A fine giugno Venezia è stata bloccata per il matrimonio di Jeff Bezos e Laura Sanchez. Mentre chi ha i soldi pensa che basti pagare, cittadini e organizzazioni internazionali hanno protestato. Scontandone le conseguenze.
A fine giugno il nostro Paese è stato teatro di un simpatico gioco – di ruolo e di potere – di cui vi presentiamo brevemente le principali caratteristiche.
Periodo storico
Capitalocene, collasso climatico al primo stadio, anno 2025. L’ondata di calore che tra il 23 giugno e il 2 luglio si è abbattuta sull’Europa ha causato migliaia di morti, di cui 500 solo a Milano e Roma – bilancio triplicato dal riscaldamento globale.
Location
Venezia ha la forma di un pesce, sostiene Tiziano Scarpa. Un pesce che per fortuna di solito sta sopra l’acqua, ma che recentemente ci è andato spesso sotto. Le maree eccezionali, quelle più alte di 140 centimetri, si sono verificate 25 volte nell’ultimo secolo. Di queste, però, 16 sono avvenute nell’ultimo ventennio. A metà novembre 2019 ce ne sono state quattro nella stessa settimana. Da allora non si sono più verificate per via del Mose, un muro mobile che esce dall’acqua e che – a causa dell’innalzamento del mare – si è reso necessario già nel 2020 (non nel 2050). “Vista da lontano Venezia sembra una piattaforma petrolifera”, scrive Stefano Liberti in Tropico Mediterraneo (Laterza, 2024). “Invece è la sua nemesi: la struttura non serve all’estrazione di idrocarburi, ma ad analizzare gli effetti negativi di questa estrazione.”
Protagonisti
Jeff Bezos: quarto uomo più ricco al mondo con un patrimonio da oltre 230 miliardi di dollari. Fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post. Nel 2020 avrebbe potuto dare 100.000 dollari a ogni singolo dipendente Amazon e tornare al suo patrimonio pre-Covid.
Lauren Sanchez: giornalista, pilota di elicotteri, turista spaziale, come seconda scelta a Marte ha deciso di celebrare il suo matrimonio con Bezos a Venezia.
Invitati d’onore: Kim Kardashian, Orlando Bloom, Oprah Winfrey, la figlia del presidente statunitense Ivanka Trump, il marito sostenitore della lobby delle armi e delle colonie in Cisgiordania Jared Kushner, l’attore Leonardo di Caprio, che tenta di nascondere con un cappellino quello che rimane del suo ambientalismo.
Collettivi e gruppi della Laguna, animati perlopiù da giovani: No Space for Bezos, Extinction Rebellion, Greenpeace, Everyone hates Elon.
Forze dell’ordine: sprovviste di volanti e camionette ma armate di peculiari mezzi d’acqua.
Abitanti di Venezia: i pochi che rimangono.
Turisti: in preda al caldo e all’ossessione di filmare tutto
La storia
La prima mossa l’ha fatta Bezos, decidendo di celebrare il suo matrimonio nella città fronte della crisi climatica, a cui lui stesso contribuisce copiosamente.
Quello tra Bezos e Sanchez non è nemmeno un vero e proprio matrimonio, dato che i due si sposeranno con una celebrazione meno appariscente negli Stati Uniti, dove vivono. È più una festa della fine del mondo.
Comitati e collettivi della Laguna non ci stanno e decidono di appendere un grande striscione “No Bezos” al Campanile di San Giorgio, lanciando un’assemblea pubblica a Campo San Giacometto che dà inizio a un percorso partecipato.
Dieci giorni dopo attivisti e attiviste di Greenpeace Italia e del gruppo britannico Everyone Hates Elon srotolano uno striscione di 400 metri quadrati con la scritta: “If you can rent Venice for your wedding, you can pay more tax” (“Se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, allora puoi pagare più tasse”).
Già per il ricevimento iniziale in Campo della Madonna dell’Orto la viabilità viene chiusa in tutta la zona, riservando di fatto un pezzo di città al matrimonio. Matrimonio che nell’ordinanza emanata dall’amministrazione di Brugnaro viene descritto come “evento di rilevanza internazionale”.
Quello che è di rilevanza internazionale è sicuramente l’impatto ambientale, con oltre 90 jet privati e 10 yacht in arrivo in Laguna: il M’Brace di Michael Jordan a San Basilio, l’Arience di Bill Miller, tra i primi investitori di Amazon, alla Punta della Dogana, il Kismet del miliardario statunitense Shahid Khan alla Stazione Marittima. Vengono considerati però “obiettivi sensibili” e portati via dal cuore della città i due megayacht di Bezos e Sanchez, che con i sette figli dei precedenti matrimoni sono costretti a ripiegare sul più modesto hotel Aman da 16.000 euro a notte sul Canal Grande.
Quello tra Bezos e Sanchez non è nemmeno un vero e proprio matrimonio, dato che i due si sposeranno con una celebrazione meno appariscente negli Stati Uniti, dove vivono. È più una festa della fine del mondo.
Il 26 giugno, durante il primo dei tre giorni del pomposo matrimonio, 43 attivisti di Extintion Rebellion e 2 passanti sono stati sottoposti a stato di fermo. Ricevono 8 denunce per manifestazione non preavvisata, 39 denunce per non aver osservato i provvedimenti dell’autorità, 18 daspo dal comune di Venezia, 3.600 euro di multa. Sembra il bilancio di un tentato assalto a qualche palazzo del potere, ma si tratta un flash mob del tutto pacifico: due figure in abiti nuziali tengono al guinzaglio davanti alla basilica di San Pietro un pianeta e delle persone accucciate, che rappresentano “i governi, i media, l’economia e la giustizia”. Sui cartelli dei manifestanti si legge “Bezos porta ricchezza ma domani tu sarai ancora precario”, “con i soldi di questo matrimonio si può ricostruire Gaza” e “guerra sulla terra, affari sulla luna”. L’azione dura pochi minuti prima che intervengano poliziotti, vigili e militari. Gli attivisti vengono trascinati di peso, trattenuti per diverse ore dentro il cortile degli uffici della polizia e infine trasportati in questura su un mezzo d’acqua, dove i due sposi del “matrimonio di protesta” ancora in abiti eleganti si godono un tour alternativo dei canali.
Dopo tre ore, Marco Giolo, l’attivista rimasto appeso a uno dei tre “pili” portabandiera davanti alla basilica di San Marco, tocca terra. È stremato dal caldo e dalla sete e crolla tra le braccia degli agenti che lo portano via. “Ho trent’anni e sono un veneziano – dice – non riusciamo più ad andare avanti con la vita.” Molti passanti lo applaudono, altri fischiano. “La città non è rappresentata da quei quattro che mettono gli striscioni”, dice uno di loro. “Se sentono la necessità e hanno il tempo di farlo con questo caldo, che lo facciano”. Una frase con la stessa ironia di quando la sede del Consiglio regionale del Veneto venne allagata dall’acqua alta pochi minuti dopo aver respinto una mozione sulla crisi climatica.
La polizia ferma anche due passanti che non stavano prendendo parte all’azione e la persona che stava facendo le riprese, Elisa Zanoni, che viene buttata a terra nonostante chieda più volte agli agenti di fare piano perché ha una caviglia slogata e fasciata. “Il matrimonio di Jeff Bezos e dei suoi 250 invitati ultraricchi nella città simbolo della crisi climatica è uno dei paradossi del nostro tempo, mentre la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi super miliardari sta influenzando l’intero sistema globale, condizionando i governi, i media, minacciando le democrazie e aggravando la crisi ecoclimatica, di cui Venezia è un triste simbolo tangibile”, dice Zanoni.
La repressione di un’azione a volto scoperto, in pieno giorno, che non bloccava la viabilità è ascrivibile al contesto, locale, nazionale e in parte internazionale: una serie di norme, normette e decreti. Il regolamento comunale di Venezia prevede infatti che in piazza San Marco non ci si possa sedere. Inoltre sulla piazza vige dal 2009 un divieto di manifestazioni di qualsiasi tipo, salvo autorizzazione (e non preavviso, come nel resto del Paese), che non sarebbe stata comunque concessa. Nel 2019 alla grande manifestazione contro le Grandi Navi è stata negata categoricamente la possibilità di accedervi. Qui si possono fare concerti, si può festeggiare la promozione in Serie A del Venezia calcio, ma non manifestazioni politiche non gradite. Il nuovo decreto sicurezza convertito in legge – o quel che ne rimarrà dopo la bocciatura della Cassazione – che punisce esplicitamente la resistenza pacifica, non fa che peggiorare la situazione come ha dimostrato il caso dei metalmeccanici di Bologna, denunciati per un corteo di diecimila persone (dopo un anno che chiedono un rinnovo del contratto).
Nelle ore in cui gli attivisti sono in stato di fermo, Bezos lascia la suite di 226 metri quadrati con affreschi e arredi firmati dal designer Jean-Michel Gathy e attraversa Venezia su un taxi d’acqua accompagnato da Sanchez, che indossa un’acconciatura arricchita da 175 mila cristallini, un nuovo anello con un diamante da 40 carati, gli orecchini con quattro brillanti tagliati da un’unica pietra e il braccialetto di perle con la sigla aggiornata LB. “Per noi”, dice la coppia, “è un nuovo inizio scritto dentro un sogno chiamato Venezia”.
C’è chi Venezia però la sogna un po’ diversa. “In queste ore la città ha due facce. Da una parte c’è quella popolare della sagra sull’isola di Poveglia, animata dai giovani, dove la gente ha vinto la battaglia per poter recuperare uno spazio verde, sottraendolo alle speculazioni. Dall’altra c’è l’hotel Aman, affittato da Bezos e altri miliardari, a conferma dell’utilizzo della città come oggetto di consumo grazie alla concentrazione della ricchezza in poche mani. Io sto con la speranza di vita a Poveglia” A raccontare è il regista veneziano Andrea Segre, autore di Welcome Venice, documento-metafora sul destino della laguna consegnata all’overtourism. “L’emergenza collettiva”, dice, “è la concentrazione della ricchezza: è giusto che a Venezia si accenda un faro globale e che qui si costruisca una nuova resistenza, oltre che un’alternativa di vita per chi in questa città soffre. Se Venezia è il palcoscenico per l’esibizione del potere, lo sia pure per chi cerca giustizia.”
E così accade, in effetti: i media di tutto il mondo, impossibilitati a coprire l’evento blindato ed esclusivo, raccontano le proteste colorate e partecipate, che mettono pressione e ottengono qualche altro risultato. Le location inizialmente immaginate dai coniugi vengono cambiate e spostate dal centro: il primo party nuziale non si tiene più al Lido ma nel giardino con piscina di Villa Baslini, sull’isolotto di San Giovanni Evangelista. La cerimonia principale viene spostata dalla Scuola della Misericordia all’Arsenale.
È giusto che a Venezia si accenda un faro globale e che qui si costruisca una nuova resistenza, oltre che un’alternativa di vita per chi in questa città soffre. Se Venezia è il palcoscenico per l’esibizione del potere, lo sia pure per chi cerca giustizia.
“Il nostro non è un odio verso Bezos o di classe – che è anche legittimo – ma il tentativo di mettere il focus sul fatto che non si può disporre di una concentrazione così forte di denaro e potere, che influenza la democrazia, la giustizia, la tecnologia, senza avere un impatto sull’ambiente. Amazon non potrebbe esistere se rispettasse il principio Polluters pay”, ragiona Zanoni. “In questo c’è anche una differenza tra Extinction Rebellion e No Space for Bezos, cioè tra un movimento climatico e un collettivo di cittadini stufi di essere trattati come immondizia che si ribellano nel momento in cui l’ennesima persona ricca dispone della città a proprio piacimento”.
Mentre si svolge la cerimonia principale delle nozze, almeno 5.000 persone si ritrovano nel piazzale della stazione di Venezia per dare vita a un corteo colorato, dove le bandiere della pace e i gonfaloni di San Marco sventolavano insieme a quelle della Palestina.
Striscioni contro la guerra, cartelli per la pace o con scritte come “di male in Bezos” o “Kisses yes, Bezos no”, salvagenti colorati e paperelle galleggianti per una mobilitazione che nel centro di Venezia non si vedeva da tempo.
Tra le realtà aderenti, anche Amnesty International: “Siamo qui per monitorare la protesta”, spiegano. “Siamo molto preoccupati di cosa potrebbe succedere dopo l’approvazione del decreto sicurezza.”
I manifestanti vengono accompagnati dalla musica del collettivo Disco Zenith Laguna, così come durante le azioni in piazza erano stati supportati dalle proiezioni del gruppo Reclaim The Tech. Cantano Bella Ciao e il riferimento alla Resistenza non è casuale. “Il matrimonio di Bezos declinato come esibizione globale di un potere opaco – dice Enrica Berti, presidente della sezione Anpi «Sette Martiri» – è un’ingiustizia sociale, etica e morale”. Angelo, veneziano doc, è la prima volta che partecipa a un corteo. La politica, racconta, non lo aveva mai interessato prima.
“Abito vicino a Madonna dell’Orto, dove Bezos ha noleggiato un intero palazzo. Ieri sera stavo tornando a casa dal lavoro e ho trovato la polizia con le moto d’acqua e subacquei dentro il rio. A cento metri da casa, uno sbarramento di vigili mi ha impedito di passare. Non ho potuto andare a casa mia! Gli dicevo che abito da 40 anni ai piedi del ponte là davanti. Niente. Non mi hanno lasciato passare.”
È la Venezia che non si arrende e non si rassegna a diventare una Disneyland per ricchi e turisti. Venezia, come Firenze, per moltissimi versi non è più, da tempo, una città. E non appartiene a chi la vive, ma a chi la usa estraendone valore simbolico e rendita, secondo la più tipica logica estrattivista e petrolifera. Dal ponte di Rialto viene infine calato lo striscione “No Space for Bezos, No War”, proprio di fronte all’hotel Aman e al Comune. Il suo titolare, il sindaco Luigi Brugnaro, ha detto che Bezos “per Venezia può fare di tutto”. Il miliardario ha deciso, in linea con l’idea trickle-down dello “sgocciolamento” capitalista, di lasciar cadere le briciole dei propri sfarzi sulla città che ha noleggiato.
Nell’invito di nozze che ha inviato ai 200 Vip ha chiesto di non ricevere regali, ma donazioni all’ufficio Unesco di Venezia, al consorzio per le ricerche lagunari e alla Venice International University. “Venezia è parte della nostra storia. È un privilegio essere qui e contribuire, anche solo in parte, a preservare la sua bellezza per chi verrà dopo di noi.”
“Un evento di eccezionale rilevanza per l’Italia e per Venezia, con un impatto economico complessivo di circa 957,3 milioni”, ha sentenziato la ministra del Turismo Daniela Santanché. In realtà l’evento, stando ai dati dello stesso Ministero del Turismo, ha portato a “benefici” (il turismo è una delle forme più diseguali nella distribuzione della ricchezza) pari a 28,4 milioni di euro, e a una pioggia di disdette da parte dei turisti internazionali per quel weekend.
Venezia, come Firenze, per moltissimi versi non è più, da tempo, una città. E non appartiene a chi la vive, ma a chi la usa estraendone valore simbolico e rendita, secondo la più tipica logica estrattivista e petrolifera.
Tutto questo circo a Bezos, secondo alcuni calcoli sul suo patrimonio, è costato l’equivalente di 23 euro per un comune mortale. È difficile stabilire se Bezos abbia sconfitto i manifestanti nella partita veneziana, così come è difficile vincere nel videogioco You are Jeff Bezos, in cui i giocatori hanno il compito di spendere il suo patrimonio, impresa tutt’altro che facile. Basta il 10% di quella cifra mostruosa per raddoppiare lo stipendio di ogni dipendente Amazon nel mondo. Ma che fare con il restante 90%? Si potrebbe eliminare la povertà nel mondo, 22 volte.
Nel libro Il Magazzino (Codice, 2021), un’inchiesta sul più grande magazzino di Amazon in Italia, Alessandro Delfanti scrive che “l’azienda di Bezos deve gran parte del suo successo a manovre compiute durante tre crisi globali”: scoppio della bolla delle dot-com nel 2000, grande recessione del 2008 e pandemia, che ha avuto un duplice effetto ideale per Amazon: “ha fatto crescere in modo esponenziale il mercato dell’e-commerce e ha gettato nella disoccupazione altri milioni di lavoratori. […] All’inizio del 2021 la sua forza lavoro globale era aumentata del 62 per cento rispetto al 2019, e i profitti erano passati dai 280 miliardi di dollari del 2019 ai 380 miliardi del 2020.” Forse è arrivata l’ora per insistere su una tassa globale sui grandi patrimoni detenuti? In questo senso va una lettera scritta da sette Premi Nobel statunitensi a inizio mese.
Il più grande stabilimento di Amazon in Italia non è in Veneto, ma si trova comunque in un fulcro logistico della Pianura Padana: Piacenza, uno dei primi epicentri della pandemia. Il nome in codice del fullfilment centre di Piacenza è MXP5. Attivo ventiquattr’ore al giorno e sette giorni su sette, ci lavorano più di 3.000 persone. Ogni giorno, a pieno regime, è in grado di muovere fino a un milione di prodotti. Per anni la sua velocità ha fissato gli standard dei magazzini Amazon di tutta Europa, ma non è per questo che ha ottenuto la sua notorietà. I dipendenti che ci lavorano sono stati tra i primi al mondo ad affrontare a testa bassa l’Impero di Amazon. Il 24 novembre 2017 centinaia di lavoratori e lavoratrici di MXP5 hanno scioperato, finendo sulle pagine persino del Whashington Post, giornale di proprietà di Bezos. Il primo sciopero in MXP5 è coinciso con il Black Friday. Proprio quel giorno il patrimonio di Bezos ha toccato la cifra vertiginosa di 100 miliardi di dollari che, almeno in quel momento, faceva di lui l’uomo più ricco del mondo.
In Italia Amazon è già stata condannata per condotta antisindacale ed è stata coinvolta in varie inchieste per frode fiscale e caporalato. I giornali italiani hanno dedicato molti articoli ai giorni veneziani dei due miliardari, ma solo uno di questi è stato firmato da un direttore. Su Il Foglio, Claudio Cerasa non ha dedicato l’attacco del suo editoriale all’evento, ma ai giovani che esprimono pacificamente il proprio dissenso. “Manifestano tenendo stretto lo smartphone tra le mani” (forse Cerasa non sapeva che – per il rotto della cuffia – anche Venezia è giunta al XXI secolo). “Scrivono post indignati su server americani”. Intende i social? L’unico che i giovani impegnati ancora usano è Instagram, e sempre meno dal momento che oscura tutti i contenuti politici. “Organizzano i propri incontri attraverso app californiane.” Ecco questo no, ma non vorrei che Cerasa si incupisse ulteriormente introducendogli Telegram. “Combattono contro la dittatura degli oligarchi digitali utilizzando le piattaforme di cui l’azienda guidata dall’uomo che contestano offre loro il cloud per salvare i propri dati.”
È vero e problematico che Amazon Web Services fornisca spazio web e cloud a giganti come Netflix, Pinterest, Airbnb e Uber, ma Cerasa non sembra altrettanto preoccupato del fatto che, oltre a “prestare” indirettamente i suoi servizi ai nativi digitali, Amazon venda tecnologia di sorveglianza alle agenzie governative che organizzano la deportazione degli immigrati e offra i suoi cloud a eserciti in guerra, uno su tutti quello israeliano. Evidentemente il problema non è che il (ora ex-) CEO di Amazon insulti e licenzi i suoi dipendenti persino in ascensore, che la sua azienda si affidi a una forza lavoro estremamente precarizzata, che la registri e sorvegli in modo estremamente pervasivo, che la costringa a dormire nel parcheggio del magazzino o a fare pipì nelle bottigliette di plastica – il tutto con l’unico scopo di aumentare la velocità, dalla quale dipende il rinnovo del contratto dei dipendenti. Il problema sono i giovani che manifestano – nelle piazze o fuori dai magazzini – e che tengono gli smartphone in mano.
In un momento storico in cui chi inquina, sfrutta, specula, marginalizza sembra poter fare il bello e il cattivo tempo, le esperienze di Venezia e del Veneto hanno dimostrato che battersi per la propria terra e perché non le vengano imposte ulteriori ferite non solo paga, ma ne cura delle altre. E nel mentre crea comunità e convergenze tra segmenti della società sulla carta incompatibili.
A fine giugno le “mamme no Pfas”, il Coordinamento no inceneritori di Marghera e la cittadinanza tutta hanno ottenuto due vittorie distinte che attestano la devastazione di Eni. Le ferite aperte e le relative lotte per curarle sono però ancora tante, a partire dalla seconda linea dell’inceneritore. Ma anche la devastazione del bosco Lanerossi, il massiccio sfruttamento di risorse delle basi statunitensi sempre a Vicenza, e ovviamente la realizzazione degli ecomostri per le Olimpiadi invernali 2026, di cui la sola pista da bob ha causato l’abbattimento della stessa quantità di alberi degli ultimi 12 anni a Cortina.
Resta, però, l’interno della Laguna l’area che, a causa di decenni di industrializzazione dissennata, ha pagato il prezzo più caro in termini di vite umane e degrado ambientale. Ma la Laguna è anche il luogo dove la resistenza è più forte.
Movimenti internazionali, nazionali, regionali e locali convergono su battaglie comuni. Trovano respiro e supporto al Rivolta di Marghera, al laboratorio climatico Pandora di Mestre, al Morion di Venezia, al Paratod@s di Verona, al Pedro, a Radio Sherwood e all’omonimo incredibile festival a Padova, e a tutti quegli spazi e gruppi più difficili da mappare formati da giovani coetanei, al cui impegno è stato dedicato e affidato l’ultimo Festival della Politica di Mestre.
Il Comitato No Grandi Navi e il Venice Climate Camp hanno già portato a termine azioni dal peso e copertura mediatica enormi, come la definitiva estromissione delle enormi e pericolose crociere dalla Laguna, l’occupazione del red carpet della Mostra del Cinema di Venezia o il blocco della centrale a carbone di Fusina. Dall’azione dei centri sociali veneti, unita ad altre esperienze, è nata Mediterranea Saving Humans.
La Laguna di Venezia non soffre soltanto dell’eustatismo, l’innalzamento assoluto del livello del mare alimentato dalla crisi climatica, ma anche dell’abbassamento delle terre, la cosiddetta subsidenza. Quest’ultima è dovuta principalmente al cosiddetto “emungimento” delle falde acquifere sotterranee. Troppo a lungo si è estratta acqua sotto la città per l’iperindustrializzazione di Porto Marghera, facendo abbassare tutto l’impianto urbano già pericolosamente sull’orlo del precipizio. Dal 1950 al 1970 l’abbassamento medio del suolo su cui poggia Venezia è stato di circa 12 centimetri. Questa prassi, poi vietata, è la sua parola – emungimento – sono metafora di un sistema che sfrutta la terra a proprio piacimento senza (pre)occuparsi di chi ci vive sopra. La laguna di Venezia è stata munta, sfruttata, indebolita, circondata. Ma la resistenza non è affogata. Ancora si dice, nel mitico nord est, “duri i banchi”.