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Alessandro Volpi
Tassare le Big Tech in Europa è impossibile

Perché Tassare Le Big Tech In Europa È Impossibile Volpi Big Tech Web
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I colossi tecnologici americani vantano profitti miliardari nel mercato europeo dei servizi, ma versano imposte infinitesimali o nulle. Questa ingiustizia è protetta dai paradisi fiscali del Vecchio Continente e perpetrata dalle nostre élite politiche e finanziarie.

La dura politica daziaria esplicitata da Donald Trump in occasione del liberation day, il 2 aprile 2025, ha mostrato di avere tra i propri bersagli privilegiati l’Unione Europea, accusata dal presidente americano di aver prosperato sulle spalle dei consumatori statunitensi. Di fronte a tale accusa, e soprattutto ai pesanti dazi varati nei confronti del Vecchio Continente, l’UE ha obiettato, in realtà senza grande successo, che, a fronte di un disavanzo sul versante delle merci, gli Stati Uniti vantano però un altro ampio margine. 

Reciproche dipendenze e strategie fiscali

Secondo le stime della Commissione europea, infatti, il surplus degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione europea in materia di servizi nel 2024 è stato di 148 miliardi di euro. A questo dato bisogna aggiungere un’ulteriore specificazione: l’UE è il più grande mercato degli Stati Uniti per i servizi, sui quali registrano un surplus globale di circa 250 miliardi di euro. Dunque l’Unione europea è fondamentale per la tenuta del settore dei servizi statunitense, che costituisce circa i due terzi del PIL americano. Per contrastare l’aggressione di Trump, la strada più semplice sarebbe allora quella di introdurre limitazioni o forme di imposizione fiscale in questo ambito. Ma una simile strada è rischiosissima: potrebbe portare al congelamento della normativa varata dall’Unione (Digital Services Act e Digital Markets Act), e una tassazione vera sulle Big Tech americane è a oggi impossibile.

Prendiamo in esame il caso italiano. Le filiali italiane di Amazon, Meta, Microsoft e Alphabet hanno registrato fatturati annui nell’ordine di 6 miliardi di euro ma hanno dichiarato utili per soli 133 milioni. Come è possibile? La risposta è semplice. Le filiali italiane di questi colossi contabilizzano costi enormi che devono liquidare alla società madre europea con sede in Irlanda o in Lussemburgo, dove di fatto trasferiscono i profitti, lasciando in Italia le briciole, e dunque pagando le imposte in Irlanda e in Lussemburgo perché le aliquote sono bassissime. Pertanto fino a quando l’Unione europea avrà nei propri confini simili paradisi fiscali è difficile immaginare di imporre una tassazione ai colossi americani e, di conseguenza, attuare politiche di contrasto alle pretese di Trump. Del resto, per modificare le normative fiscali serve l’unanimità, dunque Trump e le Big Tech possono dormire sonni tranquilli. 

Aggiungo che quasi il 60% del risparmio gestito degli europei è investito negli Stati Uniti, attraverso la mediazione dei grandi fondi. Le sorti dei risparmiatori del Vecchio Continente hanno quindi bisogno che i listini e il debito Usa non crollino. Allora se il capitalismo finanziario a stelle e strisce accusa segni di grave crisi, è inevitabile che le classi dirigenti europee, responsabili della costruzione della finanziarizzazione sotto il dominio americano, corrano in soccorso delle loro Borse.

“Le filiali italiane di Amazon, Meta, Microsoft e Alphabet hanno registrato fatturati annui nell’ordine di 6 miliardi di euro ma hanno dichiarato utili per soli 133 milioni. Come è possibile?”

Un altro caso di evidente debolezza del sistema fiscale europeo è costituito da Amazon. Amazon Europa ha realizzato nel 2020 ricavi per 44 miliardi di euro e non ha pagato imposte. Ciò è dipeso da due fattori: dalla possibilità per Amazon di scegliersi la sede dove pagare le tasse e dalla struttura della corporate tax che riguarda i profitti societari. Il combinato disposto di questi due elementi ha fatto sì che Amazon sia riuscita a dichiarare perdite ed ottenere persino un credito fiscale pur essendo una delle società cresciute di più in pandemia. 

È interessante a questo riguardo chiarire come fa un simile colosso a evitare le tasse. La risposta è rintracciabile in uno schema fiscale molto semplice. Esiste una società di diritto lussemburghese, la Amazon Europe Holding Technologies SCS (AEHT), che ha il diritto legale di utilizzare la proprietà intellettuale di Amazon al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Dal momento che si tratta di una realtà giuridica prevista dall’ordinamento del Lussemburgo, denominata non-resident partnership, qualsiasi somma ricevuta da altre società del gruppo Amazon in cambio del diritto di utilizzare tale proprietà intellettuale è esente da imposte in Lussemburgo. Esiste poi una seconda società, Amazon EU Sarl, che gestisce le attività europee di Amazon e che paga alla AEHT centinaia di milioni di euro in “diritti di autore” per la proprietà intellettuale di intangibles sfruttati dalle società operative. Il costo dei canoni è deducibile dal reddito e va ad abbassare il reddito imponibile di questa società, e quindi la sua tassazione effettiva, che di fatto, per effetto delle perdite dovute ai pagamenti, non esiste. Il passaggio finale della strategia prevede il trasferimento dei canoni da AEHT alla società statunitense di Amazon. In altre parole, un Paese europeo permette che esista una società a cui vengono versati miliardi di euro senza che paghi imposte e che un’altra società, quella “reale”, gli versi miliardi di euro in canoni per abbattere artificialmente i propri profitti e quindi non pagare tasse. In pratica uno dei più grandi monopolisti del mondo opera nell’Unione Europea senza versare un euro grazie alle regole di un singolo Paese europeo. 

Paradisi fiscali di una finanza globale  

Sarebbe necessaria allora la fine dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione, a cominciare proprio da Olanda, Lussemburgo e Irlanda, che sottraggono agli altri membri, solo in termini di elusione fiscale, oltre 45 miliardi di euro all’anno. L’Olanda ottiene così il 30% del proprio gettito, attraendo in maniera artificiosa da altri paesi, non solo europei, circa 90 miliardi di euro. Il Lussemburgo attira 50 miliardi, da cui deriva il 54% delle proprie entrate fiscali. L’Irlanda invece il 65%, con 117 miliardi di euro all’anno. Per Malta questo sistema significa l’88% delle sue entrate fiscali complessive. Olanda e Lussemburgo, inoltre, attirano investimenti diretti esteri “fantasma” per oltre settemila miliardi di dollari, una cifra ben più alta di quelle stimate per tutti gli altri paradisi fiscali internazionali. Senza questi paradisi sarebbe decisamente più semplice introdurre forme di imposizione fiscale nell’ambito dei servizi digitali, in grado non solo di fare pressione sugli Stati Uniti, ma anche di migliorare le entrate dei vari paesi europei. 

Due sono le ipotesi di cui si parla da tempo: uno, un’imposta indiretta specifica sulle transazioni digitali, una sorta di accisa digitale, capace di drenare risorse da un gigantesco sistema di vendita di servizi; e due, un’imposta basata sui fatturati delle grandi piattaforme digitali nei vari paesi europei, con l’introduzione di un’aliquota da applicare ai ricavi. In questo secondo caso, se venissero smontate le condizioni di dumping fiscale dei paradisi interni all’Unione europea, il gettito garantito sarebbe assai rilevante, e altrettanto importante sarebbe quello proveniente dalle sanzioni derivanti dall’applicazione dei già ricordati Digital Services Act e dal Digital Markets Act, non a caso oggetto delle ire di Trump che li considera a tutti gli effetti provvedimenti ostili agli Stati Uniti.

Tutto ciò è assai complesso. C’è un passaggio in merito alle dichiarazioni fatte da Trump e Von der Leyen in merito al sistema dei dazi “reciproci” che ha dell’incredibile, ma serve a comprendere molte cose. Secondo entrambi l’Unione Europea si impegnerebbe a comprare entro il 2028 prodotti energetici americani per 750 miliardi di dollari: in pratica 250 miliardi all’anno. Due considerazioni. La prima, quantitativa. Nel 2024, peraltro anno record di acquisti, l’Unione europea ha comprato energia dagli Stati Uniti per poco più di 76 miliardi di dollari. Dunque, in base all’impegno preso, nei prossimi tre anni dovrebbe triplicare l’acquisto annuale. A ciò bisogna aggiungere che il totale degli acquisti di energia da parte dell’Europa è di poco superiore ai 400 miliardi di dollari: gli Stati Uniti ne diventerebbero quasi il solo fornitore. Sono numeri incredibili anche perché una quota importante di energia è trasportata da gasdotti e oleodotti o generata da altre forme di produzione. L’impegno preso da Usa e Ue dunque è irrealizzabile.

La seconda considerazione è ancora più spicciola. L’energia non è comprata dagli Stati, ma in larghissima parte dalle imprese; quindi, se l’accordo dovesse essere applicato sarebbe necessario che i governi imponessero – e non è chiaro come – alle aziende di comprare solo gas americano. Ma allora perché queste dichiarazioni? La spiegazione è semplice. Le grandi società che producono energia negli Stati Uniti sono nelle mani delle Big Three – BlackRock, Vanguard e State Street, i principali fondi finanziari planetari –, di un ristretto gruppo di grandi banche e di Berkshire, che hanno beneficiato, subito, delle dichiarazioni di Trump e Von der Leyen con un rialzo del valore dei loro titoli. In questo senso, Trump e Von der Leyen di fatto concordano nell’accrescere il valore dei grandi colossi finanziari: accade con le armi e accade con l’energia perché la vasta “clientela” dei grandi fondi e delle grandi banche, costituita da risparmiatori americani, europei e più generalmente “occidentali”, trae benefici dalla corsa dei titoli azionari e dei listini Usa e non può accettare misure che ne limitino l’espansione.

Finanza americana e finanza europea stanno dalla stessa parte.

Alessandro Volpi

Alessandro Volpi insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa. Si occupa di storia economica e culturale dell’Ottocento, con un particolare interesse per le tematiche finanziarie. Il suo ultimo libro è La guerra della finanza. Trump e la fine del capitalismo globale (Editori Laterza, 2025).

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