Storia e futuro dei movimenti per il clima, tra grandi speranze, durissime repressioni e rinnovata solidarietà.
La primavera, dai tempi di Rachael Carson, è sinonimo di un risveglio della consapevolezza ambientale. Il più significativo è sbocciato il 15 marzo del 2019, con il primo sciopero globale per il clima. Quel giorno scesero in piazza milioni di persone in un numero mai visto di Paesi in contemporanea, oltre centoventi. Se riusciremo a limitare il collasso climatico, quella data potrebbe essere ricordata come l’inizio del più grande movimento di sempre per affrontare la più grande crisi di sempre.
Da allora sono passati sei anni, almeno due guerre e una pandemia. Le istituzioni europee elette nel maggio del 2019, in un momento di slancio senza precedenti dei temi ambientali, hanno finito quel mandato, e adesso posizionano in cima all’agenda le politiche securitarie e il riarmo, verso cui vengono reindirizzati fondi per la coesione e la transizione ecologica.
In tutto ciò, come se la passano i movimenti per il clima? Per provare a rispondere, in questo primo articolo della rubrica “Mandamano”, ripercorriamo brevemente il percorso delle tre principali espressioni del più recente movimento climatico – Fridays For Future, Extinction Rebellion, Ultima Generazione.
La prima goccia della nuova marea fu indubbiamente Greta Thunberg, con una storia appetibile per i media – quindicenne con la sindrome di Asperger e genitori molto famosi in Svezia che un venerdì mattina decise di saltare la scuola e di sedersi da sola davanti al Parlamento – e con delle doti oratorie fuori dal comune, capaci di renderla in poco tempo voce di un’emergenza tanto cronica quanto afona. Il suo discorso tenuto nel dicembre 2018 davanti ai potenti della Terra alla Cop26 di Katowice era già un manifesto del movimento per la giustizia climatica che sarebbe venuto:
“Voi parlate solo di una infinita crescita della green economy, perché avete troppa paura di essere impopolari. […] La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare ad accumulare un’enorme quantità di profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. È la sofferenza di molti a garantire il benessere di pochi. Non possiamo risolvere una crisi se non la trattiamo come tale: dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza. E se le soluzioni sono impossibili da trovare all’interno di questo sistema significa che dobbiamo cambiare il sistema. […] Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”.
L’accusa di “star rubando il futuro” e l’arrivo di un possibile cambiamento passarono velocemente di bocca in bocca e, grazie ai social, arrivarono in tutto il mondo.
In Italia il primo presidio di venerdì venne organizzato a Pisa a fine dicembre, ma a inizio febbraio del 2019 eravamo ancora pochi ragazzini al freddo, sotto la pioggia, inconsapevoli dell’entità dell’onda di cui eravamo parte. Il 15 marzo, in occasione della mobilitazione internazionale di cui avevamo sentito parlare per la prima volta qualche settimana prima, a Torino avevamo previsto una partecipazione di circa duemila persone. Si presentarono in trentamila, milioni in tutto il mondo. Il movimento che a Genova 2001 era stato spezzato e spazzato via era nuovamente germogliato. Era nato Fridays For Future.

Mentre nell’Unione Europea Fff e i gemellati Youth For Climate, Juventud x el Clima e Klimastreik facevano il loro ingresso nel dibattito pubblico, al di là della Manica emergeva un movimento che a differenza dai primi non era nato spontaneamente ma da studi di sociologi, scienziati, esperti di creazione di cambiamento.
La premessa dei suoi fondatori era che fino ad allora niente era riuscito a innescare un cambiamento radicale: non le Conferenze delle Nazioni Unite sul clima (Cop), non le classiche manifestazioni, le grandi organizzazioni, le raccolte firme, i comitati. Non rimaneva che una possibilità, quella di ribellarsi in forma di disobbedienza civile non violenta basata su una bibbia del neonato movimento climatico, Why Civil Resistance Works. Le autrici, Maria J. Stephan ed Erica Chenoweth, sostengono che nei trecentociquantatré conflitti analizzati la non violenza abbia funzionato più della violenza e che quando nella storia si è riusciti a coinvolgere almeno il 3,5 per cento della popolazione di un Paese si è sempre vinto. “Respect existence or expect resistance”, è sempre stato il motto di Extinction Rebellion (Xr).
Nell’aprile del 2019, poche settimane dopo il primo sciopero globale, Xr dichiarò aperta ribellione al governo del Regno Unito. A Londra migliaia di persone bloccarono giorno e notte cinque snodi cruciali della città: Oxford Circus, Marble Arch, Waterloo Bridge, Piccadilly Circus e Parliament Square. La capitale era paralizzata. Si tennero dibattiti, assemblee pubbliche, flash mob e altri eventi mirati al coinvolgimento della cittadinanza. Molti altri, tra cui Greta, si misero in viaggio da tutta Europa per supportare la protesta. I presidi hanno portato alla chiusura temporanea delle filiali dei produttori di combustibili fossili, sbarrato le strade intorno al ministero del Tesoro, “congelato” la Borsa di Londra, piazzato una barca a vela rosa con su scritto “Dite la verità” davanti alla sede della BBC.
Fu coinvolta l’intera società, con scene emozionanti di lavoratori in sciopero che prendevano parte alle proteste o signore anziane che rifocillavano i manifestanti con tè e biscotti. Dopo aver arrestato più di 1200 persone – numeri da Martin Luther King – le forze dell’ordine non seppero più cosa fare con le altre decine di migliaia. Due settimane dopo Londra era in difficoltà e il suo sindaco, Sadiq Khan, con una nota ufficiale implorò i coordinatori del movimento di fermarsi. Al termine della prima fase di ribellione, il Regno Unito divenne il primo Paese a dichiarare lo stato di emergenza climatica ed ecologica. Nel frattempo il movimento si diffuse in tutti i continenti. Ci sono state azioni in Pakistan, Paesi Bassi, Stati Uniti, Cile, Ghana. Una rete di solidarietà internazionale è nata per sostenere gli attivisti in Papua Occidentale, Mongolia, Bangladesh, nei Caraibi.
“Il movimento che a Genova 2001 era stato spezzato e spazzato via era nuovamente germogliato. Era nato Fridays For Future”.
Nel 2019 avevo diciassette anni. Pensavo che se in poche decine di sfigati eravamo riusciti a portare in piazza migliaia di persone tra febbraio e marzo, e che se ad aprile Xr era riuscito a fare tutto questo, nell’arco di qualche altro mese avremmo dato vita a un movimento troppo grande per essere ignorato e avremmo semplicemente risolto il problema.
Alla prima assemblea nazionale di Fridays For Future, a Milano, passammo più di metà della prima giornata a capire come darci la parola.
Eravamo cinquecento persone che non si erano mai viste, giovani e non, provenienti da oltre centocinquanta città diverse.
Nel gruppo di Torino, all’inizio, c’erano perlopiù liceali, ma anche universitari, persone che già facevano parte di altre organizzazioni, militanti dei centri sociali, giovani del Partito Democratico, iscritti del Movimento 5 Stelle, No Tav, Sì Tav, persone come me senza alcuna esperienza politica precedente, persino ragazzi che successivamente avrebbero aderito alla giovanile di Fratelli d’Italia. Era la grande diversità di un movimento eclettico su cui tutti i partiti a lungo avrebbero provato a mettere un cappello. Una diversità che si sarebbe ridotta con lo spostamento del focus dalle – seppur importanti – gare di raccolte rifiuti a un approccio sistemico e intersezionale, capace di legare il clima ai diritti – delle donne, della comunità LGBTQIA+, delle persone migranti, dei territori sfruttati, dei popoli oppressi.
La data del secondo sciopero globale per il clima, il 24 maggio 2019, venne fortemente voluta dai gruppi del Nord Globale per influire il più possibile sulle elezioni europee, che in effetti segnarono un exploit dei Verdi – tranne in Italia – e aprirono la strada al significativo ma problematico Green Deal. Se con l’estate sembrava che quest’onda di mobilitazione potesse seccare, la Climate Action Week dimostrò il contrario: tra il 20 e il 27 settembre scesero in piazza otto milioni di persone in tutto il mondo, di cui un milione in Italia, grazie anche a un ministro dell’Istruzione illuminato che permise agli studenti di ottenere una giustifica. A Torino, l’ultima manifestazione politica che aveva superato le centomila persone (ottantamila secondo la questura) prima del 27 settembre 2019 era stata per la Liberazione.
Il quarto sciopero globale venne indetto per il 29 novembre 2019 in duemilaquattrocento città in centocinquantasette Paesi. Un elemento incredibile di questo movimento è sempre stata la capillarità: andare a dormire la notte prima degli scioperi con le foto da Wellington, in Nuova Zelanda, e la notte dopo con quelle da Santiago, in Cile.

Nairobi, Kenya. Il momento in cui il Climate Clock, che segna quanto tempo abbiamo ancora a disposizione per restare sotto l’aumento di 1,5ºC rispetto all’epoca preindustriale, è entrato negli ultimi cinque anni.
Nel momento di massima partecipazione e rilevanza del movimento è arrivata la pandemia. È stata la sfortuna della storia di Fff: nei primi mesi non ci rendevamo conto del capitale politico e della possibilità di indirizzare l’opinione pubblica che avevamo a disposizione; quando questa consapevolezza è maturata, è arrivato il lockdown, antitetico al concetto stesso di movimento. La pandemia costrinse gli scioperi a reinventarsi, prima online con i #DigitalStrike – con migliaia di attivisti da tutto il mondo in un’unica call e con una mappa in cui geolocalizzare il proprio cartellone – e poi con flash mob e azioni simboliche.
Non si può dire che la pandemia sia stata una conseguenza diretta del cambiamento climatico, ma si può dire che sia stata un effetto di quanto negli ultimi decenni ci siamo avvicinati alla natura e abbiamo abusato dei suoi ecosistemi. L’attenzione politica ed economica all’emergenza del Covid-19 è stata infinitamente superiore a quella mai ricevuta da quella ecologica. Durante il lockdown la curva delle emissioni è momentaneamente diminuita, per poi – come dopo il 2009 e i precedenti periodi di recessione – riprendere ad aumentare in maniera vertiginosa.
Ad aumentare sono state anche le conflittualità nel movimento per il clima: Roger Hallam, fondatore di Xr allontanato dal movimento perché considerato un estremista, creò prima il gruppo Heathrow Pause, con cui si proponeva di utilizzare dei piccoli droni per bloccare uno dei più importanti aeroporti britannici, e poi Just Stop Oil, che fece la sua comparsa sui media di tutto il mondo con il lancio della zuppa di pomodoro sui Girasoli di Van Gogh.
“Non si può dire che la pandemia sia stata una conseguenza diretta del cambiamento climatico, ma si può dire che sia stata un effetto di quanto negli ultimi decenni ci siamo avvicinati alla natura e abbiamo abusato dei suoi ecosistemi”.
Altre azioni radicali ma con un obiettivo più chiaro e supportate dall’intero movimento si verificarono a Lützerath, dove centinaia di attivisti guidati da Ende Gelände provarono a opporsi pacificamente alla distruzione di una cittadina minacciata dall’espansione della più grande miniera di carbone in Europa, e al Venice Climate Camp, durante il quale i partecipanti riuscirono a bloccare la centrale a carbone di Fusina raggiungendola su tante barchette prestate dagli abitanti della Laguna.
Questo processo di reazione all’impotenza, rabbia e frustrazione venne enfatizzato dalla Cop26 di Glasgow che, nonostante i riflettori del mondo puntati e una partecipazione oceanica che toccò i 400.000 manifestanti durante la marcia più grande, non raggiunse i risultati sperati.
La Cop26 fu anche la meno inclusiva di sempre: i Paesi meno responsabili ma più colpiti dalla crisi climatica non potevano permettersi di spedire delegazioni fino a Glasgow; con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea era diventato ancora più difficile ottenere un visto; l’accesso era precluso a chi non aveva ricevuto la doppia dose di vaccino da Covid – in molti di quegli stessi Stati non erano proprio arrivati o ne erano arrivati di non riconosciuti in Europa.
L’escalation a inizio 2022 della guerra in Ucraina, altra crisi molto legata ma poco collegata dai media a quella climatica per la centralità del fossile, convinse i governi europei ad affrancarsi dal gas russo, ma non dal gas punto. I governi Draghi e Meloni hanno scelto di diversificare ma di non diminuire le nostre forniture di gas, uno dei combustibili fossili responsabili del surriscaldamento dell’atmosfera, e sono andati in gita – sempre accompagnati dall’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi – in Tunisia, Algeria, Angola, Mozambico, Azerbaijan. Quest’ultimo, che è diventato il secondo Paese da cui dipendiamo di più per il gas, nel 2023 ha invaso la regione a maggioranza armena del Nagorno-Karabakh e l’anno scorso, quasi come fosse un premio, ha ottenuto la possibilità di ospitare Cop29.

Mentre diventava più chiaro il legame tra clima, combustibili fossili e guerre, entrava in modo dirompente nel dibattito del mondo ecologista il libro di un professore dell’Univeristà di Lund, anch’egli svedese, Andreas Malm, Come far saltare un oleodotto, che critica duramente la pratica di totale non violenza – anche quando si tratta di opere ecocide – sostenuta da Chenoweth. Nella primavera del 2022 è nato il network A22 (aprile ’22) dall’unione tra Just Stop Oil e Ultima Generazione (Ug), una campagna di Extinction Rebellion divenuta autonoma e considerata non in linea con i princìpi di Xr stessa.
A luglio dello stesso anno si sono tenuti a Torino il secondo meeting (il primo era stato a Losanna prima della pandemia) internazionale di Fff con quattrocento attivisti da tutta Europa e ospiti dal Sud Globale, e il Climate Social Camp, capace di riunire sotto le tende del Parco della Colletta e dietro il logo realizzato da Zerocalcare tutto l’arco dell’azione per il clima.
Allo scopo di portare a terra gli studi del Premio Nobel per l’Economia Stiglitz e di altri ricercatori – che sostengono che le rinnovabili possano generare, a parità di investimento, il triplo dei posti di lavoro rispetto al gas (il combustibile fossile che occupa più persone) – e per promuovere una giusta transizione, in quegli stessi mesi è nata una convergenza tra Fff e il collettivo di fabbrica GKN, che con coraggio e lungimiranza sta provando a reinventare la sua produzione tenendo come pilastri la giustizia climatica e sociale.
Gli attivisti per il clima sono scesi in piazza al fianco degli operai di Civitavecchia, dei portuali di Genova, dei lavoratori di Mondo Convenienza, di Magneti Marelli, della Lear, della Fiat davanti ai cancelli di Mirafiori. Da un’idea dell’associazione Ci Sarà Un Bel Clima sono nati gli “Stati Generali dell’Azione per il clima”, una piattaforma di incontro e dialogo nata per fare rete e unire tutte le realtà dell’attivismo italiano. Accusato di “fare protesta e nessuna proposta”, Fff ha lanciato un’agenda climatica, che è stata poi ripresa nel libro bianco per l’azione climatica.
Alla Cop del 2022 in Egitto e a quella del 2023 negli Emirati Arabi Uniti – non esattamente due Paesi noti per il rispetto dei diritti umani e per l’indipendenza dai combustibili fossili – le due storie principali non sono state direttamente legate alla questione climatica, ma hanno dimostrano come quest’ultima possa essere la piattaforma di tutti i cambiamenti possibili. Sia a Sharm el-Sheikh che a Dubai la società civile locale si è unita a quella internazionale venuta a seguire la Cop per chiedere, rispettivamente, la scarcerazione di Alaa Abd el-Fattah e di tutti i sessantamila prigionieri politici egiziani, e la fine del “genicidio” a Gaza. La decisione del governo degli Emirati Arabi Uniti di bandire la bandiera palestinese, tra l’altro molto simile a quella emiratina, ha favorito il proliferare di braccialetti, orecchini e simboli a forma di anguria – che ne richiamavano i colori – nella sede della Cop28.
“Dopo anni in cui cittadini e cittadine – in Italia con la campagna “Giudizio Universale” – di portare a processo i governi per inazione climatica, i governi hanno deciso di provare a portare a processo gli attivisti”.
Se fino al 2023 la repressione nei confronti di Fff ed Xr era limitata a casi individuali fuori dall’Europa – come la detenzione dell’indiana Disha Ravi (in foto, seconda da sinistra) solidale con la protesta degli agricoltori o del russo Arshak Makichyan, arrestato dopo aver manifestato per quaranta volte da solo in piazza a Mosca – dal 2024 le cose sono cambiate.
Dopo anni in cui cittadini e cittadine – in Italia con la campagna “Giudizio Universale” – di portare a processo i governi per inazione climatica, i governi hanno deciso di provare a portare a processo gli attivisti.
Lucia Whittaker-De-Abreu (34), Cressida Gethin (22), Louise Lancaster (58), Daniel Shaw (38) e Roger Hallam (58) sono stati condannati a quattro anni di reclusione per “cospirazione al disturbo della quiete pubblica”, cioè aver partecipato a una videochiamata che secondo l’accusa avrebbe portato a dei blocchi del traffico su uno snodo autostradale londinese nel novembre ’22. Coloro che si sono presentati davanti al tribunale britannico sono stati portati in questura, tranne un attivista che portava con sé un cartello polemicamente bianco. Come tutto questo sia “ragionevole, proporzionato o serva a legittimare uno scopo pubblico è al di là della comprensione” ha detto Michel Forst, osservatore inviato dalle Nazioni Unite per verificare l’inasprimento delle leggi sui difensori per il clima.

Il nuovo decreto sicurezza approvato in Italia dal governo, che alterna l’introduzione di nuovi reati ad aumento delle pene, è incompatibile con uno stato di diritto. Tra le tante crudeltà, il disegno di legge introduce il carcere per i blocchi stradali, inasprisce le pene per chi protesta contro le grandi opere, punisce chi manifesta nelle case circondariali o nei centri permanenza e rimpatrio, incluso – a questo punto – anche quello in Albania. Questo attacco al diritto di manifestare, confermato dalla scelta di non autorizzare i cortei per la Palestina, da una parte ci obbliga a mettere da parte le divisioni (che, almeno all’interno del movimento per il clima, in Italia sono meno forti che negli altri Paesi europei) ma dall’altra ci consente di intensificare le reti di solidarietà.
Recentemente Ug ha lanciato una campagna diversa dalle precedenti, che punta al a esporre meno gli attivisti a ulteriori pene e al contempo ottenere più consenso da parte dell’opinione pubblica. “Il giusto prezzo” si concentra sul carovita e gli aumenti dei prezzi dell’olio, del caffè, della frutta e della verdura dovuti anche ai vari effetti della crisi climatica, primo tra tutti la siccità.
Con l’intenzione di dare una casa a tutte le realtà ecologiste, a giugno 2023 è stato inaugurato a Torino il Kontiki, prima sede italiana di Fridays For Future, spazio di aggregazione e intersezionalità. Qualche mese dopo una seconda ha aperto nel chiosco del Giardino Mimmo Bucci, all’interno del quartiere popolare Libertà di Bari.
Fff, Xr, e Ug sono stati e sono un esperimento politico senza eguali. Il primo ha interpretato la crisi climatica come una minaccia per il futuro, gli altri come un’urgenza del presente. Alcuni movimenti per il clima del Sud Globale, come suggerito da Amitav Ghosh, l’hanno inquadrata come una crisi figlia del colonialismo e, quindi, del passato.
Nonostante il minore spazio mediatico e la maggiore repressione, nessuno di questi movimenti ha perso la speranza. Perché le ribellioni si fondano sulla speranza. E perché la transizione ecologica è e rimane l’anagramma di sognatori eccezionali.