Medica e partigiana, politica e scrittrice, fu tra le prime intellettuali italiane a comprendere che la crisi ambientale richiedeva nuovi racconti per trasformare l'immaginario collettivo.
Il 10 luglio del 1976 dall’azienda chimica svizzera Icmesa si alzò in cielo una nube di diossina. Circondò la fabbrica, avviluppò i quartieri limitrofi, poi i espanse, si fece più rarefatta ma continuò il suo viaggio. Invisibile e tossica, si posò su case e vestiti, sulla terra e sui corpi. Ustionò prima i più vicini, silenziosa e lenta affiorò sui volti dei bambini nei giorni seguenti, altrettanto felpata uccise gli animali – le galline, i conigli, i gatti – che avevano becchettato o sgranocchiato i frutti del terreno avvelenato. Se ce lo ricordiamo, e spesso non ce lo ricordiamo, lo chiamiamo il Disastro di Seveso. È uno dei più gravi incidenti industriali della storia italiana, avveniva circa un decennio dopo lo scandalo dell’agente arancio, usato in Vietnam dalle forze armate statunitensi e britanniche. Sono princìpi simili: la diossina, l’agente arancio, il DDT di cui già nel ’62 scriveva Rachel Carson. È la storia dell’umano che si avvelena con le sue stesse mani e del legame strettissimo fra salute e crisi ambientale nel suo significato più ampio. Fu uno dei primi casi di mobilitazione per ragioni ambientali in Italia, contro autorità pubbliche e aziende che tentavano di sminuire l’impatto della diossina.
A quei tempi Laura Conti è consigliera regionale del PCI in Lombardia e segretaria della Commissione Sanità ed Ecologia del Consiglio regionale. Si rende subito conto dell’importanza di quello che è successo, un’importanza simbolica oltre che concreta. Quel disastro ha bisogno di essere raccontato e capito, è complesso non tanto per quello che è successo ma per le reazioni che ha scatenato, sottili e contraddittorie. Per prima cosa pubblica un saggio, Visto da Seveso, uscito nel 1977. E subito dopo scrive un romanzo. Lo chiama Una lepre con la faccia di bambina: è un titolo da favola gotica e a modo suo lo è.
Il protagonista è Marco, un ragazzino di dodici anni della media borghesia brianzola. Marco ha un’amica che si chiama Sara, viene dai quartieri di periferia, ha tantissimi fratelli, dei genitori che hanno poco tempo e un giardino disordinato pieno di animali e di vita. Casa sua è molto vicino alla Icmesa. Così un paio di notti dopo il 10 luglio Sara raggiunge il giardino di casa di Marco, gli porta la sua gatta e gliela affida: sta male, se suo padre la trova la ammazza. In quei due giorni sono morti prima i conigli, poi i polli. Ora forse i gatti? Nessuno si è ancora reso conto della gravità della situazione. Se ne prende coscienza lentamente, in ritardo, con titubanza. I grandi vogliono proteggere i bambini ma senza spiegare cosa sta succedendo, i bambini fingono di non sapere. Marco viene mandato da una zia a Rimini per una settimana, poi tutto sembra tornato sotto controllo e invece si comincia a parlare addirittura di evacuazione. Prima solo gli abitanti della zona A, come Sara. Poi anche quelli della zona B, come Marco e i suoi genitori che credevano di essere al sicuro e invece non lo erano.
Nel libro ci sono le ipocrisie e i non detti degli adulti, il bisogno di capire dei bambini. In Italia l’aborto non è ancora legale ma i nascituri potrebbero sviluppare malattie tremende, se ne parla a bassa voce. C’è la paura della malattia, il dubbio del contagio, la diffidenza. E allo stesso tempo, a quegli stessi adulti spaventati e diffidenti viene da sminuire il pericolo, da chiedersi se poi sia tossica davvero, questa diossina. Perché loro devono lavorare, chiudere i battenti per settimane è un salasso, e quelli della zona C, i “fortunati” che non sono stati evacuati, si prenderanno tutta la clientela estera. Il padre di Marco vende divani: in quelle settimane manderà qualcuno di nascosto a recuperare i suoi tessuti nella zona “rossa”, nonostante il pericolo, per non farsi rubare tutto il lavoro sotto gli occhi.
Le poche pagine del romanzo sottendono però una questione più profonda, simbolica, difficile da riconoscere: “Gli adulti avevano troppa paura della diossina per accettare di rispondere alle domande; e avevano paura, perché l’inquinamento metteva in crisi i loro valori. Una società di tradizioni artigiane, dunque estremamente individualiste, si trova a vivere un’esperienza collettiva”, scrive l’autrice nella prefazione.
“Laura Conti ragiona prima di tutto come un medico, che ha cura dei corpi degli umani e dunque della salute della terra. E denuncia, non fa altro che denunciare, un sistema che sacrifica la salute in nome della produzione”.
Laura Conti fu prima partigiana, poi medica e politica. Narratrice, sempre. Nacque a Udine, visse prima a Trieste e Verona, poi a Milano. Fece parte del Fronte della gioventù, fu arrestata, infine si laureò ed entrò nel Partito Comunista, fino a diventare deputata dal 1987 al 1992. Qualcuno dice sia una spia russa, difficile dibattere con le dicerie. Sappiamo però che la Russia era produttivista e Laura Conti ragiona prima di tutto come un medico, che ha cura dei corpi degli umani e dunque della salute della terra. E denuncia, non fa altro che denunciare, un sistema che sacrifica la salute in nome della produzione. “Per più di un secolo”, osserva, “le formazioni politiche contrastanti, quella del capitale e quella del lavoro, hanno trovato un punto teorico di intesa fondamentale, nel giudizio che la tecnica può modificare ad libitum la fertilità dei suoli; e più estensivamente, che non ci sono limiti alla capacità della tecnologia di ricavare dall’ambiente tutto ciò che l’uomo ha il desiderio, o il bisogno, di ricavarne”. Le conseguenze di questo postulato, afferma, “ha avuto, per esempio, la conseguenza di alzare tra gli economisti e gli ecologi una barriera di incomunicabilità”. Ma il nodo centrale è proprio questa convinzione di poter “trasformare il mondo secondo i propri bisogni e desideri”, che permette un approccio che ora chiameremmo estrattivista e che – seppure con altre parole – Laura Conti descriveva già negli anni Settanta. Quella riflessione viene dall’introduzione alla seconda edizione di Che cos’è l’ecologia. Capitale lavoro e ambiente, uscito nel 1977 e poi ripubblicato nel 1981. Parla di energia, di inquinamento dell’acqua, di DDT. Lo fa spiegando, concreta e chirurgica, cosa succede quando si usa un fertilizzante: che strada fa, che effetti ha sulla salute della terra e sui corpi degli umani.
Pochi anni prima, nel ‘72, il Club di Roma aveva pubblicato Il rapporto sui limiti dello sviluppo (The Limits of growth) e nei suoi ragionamenti ci sono David Ricardo, Karl Marx e i prodromi della frattura metabolica di John Bellamy Foster. Racconta un ecologismo che nasce all’interno di un partito “del lavoro”. Oggi il politico belga Paul Magnette definisce la lotta contro la crisi climatica come nuova lotta di classe e il filosofo giapponese Kohei Saito rilegge l’ultimo Marx per trovarci una consapevolezza ecologista e anti estrattivista. È interessante scoprire che una delle prime e più importanti organizzazioni ambientaliste italiane nasce in continuità e vicinanza col Partito Comunista: Laura Conti fu infatti fra le fondatrici della Lega per l’Ambiente, nel 1980, che nacque all’interno di ARCI con il movimento antinucleare e nel 1992 cambiò nome in Legambiente.
I cambiamenti profondi che scaturivano dalla necessità di guardare in faccia i limiti dello sviluppo e le conseguenze dell’inquinamento e dell’estrattivismo andavano affrontati con la politica, l’attivismo e la scienza. Ma Laura Conti vedeva anche la necessità di prendersi cura degli aspetti simbolici e culturali. “Avevano paura, perché l’inquinamento metteva in crisi i loro valori”: la crisi ambientale era, ed è, soprattutto una questione di valori. In Una lepre con la faccia di bambina fa parte dei sogni macabri che popolano le menti di Marco e Sara in quei giorni, quando Sara comincia a vedersi crescere l’acne in faccia, ed è l’acne della diossina. Sono sogni fiabeschi e oscuri che trasformano la realtà per vederla meglio, proprio come fa la letteratura per leggere la realtà quando la realtà si prende in faccia l’inquinamento, la crisi ambientale, il riscaldamento globale. La narrativa era stato il suo primo strumento, nel ’63 aveva già pubblicato Cecilia e le streghe, su una donna malata di tumore e la sua amicizia con una dottoressa nella Milano deserta di un agosto torrido. Mentre La condizione sperimentale era invece il romanzo attraverso il quale era riuscita a raccontare gli anni della Resistenza e la detenzione nel Lager di Bolzano; anche in quel caso, per interpretare la realtà non bastavano saggi e documenti, ci voleva la rielaborazione e la libertà che solo la finzione permette. Tutti questi testi sono stati ripubblicati da Fandango negli ultimi anni. Solo Gli animali raccontano: storie di nascite è introvabile, un libro di fiabe per bambini, scritte con intento pedagogico, oltre che narrativo, come pedagogici erano i suoi interventi sull’Enciclopedia dei ragazzi di Mondadori.
Dall’interno del PCI doveva essere chiarissimo quanto parlare di ambiente volesse dire sovvertire i valori in cui si radicavano tanto i partiti di destra quanto di sinistra. L’idea di risorse infinite, di una tecnica capace di estrarre sempre di più, era trasversale, che l’obiettivo fosse di arricchire pochi o di nutrire tutti. Il lavoro da fare era difficile e profondo, c’era da sovvertire un immaginario apparentemente inscalfibile. È un lavoro di cui abbiamo ancora bisogno: raccontare per risignificare il mondo che cambia faccia, nelle catastrofi e nei valori che mutano, a volte crollano, altre si dissodano con fatica o si reinventano per sopravvivere. È l’unico modo.