"I quattro che predissero la fine del mondo" (e/o, 2025), romanzo del Rapporto sui limiti dello sviluppo, ripercorre la lunga sequenza di inciampi che ci hanno portati al disastro corrente.
La domanda che ci poniamo più spesso è: cosa abbiamo sbagliato? Perché che abbiamo sbagliato è sicuro. Abbiamo sbagliato più volte, in modi diversi, anche se non dobbiamo dimenticare, a nostra discolpa, che il nemico era potentissimo.
Il 23 settembre 2025 il presidente degli Stati Uniti si rivolgeva truce all’Assemblea Generale dell’Onu, nel corso del Climate Summit di New York: “il cambiamento climatico è il più grande imbroglio mai perpetrato al mondo. L’impronta di carbonio è una bufala inventata da persone con intenzioni malvagie, che vogliono portarci verso la distruzione totale”. Ha parlato dei sacrifici devastanti che la riduzione – a suo avviso inutile – della propria impronta di carbonio è costata all’Europa, e dei pochi ambientalisti rimasti negli Stati Uniti che vogliono “sterminare le mucche”. Ha dipinto l’immagine di un cimitero di fabbriche e posti di lavoro, con l’unico risultato di redistribuire l’attività manifatturiera e industriale “dai Paesi sviluppati, che seguono le folli regole imposte, ai Paesi inquinanti che infrangono le regole e fanno fortuna”.
E pensare che nel 2019, pur con il primo Trump ancora (o già) al potere, sembrava tutto possibile. Sembrava che il mondo intero avesse deciso di ascoltare il grido del nuovo e giovane popolo ambientalista che, a quella stessa assemblea, guardando negli occhi quello stesso Trump, chiedeva ai potenti del mondo: How dare you? Come osate non fare nulla?
Sembrava un inizio, una prima volta. Ma in realtà era già successo, più di una volta, nei decenni scorsi.
Da poco è uscito per la casa editrice e/o il romanzo I quattro che predissero la fine del mondo, del francese Abel Quentin: ispirato alla storia dei quattro scienziati che pubblicarono il Rapporto sui limiti dello sviluppo (qui chiamato Rapporto 21) nel 1972, a un anno dalla crisi petrolifera del ’73.The Limits of Growth, titolo originale, fu commissionato all’MIT dal Club di Roma – un’associazione di economisti e industriali fondata dall’ex partigiano e manager Fiat Aurelio Peccei.
I quattro giovani ricercatori che presero in carico il lavoro furono Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III. Quentin cambia i nomi e romanza le vite dei quattro scienziati ai quali è dedicata la prima parte del libro. Furono i Meadows le facce del Rapporto sconvolgente che, avvalendosi delle simulazioni dell’allora nuovissimo computer World3, aveva previsto le conseguenze catastrofiche di una crescita incontrollata dell’economia mondiale. A mettere a disagio e a far chiedere a noi lettori dove abbiano sbagliato loro e dove abbiamo sbagliato noi, di nuovo, cinquant’anni dopo, c’è la somiglianza inquietante fra ondate e risacche di interesse e di astio che quell’allarme suscitò allora e ancora nei primi anni Novanta, e poi di nuovo nel 2019.
Brevi ondate di attenzione, di entusiasmo, di possibilità, e lunghissime risacche di rancore e disinteresse, mentre la situazione si fa più grave e i costi di un’inversione di rotta più alti, in una spirale sempre più stringente.
Quando nel romanzo i quattro scienziati ottengono dal computer i risultati dello scenario peggiore, con la capacità di carico del pianeta superata intorno al 2020 e il crollo brutale nel 2050, restano gelati. Lo sconcerto lascia però subito posto all’urgenza:
Tre giorni dopo Mildred si era ripresa, aveva addirittura ritrovato il suo solito brio. Era ottimista, credeva nel genere umano, diceva con sorriso franco e coraggioso. Sarebbe bastato informare le persone, se le persone fossero state informate avrebbero agito di conseguenza. Era il suo nuovo credo: «Quando la gente saprà, ci sarà un’onda d’urto e ci sarà una reazione» diceva gettando all’indietro una ciocca di capelli con un movimento della testa. […] Per lei le cose erano semplici: le società umane non sarebbero crollate senza reagire.
Il rapporto esce, fa il rumore di una bomba, l’onda d’urto sembra esserci, i coniugi Meadows (nel libro chiamati Dundee) vengono invitati dappertutto in USA ed Europa, ascoltati dai potenti, ammirati e sostenuti dagli studenti. Ma presto arrivano le critiche, le prese di distanza, poi gli attacchi violenti, infine la damnatio memoriae.
“Alcuni di loro hanno fatto la guerra, come me. È come se… come se fosse troppo presto per recepire una brutta notizia” prova a giustificare Simeoni, alter-ego di Peccei. Nel ’73 la crisi del petrolio aveva apparentemente reso più urgente il loro messaggio, Carter aveva addirittura fatto installare dei pannelli solari sulla Casa Bianca, ma poi sappiamo com’è andata: “Avevano creduto che essere ricevuti ovunque equivalesse a essere ascoltati, ovunque […], che l’urgenza avrebbe conquistato chiunque”. Proprio come quando abbiamo visto Greta Thunberg nella General Assembly Hall nel 2019 e pochi mesi dopo venne firmato il Green Deal: ci abbiamo creduto. Ma nel 1972 come nel 2019, i due scienziati “erano stati ricevuti da quella gente solo perché non si sentiva minacciata da loro”. Allora arrivò Reagan a togliere tutti i pannelli solari dalla Casa Bianca e ora è arrivato Trump che esce da tutti i trattati per il clima e soffia sul fuoco dei combustibili fossili. A quel punto la protagonista di Quentin si sentì “svuotata, senza energie. Era stanca di sbracciarsi al vento per nulla”. Anche questa sensazione ha un’aria fin troppo familiare.
Quindici anni più tardi, nel 1988, c’era stato l’appello dello scienziato della Nasa James Hansen al Senato degli Stati Uniti e nel 1992 era arrivato il promettente Summit della Terra a Rio De Janeiro. Furono firmati gli storici accordi di Rio, ma già allora c’erano “i lobbisti di Exxon Mobil e di Chevron che si aggiravano nei tre padiglioni”, e già allora “l’urgenza di un’azione energica e concentrata non era mai stata così forte – ma la probabilità che avvenisse, più debole che mai”.
Una storia che si ripete, mentre il tempo passa e la crisi climatica stringe sempre più stretta la vita umana sulla Terra, come una coda di serpente. Questa volta, nonostante i passi avanti innegabili, sono bastate una pandemia, qualche guerra e l’inflazione per poter di nuovo dire impunemente che “il cambiamento climatico è il più grande imbroglio mai perpetrato al mondo”. Certo il Green Deal, pur depotenziato, rimane, e ormai la transizione è partita. A ben vedere, oggi in tanti hanno preso sul serio la transizione energetica, ma nessuno ha preso sul serio la crisi climatica. La Cina ha capito che chi non prende al volo quella palla perderà la partita di una transizione soprattutto economica e di poteri, e quindi ha deciso di guidarla, la partita, gestendo la transizione propria e di tutto il sud globale e lasciando indietro gli Stati Uniti di Trump e chiunque lo segua, in particolare l’Europa. Del resto pure Trump sa che quella partita andrà giocata, altrimenti non minaccerebbe di invadere la Groenlandia.
Però gli obiettivi di abbassamento reale delle emissioni sono lontanissimi dal necessario, e ancora non c’è un accordo che tenga almeno per rallentare la produzione di plastica (la più grande scappatoia dei produttori di combustibili fossili).
“A ben vedere, oggi in tanti hanno preso sul serio la transizione energetica, ma nessuno ha preso sul serio la crisi climatica”.
La transizione c’è, ma la crisi climatica resta. E dobbiamo aver fatto dei grossi errori se il mondo non è in rivolta contro questa ingiustizia immensa, perché la crisi climatica è un’ingiustizia immensa. L’errore sta forse nell’aver colpevolizzato le persone, i “consumatori”, anziché i governi, le lobby, i produttori. E nell’essersi nascosti dietro la scienza, quando bloccare la crescita è una scelta soprattutto politica.
I personaggi di Quentin raccontano diverse reazioni e risposte alla crisi. C’è chi si vende al capitale, con molto cinismo ma un angolo di cuore ancora puro; chi fa di Unabomber il proprio idolo e chi, come i Dunduee/Meadows, dopo anni di prima linea, va in esilio volontario in campagna, lontani da tutto.
Attivisti e narratori della crisi climatica si sono spesso divisi fra chi si ammantava di una retorica della rinuncia e rivendicava il ritorno a un mondo premoderno, e chi invece cadeva nel tranello della tecnocrazia. Lì abbiamo sbagliato e inciampato di continuo. Ma non è solo una questione di errori: abbiamo un nemico molto ostico da fermare, un nemico che, fin dai tempi del Rapporto sui limiti dello sviluppo o del Summit di Rio, metteva con sapienza i bastoni fra le ruote di ogni scelta coraggiosa, negava e insabbiava la realtà. Sapeva e sa che quella della crisi climatica è tutt’altro che una bufala, ma sa pure che lui si metterà in salvo. Finché sarà vivo, il Trump di turno avrà una casa climatizzata in cui rifugiarsi senza curarsi del resto della popolazione, come non si cura oggi dei 67.000 morti a Gaza. Del resto il principio è lo stesso. Ci vuole un minimo di umanità per preoccuparsi delle vittime di un genocidio più o meno lontano, e ce ne vuole quando si parla di una crisi che colpirà altre generazioni, o che si abbatte su altre classi sociali o altri luoghi del pianeta.
Ora forse abbiamo iniziato a capire che parlare di ambiente è parlare di ogni altra cosa e proporre un mondo non di rinunce né di tecnocrazia ma di maggior umanità e uguaglianza, di salute e benessere e bene comune. Non è un caso se oggi ritroviamo ambientalisti come Greta Thunberg sulla Flotilla e nelle piazze per la Palestina.