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Emanuela Evangelista
Quanto vale una foresta che brucia

Quanto Vale Una Foresta Che Brucia Cover Evangelista
economia natura

Il mercato globale ha fame di legname pregiato, carne, mangime, oro e petrolio. L'Amazzonia è al centro di questa economia della distruzione che devasta il suo ecosistema e che uccide e impoverisce i popoli indigeni che la abitano.

Un albero che cade in una foresta fa molto rumore. Non un semplice tonfo ma una composita sequenza sonora. Un lento cadere che inizia con uno scricchiolio prolungato, mentre il tronco si spezza progressivamente. L’albero inizia a inclinarsi e appoggia i rami sugli alberi vicini, che a uno a uno cedono contro la forza di gravità con brevi suoni secchi e crepitanti. Quando il legno alla base si squarcia, il tronco spezzato sibila, emette un gemito acuto e stridulo. La caduta è preceduta da un fruscio crescente. Le fronde si sfregano contro la vegetazione circostante, che risponde con il timbro di una grandinata di rami spezzati. L’impatto finale ha il suono di un boato profondo, in cui si mescolano un tonfo massiccio e un’esplosione di legno. L’onda d’urto si propaga, la terra trema, le scimmie urlano, i pappagalli si alzano in volo gridando il loro spavento.

Il silenzio non è immediato. A lungo dopo la caduta, si possono sentire crepitii e scricchiolii minori mentre i rami si assestano e le tensioni nel legno si rilasciano. Lentamente, il suono diminuisce, lasciando dietro di sé un’eco e un senso di vuoto e disturbo nella quiete della foresta.

Ora immaginiamo centinaia di alberi in una foresta che cadono in sequenza come fossero pezzi di un domino. A decine cadono simultaneamente, gli uni sugli altri, si schiantano al suolo emettendo una sinfonia cacofonica. La tecnica di taglio è chiamata correntão (grande catena) ed è molto usata nell’Amazzonia brasiliana. Consiste nel collegare una massiccia catena d’acciaio tra due trattori – il rombo costante e grave dei motori che avanzano è una vibrazione profonda che attraversa il suolo e l’aria. I potenti veicoli aprono varchi paralleli nella foresta, trascinano sul terreno la catena tesa, che emette un fruscio prolungato e raschiante. La catena sradica, spezza e abbatte indiscriminatamente la vegetazione sul suo percorso. È un coro di schianti fragorosi, un boato continuo, un muro di rumore mentre alberi di tutte le dimensioni si abbattono a terra in successione rapida. Intorno, il panico dilaga. Chi sa volare si mette in salvo, chi può corre, qualcuno salta da un ramo all’altro. Non tutti trovano la giusta direzione, molti soccombono, vittime collaterali in una guerra che non aspettavano. 

Prima del passaggio della catena, il bosco è già stato ripulito. Gli alberi di valore vengono individuati e estratti dai taglialegna per ricavarne legni pregiati, richiesti dal mercato, come l’itauba: resistente all’acqua, al clima, alle termiti e perfetto per farne parquet da esterni nelle case dei ricchi. Quel che rimane dopo il taglio selettivo è foresta senza alcun valore economico, di cui disfarsi in fretta e al minor costo. La vegetazione abbattuta viene fatta seccare a terra per due o tre mesi, perché sia facilmente combustibile con l’arrivo del caldo e la fine delle piogge. Una volta bruciato tutto, l’area è pronta per rendere: ora ha un valore. 

È nato così l’arco di deforestazione, come è chiamata la fascia geografica che si estende per migliaia di chilometri lungo i margini meridionali e orientali della foresta amazzonica, dove si concentrano le più intense attività di disboscamento. Risultato di una progressiva conversione del suolo – che ha accelerato significativamente a partire dagli anni Settanta – è una frontiera curva, caratterizzata da un paesaggio frammentato dove la foresta pluviale cede il passo a pascoli, coltivazioni e insediamenti. Ogni anno, l’arco di deforestazione detiene i record regionali di incendi, attività illegali di taglio e accaparramento di terre. È il punto di incontro tra le attività umane invasive e la foresta che resiste. 

“La vegetazione abbattuta viene fatta seccare a terra per due o tre mesi, perché sia facilmente combustibile con l’arrivo del caldo e la fine delle piogge. Una volta bruciato tutto, l’area è pronta per rendere: ora ha un valore”. 

Secondo il Codice forestale brasiliano, ogni proprietà rurale in Amazzonia deve mantenere una percentuale di vegetazione nativa che può variare dal 50 all’80% a seconda di quanto territorio nello stato è protetto da parchi, riserve o terre indigene. Ma è una legge che in pochi rispettano lungo l’arco di deforestazione. Da queste parti, l’appropriazione illegale di terre pubbliche o private è un fenomeno diffuso. La pratica è antica e ha un nome curioso: grilagem, dal portoghese di grillo. Consiste nella creazione di documenti falsi, come la produzione di titoli di proprietà inesistenti, o di atti manipolati come la sovrapposizione di registri o l’alterazione di confini. Gli antichi falsari usavano mettere questi documenti in una scatola contenente grilli. Con i loro escrementi e il loro movimento, gli insetti invecchiavano artificialmente la carta, dando ai documenti un aspetto autentico e datato, di titoli di proprietà legittimi e antichi. Oggi il lavoro dei grilli è svolto in maniera più sofisticata con la complicità di funzionari pubblici corrotti che “legalizzano” la presunta proprietà. A quel punto i grileiros (i presunti proprietari) invadono fisicamente il terreno. Lo disboscano e lo trasformano in pascolo o in terreno coltivabile, in modo che abbia un’apparenza regolare e possa quindi essere venduto (con un buon ricavo). La successione è sempre la stessa: taglio selettivo, taglio raso, incendio, pascolo, piantagione. Grilagem non è solo un crimine di falsificazione di documenti, ma un complesso sistema di appropriazione illegale della terra che alimenta la deforestazione, la violenza e la corruzione.

D’accordo con i dati storici di MapBiomas, oltre il 97% della perdita complessiva di vegetazione in Brasile si è verificata per la pressione esercitata da allevamento e agricoltura su larga scala. L’allevamento bovino è di gran lunga il principale motore scatenante e uno dei fattori più impattanti sull’ambiente e sulle comunità locali. Molto diverso dagli allevamenti industriali europei, l’allevamento in Amazzonia è prevalentemente estensivo. Questo significa che i bovini pascolano su vaste aree di terreno: non ci sono stalle o complessi sistemi di alimentazione e gli animali si nutrono dell’erba che cresce sui pascoli ricavati dalla foresta. Un metodo estremamente economico in termini di costi diretti, l’investimento più importante per l’allevatore non sono gli animali in sé né le infrastrutture, ma la terra. Grazie a pratiche di riciclaggio del bestiame, una parte dell’attività avviene al di fuori delle normative ambientali e invade illegalmente le aree protette e le terre indigene. Animali allevati su terre illecite vengono poi spostati in allevamenti “puliti” prima di essere inviati ai macelli, rendendo difficile tracciare l’origine illegale della carne.

Il Brasile ospita oggi il più grande numero di capi di bestiame al mondo, con 214 milioni di animali. Di questi, circa il 40% si trova in Amazzonia, che è saltata da 20 milioni di capi nel 1988 agli oltre 80 milioni attuali. La crescita esponenziale del settore è direttamente correlata all’aumento della domanda globale di carne. 

Lo stesso aumento giustifica l’impennata avvenuta negli ultimi decenni nella produzione di soia, che ha un’origine interessante. Molti ricorderanno l’avvento della Mucca pazza, la grave malattia neurologica che colpì i bovini negli anni Novanta. Scosse profondamente l’industria alimentare e portò al decesso di milioni di animali, in parte affetti dalla malattia e in parte abbattuti nel tentativo di contenerne la diffusione. La causa principale della patologia fu individuata nella comune pratica (come minimo astrusa) di nutrire degli erbivori con prodotti per carnivori. In quegli anni infatti, i bovini da allevamento erano nutriti con farine animali, ottenute dalla macellazione e lavorazione di carcasse di animali, inclusi scarti di bovini stessi. Al cannibalismo forzato, i bovini risposero con una malattia neurologica che li faceva scalciare violentemente, ribellarsi, non produrre più latte, digrignare i denti per il dolore e perdere la coordinazione motoria fino alla morte.

Con il divieto delle farine animali, l’industria dell’allevamento si è trovata di fronte a una massiccia carenza di fonti proteiche economiche ed efficienti per i mangimi, finché la soia è emersa come alternativa migliore, ricca di proteine vegetali e facilmente coltivabile su larga scala. Per soddisfare la domanda crescente, i paesi produttori di soia, in primis il Brasile ma anche Argentina e Paraguay, hanno intensificato la loro produzione, molto spesso sostituendo con la monocultura foreste e savane native. Il Brasile è diventato così il primo produttore mondiale di soia, superando gli Stati Uniti nel 2020. Oggi, il 75% della leguminosa è destinato alla produzione di mangimi per l’allevamento intensivo di bestiame (suini, bovini, avicoli) e l’aumento del consumo di carne a livello mondiale ha spinto la domanda a livelli senza precedenti.

“Oltre il 97% della perdita complessiva di vegetazione in Brasile si è verificata per la pressione esercitata da allevamento e agricoltura su larga scala”.

Sebbene l’allevamento bovino, la produzione di soia e l’estrazione di legname siano al giorno d’oggi i principali responsabili, altre attività umane contribuiscono alla rovina dell’Amazzonia. L’estrazione mineraria – legale o illegale – di oro, ferro, bauxite, stagno, nichel e manganese porta il disboscamento massiccio per creare miniere a cielo aperto, strade di accesso e campi per i lavoratori. Porta inquinamento per l’uso di sostanze chimiche tossiche come il mercurio o il cianuro che, usati per separare l’oro dai sedimenti, contaminano gravemente fiumi, suolo e aria, avvelenando la fauna e le comunità locali e indigene. Spesso associate alla criminalità organizzata, alla violenza e allo sfruttamento del lavoro, le miniere clandestine, conosciute come garimpo, operano senza controlli ambientali o sociali. Secondo l’Istituto di ricerca IMAZON, in Amazzonia ne esistono più di 80.000 che colpiscono direttamente almeno 140 territori indigeni. Nell’Amazzonia brasiliana il fenomeno è presente ovunque ma è più concentrato in alcune regioni, come quella del Tapajos nello stato del Parà e della Terra indigena Yanomami nello stato di Roraima, dove mi trovo in questo momento. Centinaia di chilometri di fiumi e foreste e giorni e giorni di navigazione separano il mio villaggio dal territorio Yanomami, eppure non è raro ascoltare tra i giovani di questa regione le storie di chi è tornato dal garimpo o i piani logistici di chi sogna di andarci. A cercar fortuna.

Loretta Emiri lavora con gli indigeni Yanomami dal 1977. È italiana, antropologa, attivista per i diritti indigeni e autrice di diversi testi tra cui un vocabolario yanomami-portoghese. I suoi racconti sono sempre strazianti e i suoi ricordi vanno indietro nel tempo, a partire da quando, nel 1987, quarantamila cercatori d’oro invasero il territorio Yanomami. “Le autorità isolarono completamente gli indigeni dai loro alleati – racconta – impedendo così a chiunque di assistere a ciò che stava accadendo. Le piste di atterraggio clandestine proliferarono. Piccoli aerei trasportarono migliaia di uomini nel territorio. Col tempo, la stampa locale e nazionale iniziò a riportare notizie di malattie, epidemie e morti di indigeni avvelenati dall’acqua contaminata dal processo di estrazione dell’oro o assassinati dalle armi da fuoco degli invasori. La situazione assunse le proporzioni di un genocidio. La minaccia di estinzione del popolo Yanomami, fino ad allora latente, divenne una dura realtà”. In risposta alle invasioni, nel 1991 lo Stato creò un’area protetta intorno alle comunità, garantendo agli indigeni il diritto all’uso esclusivo di quasi dieci milioni di ettari del loro territorio ancestrale. Tuttavia, la ratifica non garantì la cessazione delle continue, costanti e sistematiche invasioni del loro territorio. “Recentemente si è celebrato il trentesimo anniversario della creazione della Terra Indigena Yanomami, trent’anni passati tra invasioni minerarie, SOS per la sopravvivenza fisica e culturale degli indigeni, epidemie, morti, malattie, avvelenamento da mercurio, stupri, espulsioni regolari dei minatori e nuove invasioni.” Sono del 2023 le immagini di bambini e adulti Yanomami colpiti da malnutrizione e malattie e la conseguente dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica da parte del governo brasiliano. Un disastro umanitario e ambientale causato da nuove invasioni dei cercatori d’oro, entrati nel territorio indigeno con potenti macchinari e con uomini pesantemente armati, legati al crimine organizzato. 

La ricerca dell’oro ha influenzato la storia della colonizzazione dell’Amazzonia fin dall’arrivo degli europei, che per secoli hanno cercato l’Eldorado. In tutto il pianeta e nel corso della storia, si stima che siano state estratte 208.800 tonnellate d’oro, di cui circa due terzi solo negli ultimi 70 anni. Ne resta ben poco, forse un massimo di cinquanta mila tonnellate, sempre più difficili da trovare e con costi di produzione e ambientali sempre più alti. Di conseguenza, il prezzo dell’oro sul mercato internazionale è in continuo aumento e nella sola Amazzonia brasiliana l’area danneggiata dall’attività è triplicata in vent’anni.

Grandi riserve di petrolio e gas naturale sono state scoperte e continuano ad essere sfruttate in diversi paesi del bioma, tra cui Ecuador, Perù, Colombia, Bolivia, Guyana e, in misura minore, anche in Brasile (che però pianifica l’esplorazione di nuovi giacimenti nelle zone costiere prossime alla foce del Rio delle Amazzoni). Le fuoriuscite di petrolio e gli scarichi di acque reflue possono causare gravi contaminazioni di suolo, fiumi e falde acquifere. Gli esempi non mancano, come i recenti sversamenti di greggio pesante che in Ecuador hanno contaminato gravemente i fiumi Coca e Napo, affluenti del Rio delle Amazzoni. Migliaia di persone sono rimaste senza accesso all’acqua potabile, e le attività di pesca, necessarie alla sopravvivenza, sono state interrotte. L’alta viscosità del prodotto lo fa aderire facilmente a superfici, rocce, vegetazione e animali, rendendo la pulizia estremamente difficile e costosa. Le operazioni di bonifica sono molto complesse e gli inquinanti possono rimanere nell’ambiente per anni, danneggiando irreversibilmente gli habitat e l’ecosistema.

Inoltre, così come per l’avanzamento dell’agrobusiness, le estrazioni minerarie richiedono la costruzione di infrastrutture. Strade, ferrovie, porti, piste di volo, gasdotti e dighe idroelettriche non solo comportano disboscamento diretto per la loro realizzazione, ma aprono l’accesso a zone remote della foresta rendendola più vulnerabile alle invasioni.

“La ricerca dell’oro ha influenzato la storia della colonizzazione dell’Amazzonia fin dall’arrivo degli europei, che per secoli hanno cercato l’Eldorado. A causa della sua recente scarsità, il prezzo del metallo prezioso sul mercato internazionale è in continuo aumento e nella sola Amazzonia brasiliana l’area danneggiata dall’attività mineraria è triplicata in vent’anni”.

Nella Pan-Amazzonia – la regione biogeografica che comprende l’intero bacino amazzonico e si estende su nove paesi del Sud America – vivono 47 milioni di persone, di cui circa il 40% sotto la soglia di povertà stabilita dalla Banca Mondiale. Più del 74% della popolazione in Amazzonia abita ormai in contesti urbani, molto spesso periferici e di favela. Circa l’86% dei comuni amazzonici non dispone di un servizio di trattamento fognario; il difficile accesso all’acqua potabile e la carenza di servizi igienico-sanitari adeguati sono altrettanto comuni. L’esigenza di sviluppo della regione è un fatto. Come pure è un fatto che il modello di sviluppo applicato finora non abbia portato i risultati sperati.

Da qualche anno lavoro a un progetto di riforestazione nello stato brasiliano del Maranhão, in pieno arco di deforestazione. L’economia della regione include l’industria metallurgica, l’estrazione di legname, produzione di carbone vegetale e allevamento bovino; tuttavia, la coltivazione della soia predomina ed è in espansione. La sostituzione della foresta nativa con pascoli e campi è iniziata almeno 50 anni fa e non ha portato ricchezza, dato che lo stato presenta tra i più alti tassi di povertà e i peggiori indici di sviluppo umano di tutto il Brasile, inferiori a quelli di un paese subsahariano. Famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà sono onnipresenti nei villaggi e nelle comunità locali. La foresta che è rimasta è frammentata e scarsa. Alla domanda “avete mai visto la foresta?” un gruppo di ventenni coinvolti nel progetto di riforestazione mi ha risposto “no, mai”. Una ragazza ha detto con entusiasmo “io sì! una volta, da lontano, mentre passavamo in macchina”. A causa del taglio indiscriminato che altera gli equilibri ecosistemici e dell’uso improprio dei terreni che perdono fertilità, l’agricoltura familiare non genera reddito sufficiente e i pascoli non sostengono il bestiame. Con il suolo povero di nutrienti è necessario un intero ettaro per alimentare un bue, con il risultato che servono aree enormi per allevare pochi capi, che ingrassano male e sono magri come cani randagi. La maggior parte dei piccoli agricoltori vive in aree remote, spesso senza servizi pubblici di base né assistenza sanitaria o istruzione. Le difficoltà e la disuguaglianza di reddito li costringono all’esodo rurale: conviene abbandonare la terra, disboscata con grandi sacrifici ma ormai degradata e inutile, venderla o affittarla per la produzione di soia e migrare verso le città. Anzi, verso le periferie delle città. 

Da queste parti, l’agricoltura che funziona non è quella familiare, ma quella dei grandi proprietari terrieri che praticano un’agronomia meccanizzata e moderna che richiede studi, competenze specifiche e grandi capitali per garantire la costruzione di silos e l’uso di pesticidi e fertilizzanti distribuiti con piccoli aerei. Non è affare per genti amazzoniche. Infatti, i grandi produttori di soia hanno cognomi italiani e arrivano dal sud del Brasile. 

I giovani locali non conoscono altri modelli di sviluppo e, inoltre, chi cerca di proporne rischia grosso. La violenza contro i difensori della terra e dell’ambiente in Amazzonia è una realtà drammatica. In Brasile, e specialmente lungo l’arco di deforestazione (la regione più pericolosa del paese), chiunque scelga di difendere la foresta rischia la propria vita. I dati sulla sicurezza pubblica riportati da Fatos da Amazonia dicono che il tasso di omicidi in Amazzonia è raddoppiato negli ultimi vent’anni ed è nettamente superiore alla media nazionale. Diversi comuni hanno registrato nel 2023 tassi superiori a 70 omicidi per 100.000 abitanti, specialmente nelle aree interne dove la deforestazione avanza. Per avere un metro di paragone, in Italia il tasso è di 0,54. Il dato è confermato dall’organizzazione Global Witness che nello stesso anno ha posizionato il Brasile come secondo paese più pericoloso al mondo per i difensori ambientali. 

“La violenza contro i difensori della terra e dell’ambiente in Amazzonia è una realtà drammatica. I dati sulla sicurezza pubblica dicono che il tasso di omicidi è raddoppiato negli ultimi vent’anni ed è nettamente superiore alla media nazionale”.

Spesso la violenza interessa direttamente le comunità indigene e tradizionali che vivono ai margini dei fiumi. Il crimine organizzato usa da tempo le idrovie amazzoniche come rotte preferenziali per movimentare il traffico di narcotici provenienti dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia, approfittando della complessa rete di fiumi e foreste che facilita il trasporto di sostanze illecite.

Le comunità lungo le rotte sono sempre più esposte alla violenza, e aumenta il rischio che i giovani siano coinvolti nelle attività criminali come mezzo di sussistenza.

L’istituto brasiliano Città Sostenibili, nel suo programma di indicatori per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, fornisce dati allarmanti sull’età media di chi muore in Amazzonia. Mentre nel ricco sud del Brasile l’età media al momento della morte può raggiungere gli 80 anni, all’altro estremo della scala si trovano i comuni amazzonici, che occupano le ultime posizioni con età medie tra i 29 e i 39 anni.  

Nello scorso numero di questa rubrica mi sono chiesta se il collasso dell’Amazzonia, previsto da molti modelli predittivi in 15 anni, sia inevitabile. “Per formulare una risposta – scrivevo – dobbiamo partire dalle cause della distruzione”. Cause che ora possiamo individuare grossolanamente nella domanda globale di legno pregiato, carne, mangime per gli allevamenti, oro e petrolio. Oltre all’aumento delle temperature globali (di cui abbiamo parlato nello scorso numero) e alla povertà diffusa nella regione. Nel prossimo numero parleremo delle soluzioni possibili, di quelle già in atto e dei cambiamenti necessari perché l’obiettivo di mettere in sicurezza la maggiore foresta tropicale del pianeta diventi raggiungibile. Prima che sia troppo tardi.

Foto in copertina: Richard Mosse, Still da “Broken Spectre”, RondôNia, Multispectral Gis Aerial ©️ Richard Mosse

Emanuela Evangelista

Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, è impegnata da 25 anni nella difesa dell’Amazzonia, della sua biodiversità e dei suoi popoli. Specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, è membro SSC dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. È presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti. Vive nel cuore della foresta, in un piccolo villaggio sulle rive di un fiume, in una regione remota e abitata da popolazioni indigene e tradizionali. Il suo lavoro e i risultati delle sue ricerche hanno contribuito alla protezione di 600.000 ettari di foresta intatta, un’estensione pari a due terzi della Corsica. Per il suo impegno è stata insignita dal Presidente della Repubblica della carica di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il suo primo libro Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta (Laterza, 2023) ha vinto il premio Campiello Natura 2024.

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