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Sofia Belardinelli
Più siamo poveri e più moriremo di caldo

Più Siamo Poveri E Più Moriremo Di Caldo Cover Belardinelli
clima natura politica Società

L'accesso a tecnologie di raffrescamento non è solo una questione economica, ma anche sociale. E dipende in buona parte dalla presenza di alberi e prati. Le città verdi sono città giuste (e sane).

L’adagio secondo cui “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” – attribuito a Chico Mendes, sindacalista brasiliano e attivista ambientale, assassinato nel 1988 da un allevatore per le sue attività contro il disboscamento della foresta brasiliana – è forse abusato tra coloro che, a vario titolo, si occupano di ambiente. Eppure, questo motto racchiude un dato incontrovertibile: tutta la storia della crisi ambientale è legata a doppio filo alle diseguaglianze tra persone, tratto identificativo della società globale.

Le manifestazioni di questo legame sono numerosissime: dal destino delle piccole isole del Pacifico, i cui abitanti hanno contribuito al cambiamento climatico in maniera risibile ma sono ora costretti ad abbandonare le loro terre e a diventare migranti climatici perpetui, fino all’epidemia di cooling poverty – l’impossibilità di accedere a tecnologie di raffrescamento durante le ondate di calore – che affligge non solo i cittadini dei Paesi in via di sviluppo, ma anche le persone più vulnerabili nel Nord globale.

La cooling poverty, però, non è “solo” una questione economica (bisogna avere i soldi per fronteggiare una bolletta energetica esorbitante), né “solo” una questione tecnologica (la disponibilità di impianti di raffrescamento), ma è anche una questione sociale, fatta di infrastrutture pubbliche carenti e di diseguaglianze sedimentate. Lo dimostrano gli studi scientifici, sempre più numerosi, che mettono in luce la correlazione tra la composizione fisica delle città e l’aggravarsi dell’ingiustizia ambientale che, di fronte agli effetti della crisi climatica, lascia ai margini coloro che sono già più vulnerabili, ampliando ulteriormente il divario tra ricchi e poveri.

A mostrare con particolare evidenza la connessione tra la condizione socio-economica, il luogo in cui si vive e l’esposizione ai peggiori effetti della crisi ambientale è la distribuzione della copertura vegetale nelle aree urbane. Il verde urbano è infatti un elemento essenziale degli interventi di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico; inoltre, un ambiente più naturale aumenta il benessere psicofisico delle persone. Eppure, come spiega uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e curato da un gruppo di ricercatori cinesi, la distribuzione delle aree verdi è una delle prime caratteristiche territoriali che viene modificata – non necessariamente in negativo – dall’urbanizzazione.

Urbanizzazione significa costruzione di nuove case, di edifici pubblici, di strade e altre infrastrutture, che hanno tutte un comune denominatore: i materiali, che impermeabilizzano i suoli e causano un effetto che gli esperti, ispirati dalla visione satellitare, hanno definito browning in opposizione al greening, che indica l’aumento della vegetazione.

L’urbanizzazione, soprattutto nelle fasi iniziali di sviluppo, riduce le aree verdi, mentre aumenta le superfici impermeabilizzate; al contrario, in città stabili dal punto di vista espansivo e prospere sul piano economico, si osserva una tendenza all’aumento della vegetazione. Analizzando queste dinamiche, tramite dati satellitari, in quasi 5000 città di tutto il mondo nel periodo 2000-2019, i ricercatori cinesi hanno riscontrato un’evidente differenza di tendenze tra le città del Nord e del Sud globale. Infatti, mentre nel primo si è verificato un generale aumento delle aree verdi urbane, nel secondo si è osservato il processo inverso.

I motivi variano: nella maggior parte dei Paesi che rientrano nel Sud globale – come, ad esempio, Cina, India e molti Paesi africani – l’industrializzazione è iniziata nella seconda metà del Novecento, e la migrazione di massa verso i grandi centri urbani è iniziata da circa trent’anni. “Questo ha causato una considerevole espansione urbana, con significativi impatti negativi diretti sulla vegetazione, soprattutto nel Sudest asiatico e in Africa”, puntualizzano gli autori della ricerca. Al contrario, nelle città del Nord globale, più “mature” dal punto di vista storico, le aree verdi – già ben strutturate e gestite grazie a maggiori possibilità economiche – sono aumentate.

Alberi e parchi mitigano la forza delle isole di calore, riducono i livelli di inquinamento dell’aria, supportano la biodiversità, sequestrano il carbonio dall’atmosfera e riducono l’impatto di eventi estremi come siccità e alluvioni, favorendo la penetrazione dell’acqua nel terreno.

Un fenomeno a parte si è verificato nelle città del Medio Oriente e del Sud America. Anche qui si è assistito a una forte spinta all’urbanizzazione alla fine del secolo scorso, ma l’aumento della popolazione urbana ha superato il livello economico e le capacità infrastrutturali, rendendo queste città oggi “sovraurbanizzate”. Le differenti dinamiche di evoluzione della vegetazione urbana nelle città del Sud e del Nord globale sono, perciò, anche direttamente collegate alle caratteristiche socioeconomiche – e quindi alle disponibilità finanziarie – delle città stesse.

Ma perché preoccuparsi delle aree verdi? In che modo sono collegate all’adattamento alla crisi climatica, e, più in generale, come la loro distribuzione contribuisce a tutelare la giustizia o a esacerbare l’ingiustizia ambientale? Per comprenderlo, basta leggere l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, il famoso documento del 2015 che, per la prima volta nella storia, ha vincolato (quasi) tutti i Paesi del mondo a un comune obiettivo per preservare le condizioni di esistenza della nostra specie e per costruire un mondo migliore per le generazioni a venire.

Nell’undicesimo Obiettivo di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda, “Città e comunità sostenibili”, è contenuto un target (un sotto-obiettivo), l’11.7, che recita: “Entro il 2030, garantire universalmente accesso a spazi pubblici e aree verdi che siano sicure, inclusive e accessibili, specialmente per le donne e i bambini, le persone anziane e quelle con disabilità”. Insomma, anche le Nazioni Unite riconoscono la centralità dell’accesso alle aree verdi come misura di giustizia sociale e ambientale.

In effetti, è ampiamente dimostrato che l’espansione delle aree verdi abbia innumerevoli benefici per la tutela ambientale, per la salute umana (fisica e psichica) e per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico. Ad esempio, nelle città, che sono soggette, nelle sempre più frequenti ondate di calore estive, al fenomeno delle “isole di calore”, l’ampliamento delle aree verdi è considerato una Nature-based Solution. Nello specifico, alberi e parchi mitigano la forza delle isole di calore, riducono i livelli di inquinamento dell’aria, supportano la biodiversità, sequestrano il carbonio dall’atmosfera e riducono l’impatto di eventi estremi come siccità e alluvioni, favorendo la penetrazione dell’acqua nel terreno (impossibile quando i suoli sono impermeabilizzati da cemento e asfalto); inoltre, offrono alle persone spazi ricreativi e d’incontro.

Investire nell’estensione delle aree verdi è una misura essenziale anche in un’ottica One Health, e per la salvaguardia della biodiversità e dei contributi della natura alle persone. La scelta di investire o meno in questo genere di soluzioni ha conseguenze immediate e impatti a lungo termine: lo studio comparso su Nature Communications mostra che, proiettando nel futuro (nel periodo 2020-2040) le tendenze attuali, la disparità di rinverdimento tra le città del Nord e del Sud globale rimarrà una costante in tutti gli scenari socioeconomici presi in analisi, approfondendo le diseguaglianze già esistenti.

Non a caso, gli autori dello studio inseriscono tra le raccomandazioni finali la necessità di “una pianificazione urbana razionale, che tenga conto sia dell’espansione delle città che del loro rinnovamento, per trovare un equilibrio tra lo sviluppo delle aree urbane e le sue conseguenze ecologiche e ambientali nelle città del Sud del mondo”. Per questo, aggiungono, “un aumento degli aiuti economici regionali o internazionali porterebbe a un aumento degli investimenti nel verde urbano nelle città del Sud del mondo, il che contribuirebbe a garantire un accesso equo ai servizi ecosistemici offerti dalle aree verdi in tutto il mondo”.

Le conclusioni di questo studio condotto su scala globale possono essere traslate, nella loro interezza, anche su aree geografiche più ristrette. Concentrando l’attenzione sul contesto europeo, notiamo che le disparità di accesso ai contributi delle aree verdi alle persone e, più in generale, le diseguaglianze economiche, sociali e ambientali si ripropongono anche all’interno delle singole città: tra quartieri benestanti e quartieri poveri, tra ceti sociali e tra gruppi di diversa etnia, più o meno marginalizzati. Uno studio dello scorso anno, condotto da ricercatori europei e a cui ha contribuito anche l’italiano Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici (CMCC), ha dimostrato, dati alla mano, che l’ingiustizia ambientale che si manifesta nell’accesso agli spazi verdi pervade anche le principali aree urbane della ricca Europa.

Il rischio di interventi troppo affrettati è che, a fronte di un innalzamento dei prezzi degli immobili, la popolazione vulnerabile non tragga beneficio dai nuovi servizi, ma sia invece costretta a spostarsi, subendo così un’ulteriore ingiustizia

Lo studio ha mostrato che “i residenti vulnerabili non sono concentrati principalmente nelle aree periferiche e suburbane, ma in aree centrali degradate con scarsità di aree verdi”. Per affrontare questa forma di ingiustizia ambientale, non basta aumentare le aree verdi nei quartieri svantaggiati, ma – come suggeriscono anche gli studiosi cinesi – bisogna puntare a una pianificazione razionale, elaborando strategie che tengano unite la dimensione sociale e quella ambientale attraverso una scelta accurata delle specie da mettere a dimora (prediligendo specie adatte al clima locale e resistenti, ed evitando specie esotiche invasive), dei luoghi in cui effettuare gli interventi e attraverso l’organizzazione di piani manutenzione di lungo periodo.

Poiché le infrastrutture verdi rivitalizzano le aree urbane e ne aumentano il valore economico, il rischio di interventi troppo affrettati è che, a fronte di un innalzamento dei prezzi degli immobili, la popolazione vulnerabile non tragga beneficio dai nuovi servizi, ma sia invece costretta a spostarsi, subendo così un’ulteriore ingiustizia. Per questo, bisogna preferire azioni diffuse a interventi locali, per esempio distribuendo in modo uniforme le aree verdi sul territorio cittadino: solo in questo modo, infatti, le nature-based solutions diventano effettivamente democratiche.

Un aumento consistente delle aree verdi urbane è anche tra i traguardi del Regolamento sul ripristino della natura, approvato dall’Unione Europea a giugno 2024 e che dovrà essere messo a terra dagli Stati membri attraverso piani nazionali entro settembre 2026 (non sorprende il fatto che, a un anno dalla data di scadenza,  in Italia i lavori di preparazione per tale piano siano ancora in fase embrionale). Il Regolamento impone, entro il 2030, di arrestare la perdita netta di spazi verdi e copertura vegetale nelle aree urbane e che, dopo il 2030, si lavori per estenderle.

Per realizzare questi intenti è necessario che, in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, tutti i governi assumano la giustizia ambientale come proprio ideale regolativo, progettando interventi che tengano insieme sostenibilità sociale e ambientale, protezione dell’ambiente e tutela della salute dei cittadini, soprattutto dei più fragili.

Sofia Belardinelli

Sofia Belardinelli è dottoressa di ricerca in etica ambientale all’università “Federico II” di Napoli. È Contributing Author e Research Fellow per il settimo Global Environment Outlook dell’UNEP. Attualmente, è ricercatrice post-dottorale per il National Biodiversity Future Centre all’università di Padova. È giornalista scientifica e collabora con diverse testate, tra cui Il Bo Live, Micromega, Il Corriere della Sera e Il Tascabile. Si occupa di temi quali crisi ambientale, biodiversità e giustizia ambientale, ma anche di questioni sociali e di attualità.

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