Un patrimonio artistico millenario racconta l’origine del legame sacro tra umani, animali e foresta. Perché iniziamo a decifrarne il significato solo oggi?
La roccia spicca contro il cielo, oltre il tappeto infinito della foresta. Lo strato di nuvole antracite inizia a ispessirsi, nel pomeriggio cadrà la pioggia. Prendiamo i nostri zaini e ci mettiamo in cammino.
La Serranía de la Lindosa è una dorsale rocciosa che attraversa l’Amazzonia nord-occidentale per tredici chilometri, nel dipartimento colombiano del Guaviare, dove le pianure dell’Orinoco incontrano la giungla amazzonica. Migliaia di immagini sono dipinte sulle pareti dei tepui, le rocce sporgenti che sono i frammenti monumentali dell’antichissimo Scudo della Guyana, un altopiano quasi del tutto affondato. Gli esseri umani arrivarono qui per la prima volta alla fine del Paleolitico. L’aria era più fresca e secca di oggi, e la vegetazione ricopriva la terra. Assaggiarono le piante e avvistarono gli animali: formiche pungenti, uccelli scintillanti, serpenti e lucertole, temibili felini e forse giganteschi mammiferi ora estinti. Da lontano potevano vedere queste scogliere e si avvicinarono. Lasciarono delle immagini sulla roccia arenaria.
Gli europei arrivarono in questa zona nel XVIII secolo. Le pitture della Lindosa furono scoperte a metà del XIX secolo – vent’anni prima della scoperta della grotta di Altamira in Spagna – e fotografate per la prima volta negli anni Quaranta del Novecento. Nel frattempo, il boom dell’industria della gomma aveva cambiato radicalmente la vita degli indigeni. «Si chiama gomma indiana perché cancella o elimina gli Indiani», scrisse Roger Casement.
Stiamo appena iniziando a comprendere l’antichità della presenza umana in Amazzonia e la sua ricchezza culturale. L’area fu esplorata nel 1943 dal Famoso etnobotanico Richard Evans Schultes, il primo ad analizzare la liana psicoattiva del Banipsteriopsis caapi, con cui si prepara il decotto noto come yagé o ayahuasca. Le visioni indotte dalla pianta erano collegate alle pitture rupestri nelle testimonianze dei nativi raccolte dal primo grande antropologo della regione, Geraldo Reichel-Dolmatoff.

Le pitture nel Chiribiquete sono state scoperte nel 1991. A quel tempo, l’intero dipartimento di Guaviare era difficilmente accessibile. Era un luogo di piantagioni di coca. Yuraní, la mia guida locale, mi racconta di quegli anni della sua giovinezza, quando la maggior parte delle famiglie era coinvolta nelle attività di produzione e raffinazione della coca e le Farc (le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) governavano il territorio. «Il governo continua a non interessarsi a noi», afferma. Il suo sorriso forte sorvola su storie di sofferenza. «L’accordo di pace con il governo ha permesso alla gente di venire». Era il 2016. Sono arrivati naturalisti e archeologi e sono stati creati nuovi posti di lavoro, l’olio di palma ha sostituito la coca e il turismo ha preso piede. Yuraní ha iniziato a guidare e accompagnare i visitatori, così può pagare gli studi delle sue due figlie; ed eccoci qui, di fronte alle immagini di animali e segni astratti, sul cui significato enigmatico si sono cimentati finora pochi archeologi in collaborazione con i nativi della zona.
Ma la vasta area del Chiribiquete, 200 km a sud della Lindosa, è ancora in parte inesplorata e inaccessibile. Poco dopo il mio viaggio ha avuto luogo una spedizione multidisciplinare guidata dall’antropologo Carlos Castaño-Uribe, con la partecipazione dello speleologo Francesco Sauro e di altri membri dell’associazione italiana “La Venta”. L’obiettivo era approfondire alcune scoperte fatte da Castaño-Uribe, che ha lavorato per molti anni nell’area. Tra queste, un deposito di legno bruciato e rocce con pigmenti emerso dagli scavi sotto una parete ornata, che è stato datato a diciannovemila anni fa. Questo risultato – che è stato ricontrollato in laboratorio e sta per essere pubblicato – farebbe di alcune pitture del Chiribiquete le più antiche opere d’arte della preistoria amazzonica, e anticiperebbe di migliaia di anni le stime attuali sull’arrivo degli umani in questa regione, che sono state fissate finora intorno ai dodicimila anni fa.
La spedizione ha portato anche ad altre eccezionali scoperte, recentemente annunciate a Roma nell’ambito della fiera FloraCult e in successivi incontri pubblici: è stata esplorata una enorme grotta con un fiume sotterraneo; sulle pareti alte centinaia di metri dove si trovano alcune pitture sono stati reperiti dei resti di ossa umane; ai piedi di un sito, quello che sembrerebbe un luogo rituale. Le datazioni dei reperti sono in corso. Le fotografie di questa impresa scientifica cominciano a circolare (ne pubblichiamo alcune qui). Un documentario, The mystery of the Jaguar people, è in produzione. Le figure dei giaguari costituiscono il nucleo tematico di questo repertorio culturale. Per millenni in questa zona diversi gruppi di nativi hanno costruito impalcature e si sono calati con corde o liane per dipingere figure di animali sulle pareti, dove gli ultimi esploratori le hanno individuate durante un volo in elicottero. Comprendere perché si dipingessero queste figure è un compito arduo, che richiede lo sforzo congiunto di diverse discipline.

L’analogia etnologica è una delle strade più battute per comprendere le pitture rupestri preistoriche in tutto il mondo. Poiché mancano documenti storici sul significato delle immagini, si considerano le interpretazioni delle popolazioni indigene e le si proiettano indietro nel tempo, con la scommessa che conservino una tradizione di origine preistorica. Si tratta di un’inferenza problematica, poiché non possiamo provare l’esistenza di una tradizione estesa per migliaia di anni. Ma ascoltare quelle spiegazioni è interessante e significativo di per sé, e una volta confrontate le opinioni raccolte in intere regioni iniziamo a intravedere alcuni aspetti costanti. Per esempio, nel caso dell’Amazzonia settentrionale, apprendiamo che i tepuis, le colline rocciose che spiccano sulla foresta, sono considerate “case degli animali”.
Secondo le mitologie locali, le rocce e le rapide dei fiumi sono “grandi uteri” dove avviene la gravidanza della fauna. Qui si riuniscono gli animali, con feste e danze. I dipinti rappresentano proprio questi animali, mentre linee ondulate e motivi a forma di diamante rappresentano il serpente che ha dato vita ai primi esseri umani. Qui il payé – o sciamano, come lo chiamiamo noi con un termine d’origine asiatica – incontra il “Signore degli Animali” e negozia con lui. «Si immagina che all’interno delle colline uterine, che sono come grandi case comuni, gli animali siano appesi alle travi in uno stato di sonnolenza e che lo sciamano scelga gli animali di cui ha bisogno per i cacciatori del suo gruppo».
Queste parole appartengono al racconto della cosmologia del popolo Desana di Reichel-Dolmatoff contenuto nel volume Il cosmo amazzonico (1974). L’etnologo trascorse anni a raccogliere storie delle popolazioni dell’Amazzonia nord-occidentale colombiana, con l’aiuto di un esperto del popolo Desana, Antonio Guzmán. Una caratteristica essenziale di questa cosmologia, e delle cosmologie amazzoniche in generale, è la parentela e l’interdipendenza tra gli esseri umani e gli altri animali. Gli animali sono considerati come persone, con le loro relazioni sociali e la loro peculiare visione degli esseri umani. La «simbiosi» tra esseri umani e animali è inscritta in un ordine cosmico, basato sul potere generativo del Sole. Nei miti amazzonici, gli esseri viventi non sono modellati da un creatore, ma nascono dalla terra grazie all’energia solare. Secondo Reichel-Dolmatoff, questa energia incontra la fertilità femminile e produce vita, sensazioni ed emozioni. Si forma così un «circuito» di ‘bioenergia’, in cui le energie maschili e femminili si incontrano e si equilibrano.
L’incontro tra il payé e il Signore degli animali, Waí-maxsë, serve a preservare questo ordine cosmico: la vita degli esseri umani dipende dalla vita degli altri animali, quindi il numero delle nascite e delle morti deve essere equilibrato. La caccia e la riproduzione sono collegate: poiché la prima porta alla morte tra gli animali, il cacciatore deve astenersi dal sesso, per non generare troppe vite umane. In questa prospettiva, il payé e Waí-maxsë sono due «amministratori del capitale» – così prosaicamente si esprimeva Reichel-Dolmatoff – che negoziano i guadagni e le perdite delle popolazioni. Il payé è la figura cruciale in questa cosmologia. Il Sole stesso è un payé.

Il payé è colui che «vede» i tepuis come case di animali e gli animali come persone. È un viaggiatore cosmico, un intermediario tra i mondi, che può guardare attraverso le visioni e ottenere la fertilità per la comunità. Il suo viaggio è una trasformazione, perché permette di vedere le cose come appaiono ai diversi corpi animali. Nelle lingue locali, il nome del payé è legato ai giaguari, animali capaci di nuotare, muoversi per terra e scattare nell’aria per catturare le prede, a loro volta considerati figure-chiave del mondo animale. La tradizione per cui il payé può trasformarsi in giaguaro permette di capire il senso dell’espressione “uomini-giaguaro”, ripresa da Castaño-Uribe nei suoi libri recenti per interpretare le pitture rupestri. Il payé è in grado di sperimentare la comunità originaria con gli animali narrata nei miti. I giaguari che vediamo sulle pareti potrebbero essere umani.
Ma quale esperienza sta dietro questi miti? Il divario tra mito ed esperienza è colmato da stati alterati della mente, come affermò già Reichel-Dolmatoff in un altro suo libro, Lo sciamano e il giaguaro (1975). Si tratta di stati raggiunti assumendo piante come lo yagé. Si dice che la vite utilizzata per preparare l’infuso sia stata originariamente coltivata da un dito perduto della figlia del Signore degli Animali. Gli europei hanno riferito dell’uso di questa bevanda sin dalle prime fasi della colonizzazione e alcuni hanno partecipato a questi rituali e ascoltato le idee degli indigeni sulle visioni (un’esperienza che ho fatto anche io). Antonio Guzmán affermava che il “bere-vedere” dello yagé, come lo chiamavano i Desana, permette di attraversare il muro e vedere un altro mondo, di tornare temporaneamente alla fonte di tutto, all’“utero cosmico”. Un’esperienza di morte e rinascita.
In questa prospettiva capiamo perché – come ha concluso Castaño-Uribe dopo una ricognizione di migliaia di immagini – le pitture rupestri sono tutte poco naturalistiche: non hanno lo scopo di rappresentare la realtà ordinaria, ma un pensiero simbolico, in cui esseri umani e animali sono nodi dell’ordine cosmico della vita e della società. Questa “filosofia dinamica dell’equilibrio” definisce una gerarchia di livelli: l’energia cosmica, l’energia sessuale, la fisiologia individuale e una serie di eventi e oggetti metaforicamente correlati ai livelli superiori. Quindi tutto, comprese le diverse specie animali, ha molteplici significati per chi è in grado di comprenderli. Per esempio, i boa rappresentano la gioia della danza, mentre gli anaconda neri simboleggiano il lato oscuro degli impulsi sessuali. La complessa rete simbolica si riduce ai temi principali della creazione, del circuito e delle regole esogamiche. L’arte era il mezzo migliore per esprimere questa rete, che difficilmente seguiva una logica chiara.
Castaño-Uribe sottolinea che la maggior parte delle immagini ha «carattere simbolico e sacro, orientato alla consacrazione di poteri e a trasmutazioni uomo-animale». È notevole la quasi totale assenza di scene di caccia e battaglia. Tuttavia, sappiamo ancora poco del valore che queste immagini hanno rivestito per le popolazioni che per un lunghissimo periodo hanno abitato queste terre, e non dobbiamo semplificarne le idee. Vi troviamo traccia di una contiguità tra umani e altri viventi, di una sacralità della natura che a noi manca. Ma dietro quelle immagini, che suscitano in noi attrazioni e nostalgie profonde, c’è anche una esperienza in larga parte non raccontata, in cui antichi miti e vicende storiche si intrecciano, e che l’esplorazione e la ricerca stanno riportando alla luce.
Me lo conferma l’incontro con Victor Caicedo, un anziano Desana che è stato già consultato da diversi archeologi sul significato delle pitture della Serranía La Lindosa. Victor mi guida al sito del Cerro Azul e, per spiegarmi le pitture della “casa degli animali”, mi racconta un mito. «In quei tempi antichi, le persone potevano trasformarsi in animali. Così andavano nella foresta e mangiavano frutta. Allora la foresta forniva tutto ciò di cui avevamo bisogno. La povertà non esisteva. Poi le cose cambiarono. Quando arrivarono gli europei, gli antichi persero quel potere. Ora dovevano andare a caccia. Dovevano lavorare. Erano poveri».
Nel mito della comune origine di uomini e animali, molto diffuso in tutta l’Amazzonia, si è innestata la consapevolezza dell’impatto coloniale. Le parole di Victor, che ha vissuto l’abbandono dell’industria della gomma e poi l’arrivo delle piantagioni di coca, alludono all’impatto di un modello di vita che ha privato i nativi della capacità di immaginare un legame vitale con la foresta. Riscoprire quelle immagini è prezioso non soltanto per risalire a un’antichità remota, ma anche per immaginare un altro futuro.
foto di Alessio Romeo/La Venta