L'ambientalismo rosso gode di nuova popolarità, sostiene pianificazione economica e decrescita, accusa il capitalismo di essere il principale colpevole della crisi climatica. Ma è compatibile con la democrazia?
Nel brano Live in Pankow i CCCP cantavano “voglio un piano quinquennale, la stabilità”. Era il 1996, l’Unione Sovietica era caduta da poco, la Russia tentava un passaggio diretto da economia centralizzata a economia di mercato e intanto registrava un crollo inaudito dell’aspettativa di vita, la povertà impennava passando dal 3% della fine degli anni Ottanta al 20% degli anni Novanta fino al 34% del ’94. Fra il 1991 e il 1998 l’eccesso di mortalità fu di 3,4 milioni. Dall’altra parte della cortina di ferro il neoliberismo era già esploso. Reagan era stato presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989 e nel Regno Unito Margaret Thatcher aveva avuto dal 1979 al 1990 per rivoltare l’economia. Dieci anni di riduzione della spesa pubblica e delle tasse sul reddito, di porte aperte ai privati, di deregolamentazione. Le politiche di alcuni paesi europei avrebbero seguito a ruota nel decennio successivo, ma soprattutto la cultura del centro-sinistra europeo si sarebbe adattata a mutamenti economici che erano prima di tutto mutamenti di valori.
In Italia, poi, nel 1992 il Partito socialista chiudeva i battenti dopo 98 anni di storia, portandosi dietro la macchia indelebile di Tangentopoli e l’eredità di una presidenza Craxi di simpatie liberiste. Mentre i CCCP cantavano “voglio un piano quinquennale”, in Italia “socialismo” diventava una parolaccia, il crollo sovietico risuonava sull’Occidente come sconfitta morale ed economica di tutti sogni dei decenni precedenti, il futuro l’avrebbero dettato i lasciti di Reagan e Thatcher. Di piani quinquennali da questo lato del mondo non avremmo mai più sentito parlare, se non nelle canzoni dei CCCP. Eppure qualche settimana fa, nel suo tour di presentazioni in Italia di Il Capitale nell’Antropocene, il filosofo marxista Saito Kohei si è fatto sfuggire che forse il suo prossimo libro lo dedicherà proprio alla pianificazione.
A partire dal 2019 i movimenti ecologisti hanno portato l’attenzione di tutti sull’urgenza di reagire alla crisi climatica, che negli ultimi tre anni si è manifestata in maniera sempre più dura e concreta con un’impennata delle temperature e un intensificarsi repentino di eventi meteorologici estremi. Questo ha portato le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi – e dunque con poca o nessuna memoria diretta del multiculturalismo economico del Novecento – a pensare che il sistema economico capitalista e soprattutto il neoliberismo in cui sono cresciute siano da mettere in discussione. Se negli anni Settanta i Boomer popolavano le piazze cantando “la lotta contro il capitalismo, anche se mascherato da un falso socialismo” (L’ora del fucile, 1971), per poi accettare, più o meno volentieri, la virata degli anni Novanta, noi stiamo facendo il percorso inverso. Siamo cresciuti nella realtà ineludibile del neoliberismo, abbiamo sempre pensato che fosse più facile immaginare la fine del mondo che cambiare sistema economico, e invece adesso iniziamo a dirci che bisogna trovare delle idee, e in fretta. Perché quel sistema è alla base non solo della crisi climatica, e dunque del caldo che abbiamo d’estate, delle alluvioni in autunno, degli incendi che devastano Los Angeles. Ma anche del ritardo e della lentezza imperdonabili con cui reagiamo.
“Siamo cresciuti nella realtà ineludibile del neoliberismo, abbiamo sempre pensato che fosse più facile immaginare la fine del mondo che cambiare sistema economico, e invece adesso iniziamo a dirci che bisogna trovare delle idee, e in fretta”.
Recentemente sono usciti e sono stati riediti un profluvio di manifesti ecosocialisti. Per stare sulle edizioni italiane, solo nel 2024 sono stati pubblicati Ecosocialismo del sociologo francese Michael Lowy, Manifesto ecosocialista del politologo e presidente del Partito socialista belga Paul Magnette, e soprattutto è uscito Il capitale nell’Antropocene, in cui Saito Kohei parte da una rilettura ecologista di Marx per arrivare a parlare di decrescita. Con questo libro ha venduto mezzo milione di copie in Giappone, sedicimila in Italia. Numeri difficili per la narrativa, difficilissimi per la saggistica. Spia di un interesse nuovo, ampio, un po’ più trasversale di quanto ci si aspetta accada per un manuale di economia, per quanto divulgativo.
Saito, così come Magnette e Lowy, propone una decrescita democratica e orientata al benessere collettivo come alternativa al capitalismo. Tutti e tre parlano della necessità di ridurre i ritmi di produzione, di mettere in discussione il PIL come termometro del benessere di un paese e anche di ripensare le modalità di produzione. Suggeriscono di ridurre o addirittura sopprimere i settori dannosi o inutili, di privilegiare le linee produttive più sostenibili in termini sia ecologici che sociali. Lowy però fa riferimento a un’organizzazione dal basso, Magnette si concentra soprattutto sulla maniera di “finanziare” l’ecosocialismo, attraverso un sistema fiscale che tassi ricchi e aziende inquinanti e con il recupero dei sussidi oggi destinati agli idrocarburi. Anche Kohei nel Capitale nell’Antropocene fa riferimento a un’idea vaga di pianificazione senza però immaginare concretamente in cosa possa consistere. È interessante che il prossimo lavoro voglia dedicarlo a questo. Se volessimo osservare una traiettoria, con la nascita dei movimenti c’è stato un momento di entusiasmo, di speranza in cambiamenti spinti dal basso. E ora si sta facendo strada un bisogno sempre più concreto di studiare strade alternative concrete e su larga scala, di chiedersi davvero: come si fa?
Nell’articolo Green economic planning for rapid decarbonisation, gli economisti Cornel Ban e Jacob Hasselbalch della Copenhagen Business School propongono “un’agenda integrativa incentrata sulla pianificazione economica verde, una forma di decarbonizzazione guidata dallo stato in cui quest’ultimo progetta e implementa complementarità strutturali tra architetture macro-finanziarie, politiche industriali e incentivi per il settore privato” basandosi su casi storici di pianificazione settoriale (per esempio sull’energia) oppure “indicativa” (che definisce solo strategie e obiettivi generali), ma anche sulla pianificazione adottata dalle multinazionali. Secondo i due economisti, finora le trasformazioni necessarie ad affrontare la crisi climatica sono state concepite attraverso un compromesso che subordina la governance ambientale al mantenimento dell’ordine economico liberale. Ma la lentezza con cui i cambiamenti necessari stanno avvenendo spingono a cambiare prospettiva. Serve appunto una “pianificazione economica verde”, che avvenga rapidamente anche attraverso un coordinamento con multinazionali e finanza privata, e che sia una via intermedia e allo stesso tempo un ponte fra lo “status quo liberale inefficace e un futuro post capitalista ancora distante” e che parta da una riorganizzazione degli investimenti pubblici e da una politica industriale volta a ridurre l’impronta carbonica di industria, agricoltura, trasporti.
“Dire “smettiamo di produrre tutto ciò che non serve” è più facile a dirsi che a farsi. Ma prima o poi andrà fatto, e converrà farlo per scelta e alle nostre condizioni, piuttosto che subirlo quando sarà troppo tardi”.
Ban e Hasselbalch sottolineano soprattutto che la pianificazione non deve essere vista come veicolo di autoritarismo o inefficienza, come il riferimento all’URSS o alla Cina farebbero pensare. Citano il caso della Danimarca, dove alle direttive centralizzate si è accompagnata la formazione di cooperative di energia rinnovabile formate da residenti e agricoltori e un aumento di partecipazione democratica. E osservano che “Persino in Cina […] sono state le forme più decentralizzate di pianificazione, fondate sulla mobilitazione degli attori locali, a produrre i risultati più solidi in termini di decarbonizzazione. Le realtà del settore delle rinnovabili e dei veicoli elettrici in Cina dimostrano che essa non può essere semplicemente considerata un esempio di autoritarismo ambientale, ma piuttosto un caso di pianificazione indicativa con caratteristiche cinesi.”
La Cina, che al momento è fra i maggiori emettitori di anidride carbonica come paese (ma le emissioni pro capite restano molto più basse che in Occidente), ha annunciato che toccherà il picco nel 2030 e si sta imponendo come leader mondiale nella transizione energetica, con più di 350 GW di eolico e solare installati solo nel 2024. Sempre entro il 2030 si prevede che un terzo delle auto vendute saranno elettriche. Grazie a una politica di sussidi e incentivi e a decisi investimenti in ricerca e sviluppo, la Cina è il principale produttore di auto elettriche al mondo che vende al suo (enorme) mercato interno ma anche all’estero, in particolare in Africa e Sud America. Fra le innovazioni più interessanti ci sono le batterie agli ioni di sodio, molto più economiche e molto meno impattanti di quelle al litio, visto che il sodio si ricava banalmente dal sale marino: queste batterie permettono di produrre auto utilitarie che costano attorno ai 7000 euro. Poche settimane fa in Cina è stato inaugurato il primo treno ad alta velocità alimentato da batterie al sodio, mentre in Europa il sodio viene preso in considerazione al massimo per costruire batterie d’accumulo.
La corsa alle rinnovabili della Cina è probabilmente molto più strategica che etica e si inscrive in un mercato globale enorme a cui poter vendere (pur concentrandosi sempre più sul mercato interno per ridurre i rischi di dipendere da un contesto geopolitico così incerto). Ma è soprattutto permessa da un’economia interna ampiamente controllata dallo Stato, ampiamente pianificata, appunto. Certo, con un governo centralizzato come quello cinese è molto più semplice. In Il Capitale nell’Antropocene, Saito parlava di “maoismo climatico” per descrivere una possibile deriva della gestione della crisi climatica, in cui la riduzione delle emissioni verrebbe perseguita attraverso una pianificazione economica accompagnata da un governo autoritario e da una pericolosa limitazione delle libertà civili. Ma come spiegano Ban e Hasselbalch non deve essere necessariamente così e Saito stesso sembra aver in parte cambiato idea. Forse la sfida, di Kohei e di chi altri proverà a pensare in concreto a che forma dare al “piano quinquennale” che i CCCP facevano bene a rimpiangere, è a come inserirlo in una democrazia e in un mondo così globalizzato, mettendo in primo piano la sostenibilità sociale, accanto e forse prima ancora di quella ecologica. Ci vogliono grandi investimenti pubblici, un profondo coordinamento delle risorse e delle intenzioni, molta immaginazione e molto coraggio per intraprendere una transizione ecologica giusta. Significa cogliere l’occasione della crisi climatica per costruire un mondo meno estrattivista, meno diseguale, più sano. Dire “smettiamo di produrre tutto ciò che non serve” è più facile a dirsi che a farsi. Ma prima o poi andrà fatto, e converrà farlo per scelta e alle nostre condizioni, piuttosto che subirlo quando sarà troppo tardi.
“Come ciò potrà avvenire in condizioni di competizione geoeconomica e quali sinergie potrebbero esistere tra la pianificazione indicativa verde e la pianificazione democratica per la decrescita?” e “Come possono i perdenti della decrescita pianificata dei settori ad alte emissioni essere rappresentati democraticamente e compensati economicamente senza compromettere il processo democratico e gli obiettivi di decarbonizzazione?”. È una sfida enorme, in un momento geopolitico così difficile, ma anche interessantissima, importante, forse concreta.