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Andrea Rizzi
“L’economia deve servire i nostri bisogni, non la guerra e i profitti delle élite”

“l’economia Deve Servire I Nostri Bisogni, Non La Guerra E I Profitti Delle Élite” Rizzi Sito
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L'ossessione per la crescita del PIL genera disastri ecologici e alimenta l'industria bellica. Una conversazione sulla necessità di decrescere con l'antropologo economico Jason Hickel.

Se in tempi di guerre guerreggiate e genocidi è lecito parlare di battaglia contro il cambiamento climatico, allora l’umanità questa battaglia la sta perdendo. Di recente i climatologi ci hanno informato che i livelli di CO2 nell’atmosfera hanno toccato nuovi record, anche a causa – pare – della ridotta capacità di foreste e torbiere di immagazzinare anidride carbonica.

Tuttavia, attribuire la crisi climatica a una generica umanità è fuorviante. Si dovrebbe piuttosto ascrivere a uno specifico sistema socioeconomico (un “modo di produzione”, avrebbe detto un filosofo che per lungo tempo è stato anatema menzionare): il capitalismo. “Lo chiamiamo Antropocene, ma non sono gli esseri umani in quanto tali a causare questa crisi”, spiega Jason Hickel, docente all’Istituto di Scienze e Tecnologie Ambientali di Barcellona. Antropologo economico di origine africana, è uno degli studiosi di riferimento nel campo degli studi sullo sviluppo e uno dei divulgatori più abili a mettere a nudo le contraddizioni del neoliberismo. “Il collasso ecologico è causato dal sistema economico capitalista e, come il capitalismo, è fortemente caratterizzato da dinamiche coloniali. I paesi del Nord del mondo sono storicamente responsabili di circa il 90% delle emissioni che stanno causando il cambiamento climatico”.

Anche se alcuni studiosi fanno risalire l’inizio dell’Antropocene alla rivoluzione agricola di 10.000-12.000 anni fa, è da quando lo spirito capitalista si è saldato all’industria fossile che l’impronta ecologica umana si è espansa a tal punto da compromettere la vivibilità degli ecosistemi da cui dipendiamo. È dalla “grande accelerazione” del secondo Novecento che il capitalismo è legato a doppio filo alla crescita economica misurata mediante il PIL, un indicatore che, come dimostrano vari studi, è fortemente correlato all’impronta ecologica delle società ma, contrariamente a quanto si può pensare, solo parzialmente correlato alla qualità della vita, in particolare dopo un certo livello di reddito.

“Il PIL non misura il progresso sociale né l’innovazione, misura la produzione aggregata. In base a questo parametro, un miliardo di euro di gas lacrimogeni ha lo stesso valore di un miliardo di euro speso in assistenza sanitaria o case popolari”, puntualizza Hickel. Fin dagli anni Sessanta, del resto, scienziati e politici di alto profilo ci ripetono che il PIL – per dirla con Bobby Kennedy – “misura tutto tranne ciò per cui vale la pena di vivere”. Nel corso dei decenni sono stati elaborati altri indicatori possibili, come l’indicatore del progresso autentico (GPI) e l’indice di sviluppo sostenibile (SDI), e altre economie possibili come l’economia del benessere e l’economia della cura. Tuttavia, basta sfogliare un quotidiano per constatare come l’ossessione per il PIL spadroneggi tutt’oggi nel dibattito politico italiano e non solo.

Il capitalismo è il problema, non la soluzione

Alcuni sostengono che il problema risieda in un’attuazione inefficiente del sistema capitalista che, se portato a pieno compimento, garantirebbe un benessere generalizzato. Le teorie economiche ortodosse parlano del fenomeno del trickle-down, il “percolare” della ricchezza dai ceti più alti tramite meccanismi di mercato con presunti benefici per l’intera società. Eppure, nella fotografia delle nostre società questo fenomeno non traspare: “Cento milioni di persone tra Europa e Stati Uniti vivono in condizioni di insicurezza alimentare. Pensate: i paesi più ricchi al mondo non sono in grado di garantire una cosa basilare come la sicurezza alimentare”, afferma Hickel.

Altri ritengono il capitalismo la precondizione necessaria per una sana democrazia, ma anche questo assunto trova pochi riscontri materiali: “Il tratto distintivo del capitalismo è il suo essere antidemocratico. Vero, molti di noi ogni tanto eleggono dei candidati, ma per quanto riguarda il sistema economico e le scelte di produzione e consumo non ci è consentita nemmeno un’illusione di democrazia”. In un mondo in cui gli investimenti vengono quasi interamente indirizzati da tre colossi della finanza (Blackrock, Vanguard e State Street), in cui le catene di distribuzione sono in mano a una manciata di multinazionali e le tecnologie di comunicazione ad altrettanti oligarchi del tech, viene da chiedersi se la democrazia non sia ormai mera teoria. E anche nel lavoro di tutti i giorni, per dirla con Noam Chomsky: “Quasi tutti vivono gran parte della vita in un sistema totalitario: si chiama avere un lavoro. Al lavoro sei sotto il controllo totale del padrone: è lui a decidere cosa fai, cosa indossi e persino quando vai in bagno”.

Il capitalismo, del resto, ha come obiettivo la costante espansione dell’economia, non la soddisfazione dei bisogni primari, che si presume precipitato inevitabile della crescita. La realtà dimostra che non è così: “Il capitale investe nella produzione di beni redditizi per il capitale stesso come SUV, ville, jet privati e armamenti. C’è una produzione di massa di questi beni a fronte di una carenza cronica di beni essenziali come alloggi, trasporti pubblici ed energia rinnovabile”, spiega Hickel. Se la crescita economica andasse di pari passo con il benessere, potrebbe essere ragionevole fare compromessi in materia ecologica; ma dato che questo rapporto diretto non sussiste e la crescita non può essere disaccoppiata dall’impronta ecologica abbastanza velocemente da scongiurare un riscaldamento globale catastrofico, è giunto il momento di guardare oltre.

Decrescita progettata o catastrofica?

In risposta a queste preoccupazioni, si fanno largo le teorie che ricadono sotto l’ombrello della decrescita,  definita da Hickel (e dai molti che adottano questa definizione) una “riduzione pianificata dell’uso di energia e risorse volta a ripristinare l’equilibrio tra l’economia e gli esseri viventi al fine di ridurre le disuguaglianze e migliorare il benessere sociale”. Decrescita non significa stagnazione, recessione o austerità; al contrario, propone un’organizzazione democratica delle forze produttive volta alla soddisfazione dei bisogni di base, non per tornare indietro bensì per andare avanti senza lasciare indietro nessuno. I sostenitori della decrescita non sono “neoluddisti”, anzi: invocano massicci investimenti nella transizione ecologica anche tramite strumenti di job guarantee (una garanzia di pubblico impiego con occupazioni di pubblica utilità, ad esempio per la costruzione o l’installazione di impianti di energia rinnovabile). Di nuovo, però, questa transizione non deve essere orientata alla crescita. Crescita verde non è sinonimo di innovazione verde: quest’ultima è necessaria, la prima no, ed è accettabile solo nella misura in cui contribuisce al benessere collettivo. L’alternativa – indesiderabile ma inevitabile – alla decrescita pianificata è degrowth by disaster, una contrazione involontaria dei sistemi economici ingenerata dal collasso socio-ambientale.

Tra le obiezioni più comuni alla transizione ecologica c’è il mantra secondo cui “la transizione costa”. Questa argomentazione, anche tralasciando l’azzardo fatto sulla pelle delle generazioni future, è profondamente miope: “In primo luogo, come sosteneva Keynes, se abbiamo le forze produttive per fare qualcosa, ce lo possiamo permettere. Se abbiamo la capacità fisica di ridurre l’uso dei combustibili fossili e aumentare quello delle rinnovabili, allora possiamo farlo – e rapidamente – con semplici meccanismi di credito e di finanza pubblica”, propone Hickel. Insomma, l’umanità dispone di risorse materiali e finanziarie più che sufficienti per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per i desideri di tutti. “In secondo luogo, l’inazione ci costerà molto più cara! Allo stato attuale delle politiche climatiche ci stiamo avviando verso un riscaldamento di 3°C in questo secolo, con conseguenze particolarmente catastrofiche per paesi mediterranei vulnerabili come la Spagna e l’Italia”.

Alcuni economisti, concependo l’economia come un sistema avulso dalla società e dagli ecosistemi, sostengono l’opposto. Secondo William Nordhaus, il cambiamento climatico fino a 4°C non avrà grossi effetti sulle società perché – tra le altre cose – gran parte dell’attività economica oggi si svolge al chiuso. Per questo è stato insignito del premio Nobel per l’economia. Nordhaus è l’alfiere del cosiddetto “ecomodernismo”, corrente di pensiero secondo la quale ogni problema materiale può essere risolto grazie al progresso tecnologico, una visione criticata in profondità da Adrienne Buller, direttrice della ricerca del think tank inglese Common Wealth, in Quanto vale una balena (add editore, 2024). Altri specialisti, pur mantenendo il paraocchi dei parametri economici, assicurano invece che il cambiamento climatico potrebbe costarci oltre il 30% del PIL, o il 10% già a 3°C.

Un problema di prefissi o un problema politico?

Quella descritta sopra, con il benessere sociale come stella polare, è l’economia che istintivamente chiunque afferma di desiderare, compresi molti politici. In vari contesti sociali e scientifici, però, il termine decrescita suona tra il blasfemo e il new age. Stupirà che anche tra i teorici della decrescita molti non si fossilizzano sul termine in sé, e considerano la decrescita una fase di transizione per la post-crescita, o l’acrescita: un mondo – cioè – in cui la crescita economica non sia un obiettivo in sé, o lo sia solo nella misura in cui serve a soddisfare le esigenze più elementari. “Non è branding, è un termine analitico. Può essere utile per scienziati e movimenti sociali, ma non è stato pensato per essere usato nei comizi. Ed è utile perché genera antagonismi costruttivi che termini come ‘sostenibilità’ non generano perché possono essere cooptati dal capitalismo”, chiarisce Hickel.

Insomma, il dibattito è aperto, ma sarebbe più costruttivo se affrontato in modo scientifico e al contempo non apolitico; apolitico come invece è l’ecomodernismo, secondo il quale più investimenti in mirabilie tecnologiche ci consentiranno di superare i limiti all’espansione umana senza modificare la matrice socio-politica della società. Ma gli scienziati sociali, in particolare della branca che prende il nome di ecologia politica, sanno bene che la dimensione socio-politica non si può scindere da quella economica e ambientale. Hanno coniato l’espressione “conflitto di distribuzione ambientale” per indicare le circostanze in cui i benefici e gli svantaggi dovuti a processi di sfruttamento delle risorse sono distribuiti iniquamente (un concetto che, a poche settimane dall’anniversario della tragedia del Vajont, dovrebbe apparire immediatamente comprensibile).  

“È proprio l’imperativo della crescita capitalista a rendere i governi sempre più aggressivi e bellicosi, specialmente nei confronti del Sud del mondo. L’accumulazione di capitale nel nucleo imperiale richiede un approvvigionamento costante di manodopera e risorse a basso costo dalla periferia. Se vogliamo contrastare le tendenze belliciste, dobbiamo passare a un’economia post-capitalista e della post-crescita” è ciò che propone il professor Hickel. Il nostro paese non è estraneo a queste dinamiche: “In Italia e in tutta Europa assistiamo a un crescente malcontento nei confronti dell’establishment. I sondaggi ci dicono che la gente vuole un’economia più equa e democratica, che metta al primo posto le persone e il pianeta, non la guerra o i profitti delle élite”.

Oltre la crescita, verso la liberazione

Non tutti, almeno a livello europeo, sono ciechi alle mutate esigenze del mondo che cambia. Tramite il Consiglio europeo della ricerca (ERC), infatti, l’UE ha finanziato con 9,9 milioni di euro il progetto “Pathways towards post growth deals”, concepito da Hickel assieme ai colleghi Julia Steinberger e Giorgos Kallis, con l’obiettivo di elaborare possibili politiche per una transizione verso la post-crescita. Non solo: nel 2023, il Parlamento Europeo ha aperto le proprie porte alla “Beyond Growth Conference”, che ha visto avvicendarsi studiosi e attivisti per tre giorni consecutivi nell’emiciclo di Bruxelles. Al di là di queste aperture di facciata, però, i soldi “veri” dall’UE vanno all’industria fossile e al settore bellico: “Per anni, i leader europei ci hanno detto che non c’erano soldi per la decarbonizzazione, i servizi pubblici o la previdenza sociale a causa del vincolo debito/PIL. Ora, improvvisamente, sono pronti a spendere miliardi in armi. Questo dimostra che le regole sul deficit non erano strumenti di stabilità economica bensì strumenti politici utilizzati per mantenere una scarsità artificiale di beni pubblici”, si rammarica Hickel.

Negli ultimi anni, il suo slancio umano e scientifico è sfociato in un’attività più prettamente politica all’interno del grande “contenitore” della sinistra internazionale denominato “Progressive International”. Oltre a lui, vi partecipano – con diversi gradi di coerenza e assiduità – Naomi Klein, Jeremy Corbyn, Yanis Varoufakis, Noam Chomsky, ma anche Slavoj Žižek, Silvia Federici e Ken Loach. Come dice il nome, al cuore del progetto politico c’è l’internazionalismo, con la priorità alla maggioranza globale non occidentale. “Il Sud del mondo non può fare pianificazione ecologica se non ha il controllo sovrano delle forze produttive”, afferma Hickel. “La lotta per la liberazione economica nazionale è il presupposto indispensabile per la transizione ecologica. Per conquistarla servono politiche industriali e la disconnessione dal sistema gerarchico dell’economia mondiale; che non significa autarchia, ma sviluppo orientato all’interesse nazionale”.

Se nel Novecento i dividendi del boom economico erano stati in parte condivisi con le classi medie occidentali, è ormai evidente che oggi viviamo in un sistema che produce povertà, distruggendo la classe media occidentale e continuando a sottopagare lavoratori e lavoratrici del resto del mondo, mentre una sparuta minoranza accumula patrimoni senza precedenti. In questo quadro, decrescere non è una mera posizione morale, ma una strategia socio-economica per liberare risorse, in modo che chi ne ha bisogno, nel Sud del mondo e tra le classi meno agiate del Nord, possa accrescere la propria impronta ecologica per accedere a prodotti e servizi essenziali. È a questa libertà, e non alla libertà di consumare sempre più, che dovremmo ambire. Perché, come diceva un filosofo che oggi (grazie anche a Kohei Saito) non è più così anatema menzionare, il regno della libertà comincia dove cessa il regno del bisogno.

Andrea Rizzi

Andrea Rizzi è dottorando in geografia presso l’Università di Bologna, dove si occupa dell’impatto sociale delle politiche climatiche e di sviluppo, analizzandole attraverso la lente critica dell’ecologia politica. Nutre inoltre un interesse per le politiche europee. Grazie a una precedente formazione linguistica, svolge occasionalmente l’attività di interprete presso le istituzioni europee. Ha tradotto in italiano – tra gli altri – il libro Il futuro è decrescita (Ledizioni, 2023).

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