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Caterina Orsenigo
Sarà la Cina a salvare il mondo?

Sarà La Cina A Salvare Il Mondo?
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Dopo il ritiro degli USA e l'indebolimento dell'Europa, tra auto elettriche, pannelli solari e diplomazia climatica le sorti della transizione ecologica globale sembrano passate in mano al Partito Comunista Cinese.

Quando sono arrivata a Shanghai, una mattina dell’estate appena passata, la prima cosa che ho notato è stato il silenzio. C’erano le voci, una piacevole caoticità nell’aria, ma mancava il rumore di fondo. L’uscita della metro dava su una strada a troppe corsie perché venisse voglia di attraversarla, eppure le automobili non si sentivano: erano tutte elettriche. Motorini dall’aspetto vecchio e sgangherato salivano e scendevano dai marciapiedi portando in sella passeggeri senza casco e sfiorando i pedoni nella loro corsa, ma tutto questo lo facevano in silenzio. Niente a che vedere con la Cina in cui ero stata nel 2016, alla fine di un viaggio lungo la Transiberiana e attraverso il deserto dei Gobi: quella volta, dopo tanto silenzio, ero arrivata in una Pechino piena di motori e dall’aria irrespirabile. Sono passati meno di dieci anni ed è cambiato tutto. Secondo il portale svizzero MDPI, “nel 2023 le concentrazioni urbane in Cina di PM2.5, PM10, SO₂, CO e NO₂ sono diminuite rispettivamente del 58%, 55%, 78%, 60% e 50% rispetto ai livelli del 2013”. È tantissimo. Non vuol dire che ora l’aria sia perfetta, anzi, ma c’è stata un’inversione di rotta sbalorditiva e in pochissimo tempo. L’impressione è che un giorno qualcuno abbia schioccato le dita e tutti i produttori di automotive, i concessionari, i meccanici del Paese abbiano all’unisono modificato il loro business. Non è andata proprio così, ma poco ci manca, e il risultato di questa trasformazione apparentemente repentina ci riguarda per due motivi. Il primo è che, se lo sta facendo un’economia grande come quella cinese Cina allora possiamo farlo anche qui. Il secondo è che tutto ciò ha portato a un cambiamento infinito e profondo di prospettive, pesi, ruoli sullo scacchiere geopolitico globale. 

Nel 2019 il protagonista della transizione sembrava fosse l’Occidente. Europa, Stati Uniti, Canada. Era l’Europa con le piazze invase dai cortei di Fridays for Future, l’Europa del Green Deal, l’Europa che nel 2019 ospitava la Cop 25 a Madrid e nel 2021 la Cop 26 a Glasgow. Quella stessa Europa che ora sulla transizione fatica a mettersi d’accordo, che è arrivata alla Cop 30 di Belem con gli obiettivi climatici da qui al 2040 approvati al ribasso e in fretta e furia pochi giorni prima.

Dall’altra parte dell’oceano ci sono gli Stati Uniti, che per anni hanno finanziato i più importanti centri di ricerca sul cambiamento climatico, dall’Ipcc in poi, e che con Biden avevano promulgato una sorta di Green New Deal, l’Inflation Reduction Act nel 2022, e ora in pochi mesi si sono allontanati dal tavolo, hanno smantellato tutto quello che potevano smantellare, licenziato scienziati, ritirato fondi e finanziamenti. Trump è al governo da meno di un anno e sembra lì da un’epoca. 

Ora il testimone della transizione energetica globale – e dunque di guida verso il futuro – è passato alla Cina. A fine settembre, mentre Trump diceva al mondo che la crisi climatica è una bufala, Xi Jinping si poneva pacatamente e fermamente come leader globale della lotta al cambiamento climatico, invocando una “fiducia incrollabile” in transizione verde, multilateralismo e cooperazione, giustizia sociale e responsabilità. 

Sembra accaduto tutto in poco tempo, ma ovviamente non è così. “La prima robusta presa di coscienza della necessità di affrontare le problematiche ambientali sono arrivate con le Olimpiadi di Pechino, nel 2008. Nei mesi precedenti ai giochi i livelli di smog erano altissimi, il governo dovette prendere provvedimenti drastici. Da allora è stata attuata una politica molto spinta sul contrasto delle esternalità negative di uno sviluppo economico intenso”, mi racconta l’economista Francesca Spigarelli, docente all’Università di Macerata e tra le principali esperte italiane di Cina e politiche industriali. “La Cina è oggi il paese che inquina ed emette di più (come paese, non a livello pro capite), ma anche quello che più investe per migliorare”.

Il primo obiettivo è stato quello di ripulire l’aria e l’acqua, ma presto è stato chiaro che bisognava andare alla sostanza e dunque alle emissioni di CO2. Nel 2009 veniva lanciato il programma “Ten Cities, Thousand Vehicles”, che mirava a promuovere i veicoli elettrici e ibridi nelle città, coinvolgendo dieci città pilota e almeno mille veicoli ciascuna, con l’obiettivo di creare un mercato iniziale per i veicoli a basse emissioni e stimolare l’industria nazionale delle auto elettriche. “Poi con il dodicesimo piano quinquennale è partita la strategia della Cina per diventare paladina della transizione” spiega Spigarelli. Ora per le aziende l’inquinamento è considerato reato penale, non solo amministrativo; in agricoltura è stato regolamentato l’uso di pesticidi e, vista la penuria d’acqua, è gravissimo sia sprecarla che inquinarla; le auto nelle grandi città sono, appunto, tutte elettriche. I risultati sono sorprendenti soprattutto per quanto riguarda le rinnovabili: in 20 anni il loro peso nel mix energetico è più che triplicato e solo nel 2024 la Cina ha investito 625 miliardi di dollari nel settore, pari al 30% del totale mondiale. Dal 2022 al 2024 la capacità solare ed eolica è più che raddoppiata, passando da 635 a 1.408 GW. Il peso del carbone resta il più alto del mondo (58%) ma è diminuito del 16% negli ultimi vent’anni.

La storia delle auto elettriche corre in sintonia con la presa di consapevolezza e attenzione ecologica, ma ha una storia in parte indipendente dalla crisi ambientale. L’industria automobilistica tradizionale, infatti, in Cina non era mai riuscita a decollare: non potendo competere con i grandi produttori internazionali di auto a motore termico, si decise di puntare su una tecnologia nuova e – loro lo avevano già capito, qui non lo abbiamo capito nemmeno ora – vincente. Come mi ha raccontato ancora Spigarelli, in una prima fase, cominciata appunto nel 2009, la Cina ha incentivato l’ingresso di molti operatori nel mercato dei veicoli a nuova energia, favorendo la nascita di centinaia di marchi. Successivamente, lo Stato ha ridotto i sussidi e alzato gli standard di qualità, spingendo il settore verso una selezione naturale: solo le imprese capaci di produrre in scala, innovare ed esportare sono sopravvissute. Tra il 2018 e il 2025 molte aziende sono scomparse o si sono fuse. Oggi restano circa centrotrenta marchi e nel lungo periodo se ne prevede la sopravvivenza di una quindicina; tra i vincitori spiccano BYD e CATL.

“A fine settembre, mentre Trump diceva al mondo che la crisi climatica è una bufala, Xi Jinping si poneva come leader globale della lotta al cambiamento climatico, invocando una “fiducia incrollabile” in transizione verde, multilateralismo e cooperazione, giustizia sociale e responsabilità”. 

La pianificazione economica ed ecologica cinese non è poi così diversa da ciò che proponeva alcuni anni fa un’economista non certo socialista come Mariana Mazzucato. Negli anni Cinquanta, osservava Mazzucato in Missione Economia (Laterza, 2021), gli USA stimolarono la “corsa allo spazio” partendo dal pubblico e portandosi dietro il privato, ed è proprio lo stesso meccanismo che servirebbe oggi: una corsa al clima. È quello che ha fatto la Cina: sulle auto, creando quasi da zero una nuova industria, e in altri settori come quello energetico attraverso un enorme piano di riconversione industriale di ampio respiro che guarda fino al 2049.

Il 22 settembre 2020, durante il Summit annuale per il Clima, Xi Jinping si rivolse in videoconferenza all’’Assemblea Generale delle Nazioni Unite esplicitando per la prima volta le proprie intenzioni: “La Cina aumenterà i propri NDC adottando politiche e misure più vigorose. Il nostro obiettivo è raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030 e la neutralità carbonica prima del 2060”. 

Lo storico ed economista britannico Adam Tooze insegna alla Columbia University ed è tra i più autorevoli interpreti delle dinamiche che legano economia globale e potere politico. Da anni lavora a un libro sulla transizione ecologica che dovrebbe esplorare le dinamiche globali di energia e potere e le strategie di Pechino nel contesto economico e geopolitico mondiale. In un articolo..
in un articolo su Foreign Policy del 25 settembre 2020, How Xi Just Saved the World, osservava che “con queste due brevi frasi il leader cinese potrebbe aver ridefinito le prospettive future dell’umanità” e commentava lapidario, già cinque anni fa: “La presunzione che si sente ancora dai veterani della diplomazia climatica statunitense è che il mondo stia aspettando che l’America torni al tavolo delle trattative e che nessun accordo importante come quello di Parigi del 2015 sia concepibile senza gli Stati Uniti. […] Se gli Stati Uniti aderiranno al processo di decarbonizzazione, sarà un’ottima cosa. Ma l’era in cui gli Stati Uniti erano la voce decisiva è finita. La Cina e l’Europa si stanno sganciando”. 

Allora l’Europa ricopriva ancora il ruolo di chi accoglieva con favore l’impegno di Xi: era l’Europa a far da padrone di casa quando si parlava di clima stimolando gli altri paesi a fare meglio, facendo la voce grossa con chi faceva troppo poco. Sono passati cinque anni, la Cina è andata avanti per conto suo, mentre l’Europa non è riuscita in nessun modo a “sganciarsi” dagli Stati Uniti, anzi: si è lasciata travolgere dall’ingiunzione di Trump di spendere in armi e gas statunitensi anziché in politiche sociali e climatiche, un suicidio annunciato.

In un articolo pubblicato su Financial Times nel dicembre 2024, Adam Tooze aveva infatti cambiato opinione: “In misura diversa, sia l’Europa che gli Stati Uniti non sono riusciti a cogliere la sfida della decarbonizzazione individuata dai propri scienziati decenni fa. Se deve esserci un leader globale in materia di clima, ora può essere solo la Cina, responsabile di oltre il 30% delle emissioni globali e che ha padroneggiato la catena di approvvigionamento dell’energia verde. […] Se il Partito Comunista Cinese riuscirà a raccogliere la volontà politica necessaria per prevalere sui propri interessi nel settore dei combustibili fossili […] non risolverà da solo la crisi climatica, ma rivendicherà una leadership a cui l’Occidente avrà fatica a rispondere”.

Oggi, nell’autunno del 2025, siamo proprio qui. A fine settembre Xi ha detto all’Onu e al mondo di voler assumere quel ruolo – o anzi: ha comunicato di averlo assunto, e in questi giorni la Cop 30 si svolge in Brasile, uno degli assi di questo nuovo equilibrio geopolitico sempre più spostato a sud, sempre più plurale: si può decidere di partecipare, o di sparire.

Caterina Orsenigo

Caterina Orsenigo è scrittrice e giornalista. È laureata in filosofia a Milano e in letterature comparate a Parigi. Scrive di immaginari e crisi climatica per diversi giornali e riviste. Con Prospero Editore ha pubblicato il romanzo di viaggio Con tutti i mezzi necessari. Organizza passeggiate letterarie con l’associazione Piedipagina e fa parte del comitato organizzativo del corso di perfezionamento in Ecosocialismo dell’Università Bicocca.

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