiografie è facile imbattersi in vicende straordinariamente simili. Gli esempi mesopotamici sono numerosi: a un colossale diluvio scampano sia il re sumero Ziusudra sia l’accadico Atrahasis, mentre nell’Epopea di Gilgamesh è il narratore stesso Utnapishtim a raccontare la sua disavventura fra le acque in tempesta. Altre leggende sono tramandate in India e Cina, e persino nelle civiltà precolombiane. La “trama” è la solita: il diluvio è una punizione divina e pochi si salvano, quasi sempre grazie alla costruzione di una grande imbarcazione capace di resistere alla furia degli elementi.

Stefano Fenoglio, naturalista esperto di ecologia fluviale e docente all’Università di Torino, ha raccolto molte di queste nel suo nuovo libro pubblicato da Rizzoli: Ed ecco, io vi manderò il diluvio. Come le alluvioni hanno plasmato l’umanità. Seguito del fortunato saggio divulgativo Uomini e fiumi. Storia di un’amicizia finita male (2023), il volume è sia una panoramica sulla diffusione del mito del diluvio nelle civiltà umane del passato sia un approfondimento sulle alluvioni in tempi moderni. La tesi è che ci sia un collegamento: il motivo per cui ci sono così tanti nubifragi colossali nelle varie mitologie è che l’umanità ha da sempre avuto uno strettissimo rapporto con i fiumi e, quindi, con le alluvioni, distruttive o meno.

In molti casi le piene dei fiumi costituivano in passato un evento fondamentale per le società, dall’Egitto alla Mesopotamia fino allo Yangtze in Cina. Echi di questa “dipendenza fluviale” degli esseri umani sono presenti, fa notare Fenoglio, anche nell’etimologia di alcuni nomi che usiamo ancora oggi: se la Mesopotamia è la “terra in mezzo ai fiumi” (il Tigri e l’Eufrate), il territorio noto come Punjab in India è la “terra dei cinque fiumi” (Sutlej, Beas, Ravi, Chenab e Jhelum). Anche la parola italiana Egitto deriverebbe da Agpt, il termine con cui anticamente si indicava il terreno coperto dalle acque durante un’alluvione. Tuttavia, l’aspetto che più di ogni altro sottolinea la nostra natura di “specie fluviale” è il modo in cui i fiumi hanno modellato la nostra storia, soprattutto in occasione della cosiddetta svolta neolitica, cioè il passaggio a società umane stanziali dopo l’abbandono del nomadismo. Dice Fenoglio:

I fiumi, con le loro acque, hanno permesso alla nostra specie di disancorarsi dalla naturale posizione che avevamo all’interno della rete ecologica e di adottare una pratica che avrebbe cambiato il mondo per sempre: l’agricoltura irrigua. Dei trecentomila anni della nostra storia ne abbiamo trascorsi circa 280.000-290.000 come cacciatori-raccoglitori nomadi, non tanto dissimili da un branco di scimpanzé se non per la maggiore capacità tecnologica e comunicativa. Grazie alle acque dei fiumi siamo diventati quello che siamo: scimmioni stanziali, largamente urbanizzati, con società complesse e popolose.

Il pregio di Ed ecco, io vi manderò il diluvio risiede nella continuità che riesce a dimostrare fra gli antichi miti del diluvio e gli eventi più recenti legati ai fiumi. Le alluvioni sono sempre avvenute e molte di esse hanno avuto conseguenze talmente rilevanti e drammatiche da aver attirato l’attenzione di penne illustri, da Svetonio a Plutarco, da Gregorio Magno a Beppe Fenoglio. Alcuni sono rimasti nella memoria storica dei Paesi colpiti, anche a distanza di decenni o secoli. Se in Italia ricordiamo ancora il disastro del Polesine (1951), l’incredibile alluvione di Firenze del 1966 e le vittime del 1994 in Piemonte, a livello mondiale non si possono non ricordare le catastrofi scatenate dalle piene del Fiume Giallo nel 1887 e dello Yangtze nel 1931, capaci di causare milioni di morti e conseguenze devastanti come carestie ed epidemie.

Oggi non siamo più di fronte ai diluvi biblici caratterizzati da mesi di pioggia ma a situazioni localizzate in cui in poche ore può cadere una quantità di pioggia che corrisponde o addirittura supera quella che nella stessa area solitamente cade in un anno.

Negli ultimi anni in Europa se ne sono verificate numerose: la serie di eventi alluvionali che ha colpito l’Emilia Romagna nel maggio del 2023 è un perfetto esempio di come oggi aree particolarmente esposte a questo tipo di calamità possano aggravare gli effetti di precipitazioni particolarmente intense e concentrate. Anche quanto avvenuto nel sud-est della Spagna nell’ottobre del 2024, in particolare a Valencia e nelle zone limitrofe, ha dimostrato che oggi non siamo più di fronte ai diluvi biblici caratterizzati da mesi di pioggia ma a situazioni localizzate in cui in poche ore può cadere una quantità di pioggia che corrisponde o addirittura supera quella che nella stessa area solitamente cade in un anno. In alcuni comuni della Comunidad Valenciana il 29 ottobre 2024 ne caddero – in una regione arida, con una media annuale di circa 450-500 millimetri di pioggia – circa 490 millimetri in un solo giorno.

Oggi sappiamo che l’aumento delle temperature medie globali determinerà un aumento della frequenza dei cosiddetti “eventi climatici estremi”, tra cui i flash flood, rapidissimi fenomeni alluvionali. Infatti, il cosiddetto “tempo di ritorno” di un evento meteorologico, vale a dire il periodo che intercorre fra il verificarsi di due eventi della stessa intensità, oggi si sta accorciando. Tuttavia, gli esperti si aspettano che le alluvioni saranno pericolose anche per via del fatto che molti territori saranno più esposti ai loro effetti a causa degli interventi umani che modificano la natura dei fiumi.

Un fiume che nel corso del tempo è stato ristretto, raddrizzato (perdendo così le sue anse naturali), regimentato e in alcuni casi addirittura tombato, cioè coperto con infrastrutture e centri abitati, è un fiume che ha perso la sua naturale tendenza a stemperare la violenza delle piene alluvionali e più soggetto a straripamenti. Anche la perdita della vegetazione che ne copre le rive (detta ripariale) e l’aumento dell’urbanizzazione e della cementificazione lungo il suo corso sono fattori determinanti. Piante, arbusti e canneti riducono la forza delle acque con la loro presenza, esattamente come fanno le foreste costiere di mangrovie quando assorbono la furia delle tempeste tropicali.

Gli ultimi dati resi disponibili dall’ISPRA a fine 2024 sono chiari: ogni anno in Italia circa 72 chilometri quadrati di terreno vengono coperti da cemento, asfalto o altre coperture artificiali, una superficie pari a più di 2 metri quadrati al secondo. Per capire quanto il nostro paese sia cementificato basta un altro dato: il 7,16% della superficie italiana non è suolo naturale. Un valore che corrisponde a circa 21587 chilometri quadrati, cioè poco meno della superficie dell’intera Toscana. 

Non è facile comprendere quale sia il peso di ciascuno di questi fattori nello scatenare una singola alluvione. I fenomeni meteorologici, il clima e in misura minore gli eventi provocati dagli stessi fiumi sono infatti piuttosto complessi e poco prevedibili, tanto che soltanto in anni recenti, grazie all’utilizzo di modelli probabilistici, stiamo iniziando a comprenderli meglio. 

In uno studio pubblicato su Science Advances lo scorso agosto, Attribution of Flood Impacts Shows Strong Benefits of Adaptation in Europe Since 1950, si è tentato di fare proprio questo: provare a capire quali siano stati i fattori che hanno influito maggiormente su una serie di eventi alluvionali. I ricercatori hanno preso in esame ben 1729 alluvioni verificatesi in 37 Paesi europei dal 1950 al 2020. Il quadro che emerge mostra che sono in gioco diverse forze. Nella maggior parte delle regioni l’entità degli impatti causati dalle alluvioni è da attribuire soprattutto agli esseri umani e alle loro attività, responsabili di aver messo a rischio sia la popolazione sia il valore economico dei territori stessi. 

L’aspetto però forse più importante che emerge dallo studio è che gli interventi volti a ridurre la vulnerabilità sono stati determinanti in molti casi, fra cui spicca una riduzione netta fra il 2011 e il 2020, quantificabile in un valore compreso fra 61 e 75%. Questo significa che in molti contesti stiamo lavorando bene, e che le alluvioni non sono catastrofiche come potrebbero essere, grazie a interventi di prevenzione, popolazioni sempre più preparate, sistemi di allerta ben rodati. Fra gli interventi più efficaci ci sono la rinaturalizzazione delle rive e la costruzione di bacini di espansione, cioè aree in cui durante una piena è possibile stoccare parte dell’acqua del fiume e ridurre così la probabilità che questa finisca per alluvionare città o altre aree più sensibili o economicamente strategiche.

La riprogettazione fluviale deve essere attuata tenendo conto degli effetti della crisi climatica, delle condizioni del fiume e del sottosuolo e soprattutto dei mutamenti rapidi e imprevisti che un fiume subisce durante una piena. Se questo non avviene, gli interventi volti a mettere in sicurezza persone e beni possono complicare ulteriormente il quadro alluvionale futuro.

Oggi gli idrologi stanno anche iniziando a studiare i fenomeni di piena per comprendere meglio come modificano il bacino di un fiume e come possono renderlo più suscettibile a successive alluvioni. In uno studio pubblicato lo scorso luglio su Nature, Extreme River Flood Exposes Latent Erosion Risk, gli scienziati hanno analizzato con modelli matematici quanto avvenuto nel luglio del 2021 durante l’alluvione causata dalla Mosa in Belgio, un evento distruttivo che ha provocato 43 vittime e miliardi di danni in tutta la regione colpita. La ricerca ha mostrato come l’alluvione è stata il risultato di una serie di fattori, alcuni dei quali sono di natura geologico-idrologica e climatica mentre altri generati da interventi artificiali precedenti atti a ridurre il rischio di alluvioni ma non opportunamente conclusi. Questo dimostra che la riprogettazione fluviale deve essere attuata tenendo conto degli effetti della crisi climatica, delle condizioni del fiume e del sottosuolo e soprattutto dei mutamenti rapidi e imprevisti che un fiume subisce durante una piena. Se questo non avviene, gli interventi volti a mettere in sicurezza persone e beni possono complicare ulteriormente il quadro alluvionale futuro.

Come sottolinea Fenoglio nelle ultime pagine del suo libro,

Le alluvioni sono una nemesi che ci perseguita sin da quando l’umanità ha abbandonato il nomadismo e si è avviata sulla strada che l’ha condotta sin qui. È facile comprendere come tutte le antiche civiltà abbiano interiorizzato questa costante preoccupazione, trasformandola in un mito universale, denso di significati religiosi e morali, anche se figlio della più fangosa realtà. Ed ecco che è prioritario, oggi come allora, cercare soluzioni per affrontare al meglio questo pericolo sempre incombente

Danilo Zagaria

Danilo Zagaria è biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale. Scrive di libri, scienza e animali su diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale è La Linea Laterale. Nel 2020 ha fondato la rivista letteral-scientifica «Axolotl». Con add editore ha pubblicato In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene, finalista dell’edizione 2023 del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, e Il groviglio verde. Abitare le foreste dal Mesozoico alla fantascienza.

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