La finzione cola in ogni crepa delle nostre vite e crea nuovi significati collettivi: alcuni sono miti reazionari, altri possono spingerci a lottare per un mondo più giusto.
In Nepal e Indonesia i palazzi governativi vengono assaltati e incendiati. Nelle foto dei reporter e nelle storie TikTok dei manifestanti sventola un Jolly Roger che indossa un cappello di paglia. Si tratta del vessillo dei Mugiwara, la ciurma di pirati protagonista del manga One Piece di Eiichiro Oda.
Un’ulteriore breccia nel muro fatiscente che separa realtà e finzione, in linea con le macro tendenze analizzate dalla filosofa Anna Maria Lorusso in Il senso della realtà: Dalla tv all’intelligenza artificiale (La nave di Teseo, 2025).
Il mondo epico di One Piece, dove la pirateria si scontra con un governo mondiale autoritario che manipola la percezione del passato, ha inglobato pure la partenza della Sumud Flotilla per rompere il blocco navale dello Stato d’Israele. Prima di levare l’ancora, alcuni account social italiani hanno fatto circolare reel in cui l’appoggio dello storico Alessandro Barbero all’iniziativa era accompagnato da sequenze tratte dalla serie animata.
La finzione si è incarnata, obbedendo a una direttrice che Anna Maria Lorusso ha ricostruito attraverso una mappa mediale, grazie alla quale il lettore può avere contezza di quanto sia compromesso il senso contemporaneo della realtà. L’intento principale di Lorusso è la critica della dicotomia classica tra Vero e Falso – ciò che dovrebbe riferirsi al mondo reale ma è intenzionalmente costruito per interessi –, attraverso la categoria del “finto”, ovvero ciò che simula di riferirsi a un mondo reale ma a fini di mero intrattenimento.
Siamo vittime di ciò che Lorusso chiama “conflagrazione dei regimi di realtà”, un fuoco d’artificio prodotto dalla Disneyficazione e dalla trasformazione spettacolare del quotidiano. La realtà viene infatti raccontata in modo semplificato e accessibile, for dummies, attraverso animazioni o modelli in scala che generano un effetto di incongruenza e banalizzazione, oppure in modi spesso drammatici, come il caso Cogne e le cronache dei reali del mondo. A tutto ciò si accompagna l’attribuzione di marchi di realtà a contenuti finti, come il binario 9¾ di Harry Potter, che colonizzano il mondo reale. L’autrice del libro si riferisce a quelle “finte notizie”, apparentemente irrilevanti, come quella della nascita della sorellina di Peppa Pig o un audio virale su WhatsApp, che pur non essendo necessariamente falsi o slogan propagandistici contribuiscono a disorientare la nostra capacità di distinguere e dare senso al mondo.
Nel corso del libro, Lorusso esplora le “realtà vicarie” che avrebbero sostituito il reale secondo le direttrici appena descritte: TV-verità, true crime, cospirazionismo e il fronte più attuale, quello dell’intelligenza artificiale. Dal dramma collettivo della morte in diretta del piccolo Alfredino Rampi, alle tragiche esistenze di Marilyn Monroe e Lady Diana, per giungere alle recenti docuserie The Ferragnez e Unica, la telecamera del reality ha fatto sì che il quotidiano della gente comune e delle celebrità diventasse spettacolo, mentre il true crime ha trasfigurato le storie di cronaca nera in sceneggiature di successo.
Quindi da una parte il vero diventa finto, dall’altra però è la finzione a farsi verità. È il caso delle teorie cospirazioniste, che dalle pagine dei romanzi finiscono per diventare copioni dei discorsi d’odio razziale. Il true crime e il complottismo sono animati secondo Lorusso dallo stesso desiderio di accesso al “vero”, lo spettatore e il complottista diventano investigatori, giudici e interpreti, assumendo una prospettiva sul mondo sdoganata da celebri show televisivi come X-Files, per Lorusso vero e proprio modello mediatico della normalizzazione del cospirazionismo nella sensibilità collettiva.
I deep fake creati con le I.A. generative sono solo l’ultimo avamposto dell’assalto della finzione al nostro senso comune. L’inquietante percezione di trovarsi di fronte a vere e proprie “illusioni iconiche” sta velocemente degenerando in una incapacità di affermare se ciò che stiamo guardando è parte o meno della nostra realtà, come nel caso dell’immagine virale “All Eyes on Rafah”, o del video fake dello storico Alessandro Barbero sul tema del riarmo europeo nel contesto della guerra russo-ucraina. Il libro di Anna Maria Lorusso vede in questa torsione la prova che l’adeguatezza non è più referenziale ma pragmatica – ciò che conta non è che qualcosa sia vero, ma che funzioni come tale in base al contesto.

La sfida centrale per la filosofa risiede dunque nella “intelligenza umana interpretativa”. È necessario sviluppare competenze pragmatiche per valutare l’appropriatezza e la portata performativa dei testi, imparando a muoversi in un mondo dove l’autorialità è sfumata e la responsabilità enunciativa è diffusa.
Anna Maria Lorusso ha saputo mappare un tempo in cui il confine tra vero, falso e finto si è fatto bruma. Il senso della realtà registra questa frattura con lucidità e mostra quanto labile sia la nostra presa sul mondo, ma manca di mettere a fuoco quanto questa trasformazione nietzschiana del “Mondo vero” in favola sia latrice di un senso ristoratore di libertà. Solo in questa chiave possiamo comprendere davvero la portata di fenomeni come la bandiera dei Mugiwara esposta nelle proteste in Asia e nel Mediterraneo.
Dentro lo stesso crepuscolo che Lorusso racconta, germoglia la possibilità di una finzione che non soltanto smarrisce ma accende.
Innanzitutto i casi riportati e analizzati nel suo libro sono esempi tratti da una zona del “Finto” che non ha mai rappresentato una istanza politica in contrasto con il presente. Come la maggioranza delle narrazioni di stampo occidentale, ogni prodotto di finzione, per quanto capace di incarnarsi nella realtà, è sempre un meccanismo di conferma dello stato di cose presenti se non addirittura un vettore di istanze reazionarie. In poche parole, miti regressivi, simili ai pasti propagandistici con cui le nuove destre hanno nutrito il loro elettorato. La bandiera dei Mugiwara impone l’analisi di una terza macro-tendenza, in cui falso e finto si ibridano, generando quelle che lo studioso torinese Furio Jesi amava definire “macchine mitologiche”.
Non viviamo e non abbiamo mai vissuto nella realtà, falso e vero sono solo spettri della finzione, ambiti del mito. Per questo è necessario abbandonare qualsiasi nostalgia della realtà e confrontarsi corpo a corpo con la mitologia del quotidiano. A differenza di categorie interpretative del mito di stampo conservatore, il concetto di Jesi supera la dicotomia tra mito genuino, primordiale, e miti tecnicizzati, moderni, ammantati di antichità e parte del repertorio della cultura di destra. Il concetto di macchina mitologica, nell’ultimo Jesi, dichiara che ogni mito, nel momento stesso in cui viene narrato o riattivato, è già tecnica, già costruzione artificiale. Per questo non esiste alcuna possibilità di recuperare un’origine perduta, bisogna piuttosto mostrare come funziona il mito, le modalità con cui genera senso e potere.
Quando entriamo nel regime del Falso e del Finto di cui parla Lorusso, ci muoviamo tra finzioni che fingono di non esserlo, narrative che si travestono da realtà. Eppure esistono altre finzioni — come la sopracitata bandiera — che scelgono la via opposta: mostrano i propri ingranaggi, dichiarano la propria artificiosità per rivelare quanto artificiale sia, in fondo, anche il mondo che pretendono di rappresentare. Queste macchine mitologiche non mirano a sostituire la realtà, né a conservarla in forma di intrattenimento o nostalgia; usano invece la forma stessa del mito, il racconto, come strumento conoscitivo e politico. Raccontare diventa qui un gesto sovversivo: un modo per disattivare la retorica dell’autenticità e smascherare la mitologia che tiene in piedi il presente.
One Piece, nell’arco di più di vent’anni, si è sempre più sviluppato attorno a posizioni esplicitamente anti-autoritarie, una vera e propria risemantizzazione della pirateria in chiave anarchica e sovversiva. Si tratta di un mondo di finzione irrealistico, disegnato come una caricatura espressionista e programmaticamente anti-naturalistica. Forme grottesche, persino brutte, si muovono su fondali ricchi di elementi sinuosi e bizzarri, obbedendo a una maniacale devozione iperbarocca per i dettagli. Il punto di forza di Oda è però quello di rendere polimorfa la rappresentazione, facendola mutare con il registro e il tono della narrazione. Così la comicità della deformazione slapstick si mescola alla solennità drammatica, senza soluzione di continuità.
Questo è il motivo della viralità nel nostro quotidiano della bandiera dei Mugiwara. C’è una corrispondenza tra la struttura della realtà del mondo di One Piece e la nostra. L’opera mostra infatti un mondo in cui la trama è un diorama delle meccaniche descritte in Il senso della realtà. I personaggi del manga vivono attraverso i loro corpi il mescolamento tra realtà e finzione, subiscono gli effetti deleteri dell’uso politico del falso. In One piece finzione e realtà sono stati fisici della narrazione.
“Non si tratta solo di distinguere il vero dal falso, come in una pratica poliziesca di fact-checking, ma di saggiare la potenza di queste narrazioni, distinguendo quelle che offrono solo consolazione o al massimo evasione, e quelle come One Piece o il martello di Ned Ludd: strumenti per immaginare e lottare per un mondo alternativo”.
Nelle sequenze video delle proteste in cui il vessillo della ciurma di Monkey D. Rufy (il protagonista della storia) sventola su un palazzo governativo in fiamme, ritroviamo l’iconica scena in cui durante uno dei primi conflitti tra i protagonisti e il Governo Mondiale, il protagonista comanda a Usopp, il cecchino della ciurma, di incendiare la bandiera governativa bianca e blu. Il senso di leggerezza trasmesso da Rufy lo rende sì bizzarro, innocente perché incosciente, ma anche per questo pericoloso e l’assenza di profondità diventa una minaccia per un potere che si basa su una rete sotterranea di finzioni mascherate. Rufy è un trickster, non un buffone, una finzione che non si accontenta più di intrattenere ed è dunque inevitabile che chi si ispira a lui si comporti nello stesso modo.
Da qui l’uso del suo Jolly Roger nelle proteste, esempio di un fenomeno che obbedisce a regole differenti da quelle analizzate in Il senso della realtà. Siamo davanti a una notizia vera che riporta la materializzazione storica di un oggetto di finzione. Più che davanti a una perdita del senso della realtà ci troviamo al cospetto di una moltiplicazione incontrollata dei significanti, causata – come il parallelo svuotamento di senso della realtà – sì dalla profonda ibridazione tra i registri del reale, del finto e del falso, ma nel nostro caso anche e soprattutto da una cosciente ricerca del pensiero antagonista di nuovi miti e simbologie per organizzare il dissenso.
I ribelli nepalesi non sono individui smarriti nella post-verità, sono piuttosto il risultato di una “iperstizione”, un concetto coniato dal filosofo Nick Land, una narrazione fittizia che riesce a influenzare la realtà perché le persone si comportano come se fosse vera. L’iperstizione, così come la macchina mitologica di Jesi, ibrida i tre regimi scandagliati da Lorusso non per produrre una forma di realtà vicaria, quanto piuttosto per innestarsi come un virus nella realtà e infine ribaltarla.
Non si tratta affatto di novità del presente, anzi. La confusione tra reale e virtuale ha una lunghissima tradizione alle spalle. L’uso sovversivo della finzione in politica affonda le radici in una storia lunga. Basti pensare a Jacques Bonhomme, figura simbolo del contadino medievale sfruttato, il cui nome divenne il grido di battaglia e l’identità collettiva della rivolta contadina della Jacquerie nella Francia del XIV secolo. Oppure a Ned Ludd, ancora più emblematico, personaggio totalmente inventato – forse un ragazzo tessitore che ruppe un telaio, il cui nome fu preso dai distruttori di macchine nell’Inghilterra ottocentesca.
Identità fittizie riempite da un’identità collettiva diventano così il vessillo sotto cui agisce un gruppo di individui nel mondo reale. Questi esempi ci dicono che la “confusione dei piani”, oggetto del saggio di Lorusso, è in realtà qualcosa di storicamente molto profondo, di cui i media contemporanei sono solo l’ultimo risultato. L’azione politica ha bisogno di immagini, e l’essere umano ha bisogno di narrazioni potenti per organizzare il dissenso.
Bisogna pertanto chiedersi se la realtà dei nostri antenati fosse più stabile della nostra. Senza considerare che, nella sua consistenza e nella sua tenuta, ciò che chiamiamo reale è sempre una questione di potere, come vuole dirci il mito solare e anarchico di One Piece. La conclusione di Lorusso sulla intelligenza umana “interpretativa” è quindi ancora più urgente: non si tratta solo di distinguere il vero dal falso, come in una pratica poliziesca di fact-checking, ma di saggiare la potenza di queste narrazioni, distinguendo quelle che offrono solo consolazione o al massimo evasione, e quelle come One Piece o il martello di Ned Ludd: strumenti per immaginare e lottare per un mondo alternativo.