Un biologo palestinese guida un team al Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, con cui fa crescere da zero embrioni con organi funzionanti per usarli in caso di trapianto. Ma come si può usare come pezzo di ricambio un corpo che col tempo sviluppa una coscienza?
Jacob Hanna è un biologo palestinese che guida un team al Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, dove studia come creare embrioni senza usare spermatozoi, ovuli, fecondazione. Prima di passare alle cellule staminali umane, il team di Hanna ha fatto i primi esperimenti sugli animali, facendo crescere da zero degli embrioni di topo con organi perfettamente funzionanti. Di fronte a questo scenario, a tratti macabro, la domanda sorge spontanea: esistono dei limiti alla manipolazione della vita? E, soprattutto, che cosa intendiamo con il termine coscienza?
In un recente articolo pubblicato su MIT Technology Review si ripercorre la storia di Jacob Hanna, biologo palestinese con un laboratorio al Weizmann Institute of Science, in Israele. Quella che emerge è una personalità complessa, tanto quanto la sua ricerca che, per alcuni, ha più a che fare con la magia.
Oltre alla vita in laboratorio, ha co-fondato la startup Renewal Bio con il venture capitalist Omri Amirav-Drory con l’obiettivo di utilizzare questi embrioni sintetici come “biostampanti” per produrre tessuti giovani e sani da usare come pezzi di ricambio, sollevando controversie etiche non indifferenti.
Hanna e colleghi lavorano nell’ambito della biologia dello sviluppo con un focus sul processo di riprogrammazione cellulare, una tecnica attraverso cui le cellule differenziate del nostro organismo, anche definite cellule somatiche (come le specifiche cellule di vari organi e tessuti), vengono fatte regredire a uno stadio precedente, in cui le cellule sono ancora immature e hanno più strade di differenziamento da poter percorrere.
In natura la vita inizia con la fecondazione della cellula uovo da parte dello spermatozoo. Da qui, si genera un’unica grande cellula iniziale, lo zigote, che successivamente inizia a dividersi in cellule più piccole, generando l’embrione. Col passare delle settimane, le varie cellule dell’embrione – chiamate staminali – iniziano a replicarsi e a differenziarsi, cioè ad assumere dei “destini” predefiniti, seguendo una prospettiva filosofica essenzialmente deterministica. Ciò significa che, ad esempio, le cellule che derivano da una particolare area dell’embrione, chiamato ectoderma, diventeranno cellule dell’epidermide, mentre, quelle del neuroectoderma, origineranno il sistema nervoso, e così via per ogni tessuto o tipo cellulare.
A causa alla stretta associazione con l’utero materno dell’embrione dei mammiferi, studiarne lo sviluppo è sempre stato molto difficile. Per ovviare al problema, il gruppo ha recentemente sviluppato piattaforme robuste di coltura ex utero dell’embrione, controllate elettronicamente, che consentono di osservare la normale embriogenesi del topo fuori dall’utero.
Oltre a studiare il naturale processo di sviluppo, il team punta a generare degli embrioni sintetici creati in laboratorio sfruttando la riprogrammazione e l’utilizzo di specifiche condizioni di coltura.
Il risultato spiazzante di Hanna è stato quello di scoprire come le cellule staminali prodotte e fatte crescere in laboratorio (definibili, in generale, sintetiche) idiverse popolazioni di cellule staminali coltivate in vitro (embrionali ed extra-embrionali) possano auto-organizzarsi in embrioni veri e propri, chiamati modelli embrioidi sintetici derivati da cellule staminali (chiamati SEMs) di diverse specie. Questo significa che, oltre a studiare il naturale processo di sviluppo, il team punta a generare degli embrioni sintetici creati in laboratorio sfruttando la riprogrammazione e l’utilizzo di specifiche condizioni di coltura.
Ma perché farlo? Come emerge dal sito del gruppo di ricerca, uno degli obiettivi è migliorare la differenziazione delle cellule staminali in organi funzionanti che possano essere eventualmente utilizzati per trapianti.
Lo scorso maggio, quando Hanna ha raccontato la sua ricerca al Global Observatory’s Annual Summit a Cambridge, nel Massachusetts, Carter Snead, studioso di bioetica di fede cattolica, rimane turbato dalle sue parole, e controbatte che tutti gli esseri umani hanno lo stesso valore, indipendentemente dalle loro capacità intellettive o da qualsiasi altra caratteristica. “Che cosa consideriamo umano? Chi consideriamo umano?”, si chiede Snead, e ce lo chiediamo anche noi: “È una questione di tracciare una linea tra cosa è umano e cosa no, e le conseguenze possono essere enormi.”
Ciò che fanno Hanna e colleghi è muoversi in una zona grigia legislativa. Al momento non esistono leggi che regolino gli embrioni sintetici. Poiché non nascono dal concepimento e crescono in laboratorio, sono ignorati dalla maggior parte delle leggi esistenti tra cui il Fetus Farming Prohibition Act, una legge approvata nel 2006 dal Congresso degli Stati Uniti con l’obiettivo di impedire a chiunque di coltivare un feto solo per ottenerne gli organi. Ma c’è un cavillo: la legge infatti fa riferimento a “gravidanza umana” e “utero”, due elementi che non sono contemplati nel caso di generazione di embrioni in vitro.
È importante chiarire che la prospettiva con cui affrontiamo questa ricerca è inevitabilmente specista. La sperimentazione su animali non umani, come topi, e quella su cellule umane si collocano su piani etici differenti e rispondono a limiti diversi. Questa distinzione è oggi necessaria per il progresso scientifico, ma ciò non implica che sia neutra, definitiva o priva di implicazioni morali.
Ma come risolvere le questioni etiche riguardanti la generazione e la manipolazione della vita?
Nelle settimane successive alla fecondazione, l’embrione è un ammasso di cellule che iniziano a organizzarsi per dare origine all’individuo. Negli esseri umani, la terza settimana un foglio piatto di cellule (che poi si specializzeranno in cellule neurali) inizia ad arrotolarsi formando – letteralmente – un tubo che in seguito darà origine al cervello e al midollo spinale. Comprendere questo processo, noto come neurulazione, è importante perché una mancata chiusura corretta del tubo neurale può causare gravi difetti congeniti, come la spina bifida. Tuttavia, individuare i geni che regolano la chiusura del tubo neurale nell’essere umano è stato difficile per varie ragioni, in primo luogo etiche e tecniche. Inoltre, nel caso di utilizzo di embrioni non umani, i risultati molto spesso non sono traslazionali, cioè non sono applicabili agli umani per differenze biologiche intrinseche alle varie specie.
Rimane un dilemma etico: cosa fare di un embrione sintetico generato in laboratorio quando inizia a svilupparsi e a dotarsi di una coscienza?
In un articolo pubblicato recentemente su eLife, Roya Huang, Giridhar Anand, Sharad Ramanathan e altri colleghi dell’Università di Harvard riportano di aver identificato alcuni dei geni (tra cui ZIC2, SOX11 e ZNF521) che controllano la chiusura del tubo neurale anteriore utilizzando un modello basato su organoidi, aprendo uno spiraglio nella concretizzazione del pronostico di Charlesworth anche per gli embrioni umani.
Rimane un dilemma etico: cosa fare di un embrione sintetico generato in laboratorio quando inizia a svilupparsi e a dotarsi di una coscienza?
Per ovviare ai problemi legati alla manipolazione di embrioni animali – umani e non – Hanna e colleghi identificano una via percorribile: rimuovergli la testa.
Come riporta la MIT Technology Review, questa è una tecnica genetica nota come knockout neurale, che consiste nella mancata attivazione di uno o più geni per impedire lo sviluppo del cervello. Il gruppo l’ha già sperimentato sui topi, rimuovendo un gene chiamato LIM-1 e inducendo la generazione di un topo senza testa. Non sopravvivono dopo la nascita, ma lo sviluppo nell’utero avviene regolarmente.
L’idea della rimozione del cervello per ovviare al problema della coscienza si inserisce in una ben più ampia area di analisi. Per fare un esempio, il team di Hiromitsu Nakauchi a Stanford sta attualmente testando diverse modifiche genetiche per vedere se è possibile ottenere in modo coerente un animale senza cervello o testa, ma con tutti gli altri tessuti. “L’importanza di eliminare la testa è interamente etica. Significa semplicemente che possiamo creare questi corpi e queste strutture di organi senza oltrepassare confini morali o danneggiare esseri viventi senzienti” dice Carsten Charlesworth, ricercatore nel laboratorio di Nakauchi.
Se si dà per buono che il cervello sia la condizione necessaria e sufficiente per l’emergere della coscienza – e che questa risieda nell’encefalo – allora l’assenza di cervello implica l’assenza di coscienza. In questa prospettiva, senza coscienza non vi è persona, ma soltanto un insieme di organi biologicamente funzionanti. Ed è questa, almeno, la posizione dichiarata da Hanna.
Su tale presupposto si innesta una procedura definita de-potenziamento o dis-ingegnerizzazione: un insieme di interventi genetici mirati a ridurre o eliminare negli animali la capacità di provare dolore, sofferenza o, più in generale, di avere un’esperienza cosciente. L’obiettivo è delimitare con precisione ciò che viene considerato eticamente rilevante, spostando il confine morale al di qua della coscienza.
Anche se esistono numerose teorie che cercano di spiegare il funzionamento della coscienza, le neuroscienze stanno ancora tentando di chiarire i meccanismi cerebrali che la rendono possibile.
Eppure, se definire cosa – o chi – sia umano è già di per sé complesso, tracciare confini netti alla coscienza si rivela una vera e propria chimera della ricerca scientifica, non solo dei nostri tempi. La nozione di “essere umano” può essere affrontata da molteplici prospettive – storiche, filosofiche, sociali. Sul piano biologico, essere umani significa appartenere alla specie Homo sapiens. Ma la domanda decisiva non è tassonomica, bensì ontologica: quando un aggregato di cellule diventa davvero un essere umano?
Anche se esistono numerose teorie che cercano di spiegare il funzionamento della coscienza, le neuroscienze stanno ancora tentando di chiarire i meccanismi cerebrali che la rendono possibile.
Tra le teorie più influenti troviamo la Global Workspace Theory (GWT) e la Integrated Information Theory (IIT). La GWT immagina la coscienza come un “centro di smistamento” che coordina e diffonde informazioni tra diverse reti neurali, così da permettere al cervello di prendere decisioni e adattarsi. L’IIT invece dà più importanza alla capacità di un sistema di integrare informazioni in modo complesso, e la misura attraverso il parametro Φ, un indicatore della ricchezza dell’esperienza soggettiva. Le due teorie non si escludono: la prima è più orientata al funzionamento, la seconda all’esperienza interna. Insieme offrono una base teorica utile per studiare la connettività cerebrale, l’attività neuronale e perfino per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale.
Un’altra teoria importante è la Dendritic Integration Theory (DIT), che sostiene che gli stati di coscienza nascano grazie all’attività dei neuroni piramidali profondi, un tipo di neuroni eccitatori coinvolti sia nei circuiti che collegano diverse aree corticali, sia nei circuiti che connettono la corteccia con il talamo. A differenza delle altre teorie, la DIT si basa soprattutto su aspetti fisiologici. Studi recenti confermano che i neuroni piramidali L5 svolgono un ruolo cruciale nel regolare la coscienza. Queste cellule, descritte da Ramón y Cajal come “cellule psichiche”, agiscono come un punto d’incontro tra informazioni corticali e talamiche. Secondo recenti evidenze, questi neuroni collegano i circuiti che determinano sia lo stato di coscienza (come veglia o sonno) sia il contenuto della nostra esperienza cosciente.
Gli esperimenti lo mostrano chiaramente: stimolare alcune parti dei dendriti apicali dei neuroni L5 provoca un’attivazione del corpo cellulare durante la veglia, ma non durante l’anestesia, a suggerire che, quando perdiamo coscienza, le diverse parti di questi neuroni smettono di comunicare tra loro. Lo stesso fenomeno si osserva con sostanze come la ketamina, che bloccano certi recettori del glutammato, il che mostra un possibile meccanismo comune alla perdita di coscienza. Altri studi hanno osservato che, sotto anestesia, l’attività spontanea dei neuroni L5 tende a sincronizzarsi in modo anomalo, mentre questa sincronizzazione scompare quando il soggetto torna cosciente. I vari stati di coscienza sembrano quindi essere associati a uno spettro di stati di sincronizzazione cerebrale che può variare a seconda degli stimoli che riceviamo o in risposta a specifici trattamenti.
Le neuroscienze mostrano quanto complesso sia il meccanismo alla base dell’esperienza soggettiva: coscienza e percezione sono strettamente intrecciate all’attività coordinata dei neuroni e dei loro circuiti, ma ancora mancano risposte definitive in termini evolutivi. Quando questa tipologia di attività neuronale inizia a formarsi nell’embrione? E, qualora presente, può essere sufficiente a definire lo stato di coscienza dell’individuo?
Queste considerazioni diventano particolarmente rilevanti nel contesto della ricerca di Jacob Hanna. Gli embrioni sintetici non sembrano sperimentare sensazioni di alcun tipo, ed è proprio questo limite biologico e neurocognitivo che, attualmente, stabilisce la differenza tra un organismo “biologicamente umano” e un essere umano inteso come portatore di esperienza cosciente. Tutto sta nel capire se questa definizione ci soddisfa.
L’immagine in copertina è di MADEI E HANDFORD/UNIVERSITÀ DI CAMBRIDGE