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Cristiano Godano
Un “Canto d’acqua” per il pianeta

Un “canto D’acqua” Per Il Pianeta Godano Web
clima letteratura politica tecnologia

Attraverso tre racconti possiamo immedesimarci in chi già oggi vive sulla sua pelle gli effetti del cambiamento climatico e, forse, cambiare le nostre abitudini.

Il giorno che io e Telmo Pievani decidemmo di mettere su uno spettacolo da portare in giro, chiamato Canto d’acqua, mi proposi di dare il mio contributo attraverso due modalità espressive: l’esecuzione di alcune mie canzoni e la lettura di qualcosa che avrei scritto apposta, verosimilmente dei racconti. Ne scrissi tre, tutti con l’obiettivo di non lasciare indifferenti le persone in ascolto. Sono tre racconti i cui protagonisti fanno una brutta fine, e cerco di restituire alla sensibilità altrui i momenti di terrore da loro vissuti. Perché questo sadismo? Perché, posto che io non lo considero tale, ritengo sia necessario immedesimarsi in una situazione che potrebbe riguardare noi stessi prima o poi, a causa del riscaldamento climatico.

E perché necessario? Perché credo (farei meglio a scrivere: credevo) serva una scossa che ci faccia definitivamente impaurire per darsi una mossa, per smettere di snobbare un problema gigantesco che alle sue estreme conseguenze creerà sempre più difficoltà a chi non potrà farsi un bel bunker per mettersi al riparo. Sono consapevole che fra i miei possibili lettori vi sono quelli spaventati come me, probabilmente molti: “Cosa possiamo fare?” è la domanda. Ovvio che non ho risposte: mi resta il rammarico che se tutta l’umanità fosse altrettanto spaventata, ragiono per estremi, cercheremmo tutti insieme, otto miliardi, di sacrificarci per la soluzione. E a tali condizioni unanimi credo che la transizione sarebbe fattibile.

Si può infatti immaginare che se questo fosse il volere dell’umanità – essere salvati a qualsiasi costo – l’avidità umana saprebbe in fretta come individuare il nuovo business andando incontro alle richieste unanimi e abbandonando a sé stessi i capitalisti coinvolti nelle attività nocive, e, un po’ come si dice delle tasse, se tutti le pagassero ne pagheremmo meno: perché se tutti volessero la transizione ecologica, e dovrebbe davvero essere una priorità, i sacrifici sarebbero minori. (Per gli scienziati e per le persone avvedute è risaputo che a ogni catastrofe i costi per le riparazioni sono di molto superiori a quelli che si sarebbero potuti dedicare alla prevenzione).

Ma la narrazione negazionista, alimentata e corroborata da tutto il potere economico connesso con le varie attività umane perniciose, dall’estrazione e lavorazione dei gas serra in avanti a rimpolpare una gigantesca filiera di interessi variegati, è forte e cattura troppi citrulli, così che quella cifra si fa meno raggiungibile dell’avverarsi di un sogno impossibile. E tanto quanto pare abnorme e inverosimile immaginare che per davvero otto miliardi di persone volessero la stessa cosa nello stesso tempo, se si pensa all’umanità come a un corpo unico, emerge chiaramente la potenziale stupidità dell’uomo nel non rendersi conto di stare andando gambe all’aria. E siccome ci sono ampie probabilità che ciò accada, possiamo sentirci autorizzati a considerarci particolarmente stupidi, ben sapendo che l’evoluzione se la mangia in fretta una specie stupida.

E quindi, a causa dell’avidità umana, portiamo l’umanità cioè noi stessi verso orizzonti di sofferenza e angoscioso riadattamento delle nostre abitudini di vita, che si dovranno adeguare a una esigenza primaria ben lontana dagli agi, dal benessere e dalla qualità di vita a cui ambiamo per consuetudine: la sussistenza. Sono consapevole che ci sia chi ancora pensi a qualcosa di sufficientemente lontano (in un orizzonte temporale) da non riguardare né noi né i nostri figli, ma è un tragico errore.

Quando scrissi tali racconti, tre anni fa circa, ritenevo ancora plausibile un contenimento del problema, e ora quella speranza si è affievolita di molto. Probabilmente li scriverei tuttora, ma lo farei con un sentimento di rassegnazione: penso che sia ormai difficilissimo fermare il processo catastrofico in atto, per noi e un bel po’ di altri animali e vegetazione. Perché lo penso? Beh, non sono l’unico, e alludo agli uomini di scienza che ho la fortuna di conoscere o di cui leggo: il loro pensiero influenza il mio, così come uno specialista che mi dicesse che ho un tumore e che per salvarmi dovrei immediatamente avventurarmi nel travaglio della cura: negherei di avere un tumore? No.

E perché si nega che la comunità degli scienziati ci dica il vero a proposito del cambiamento climatico? Perché si è citrulli, e si preferisce credere alla finemente strutturata balla negazionista: basta essere nel giro sbagliato degli algoritmi, e la credulità è servita. Per il resto, ai vertici di chi gestisce le nostre vite, fra politica e finanza, è in atto una gigantesca dimostrazione della stupidità, probabilmente incancrenita in uno stato delle cose che la rende inevitabile. Tutti i signori multimiliardari dai nomi ben noti sanno alla perfezione cosa sta per accadere e: 1) hanno tutti il loro bunker personale in previsione di catastrofi, guerre e ribellione sociale 2) non sanno cosa fare, e incantati in questa deriva che li ha resi ricchi a nostro discapito, scommettono sul futuro portandosi sul groppone la colpevolezza di farci deragliare, tra IA e inazione.

Per ogni urlo rabbioso di ciascuno di noi un bel po’ di click utili alla nostra profilazione saranno venduti alle aziende di tutto il mondo. Ci sono i signori multimiliardari, ci sono le aziende che comprano i nostri dati, e ci siamo noi, tutti noi, operai della rete a produrre dati “aggratis” per loro. E i dati che produciamo sono il loro business.

Penso alla tragica responsabilità che si stanno assumendo, tra il cambio di connotati che vogliono imprimere all’umanità con l’intelligenza artificiale liberandosi della democrazia, e il lugubre accompagnamento a quella desolazione di cui parlavo prima: vita nient’altro che sussistente e rifugio per pochi privilegiati nei bunker, figli e parentela varia inclusi. Da almeno dieci-dodici anni covo una profondissima rabbia nei loro riguardi, e sogno un tempo in cui il popolo li sappia riconoscere come i veri responsabili del degrado in cui siamo immersi, per andarli a stanare. (Un momento però: qualcuno si potrebbe chiedere in che senso questi signori sono, anche loro, responsabili del riscaldamento climatico… Beh: a parte il fatto che le loro mastodontiche big data, coi quali guadagnano cifre mostruose, utilizzano tonnellate di acqua al giorno per essere raffreddate (visto l’impiego gigantesco di energia che serve a farle funzionare), considero tremenda e orrenda la loro correità nel favorire il propagarsi delle balle in assenza di proibizioni e regole.

La fantomatica libertà di espressione a cui si appellano, che non permette di impedire a ciò che è falso di proliferare, è nient’altro che una balla utile al loro abnorme e inconcepibile business. Detta meglio: per questo loro business megalomane impediscono che l’umanità venga messa al corrente della verità che la riguarda. Perché per i loro business? Perché l’unica cosa che vogliono è la nostra profilazione, ottenuta facendoci stare connessi a produrre click e dunque dati, da loro catalogati e passati al vaglio della fenomenale capacità di calcolo dei loro computer. E come ci fanno stare connessi? Alimentando e favorendo le nostre “colluttazioni virtuali”, dividendoci, polarizzandoci, e, così facendo, ingabbiandoci nella rete a scannarci: per ogni urlo rabbioso di ciascuno di noi un bel po’ di click utili alla nostra profilazione, che venderanno alle aziende di tutto il mondo. Ci sono loro, ci sono le aziende che comprano i nostri dati, e ci siamo noi, tutti noi, operai della rete a produrre dati “aggratis” per loro. E i dati che produciamo sono il loro business. E come fanno a ottenere tutto ciò? Come fanno a farci arrabbiare così tanto e a metterci gli uni contro gli altri? Tarando gli algoritmi. Se non è un’atroce responsabilità questa…)

Ma nonostante l’affievolimento della speranza di cui sopra eccomi qua a entrare ancora una volta nel merito, senza il timore di ripetermi e far sbadigliare qualcuno. Ho già scritto altre volte di riscaldamento climatico, e già quattro o cinque anni fa le mie considerazioni allarmate e impaurite erano del tutto analoghe a quelle che faccio al giorno d’oggi. L’ultima volta in cui mi sono avventurato in questo tema, sul sito di «Rollingstone» dove tengo una rubrica, ho provato a dare forma scritta a un grido di allarme, quello che spesso risuona(va) ancora nella mia anima. Situazione particolare, perché volevo provare a utilizzare parole che sapessero risultare toccanti e emozionanti, adeguate al dramma in arrivo, e più provavo a spingere in quella direzione più temevo di risultare ridicolmente esagerato.

E d’altronde è un fatto: a scrivere ora “dramma in arrivo” mi sono posto lo stesso problema, esattamente come quando poco fa ho scritto “catastrofe”, “bunker”, “gambe all’aria” eccetera. Eppure pensiamoci: come può non essere un dramma sapere delle tante cose pessime che stanno per arrivare? Calamità in aumento, fra tempeste spaventevoli e travolgenti, esondazioni conseguenti, grandine distruttiva, piogge sempre più dense nelle loro esplosioni improvvise, incendi mostruosi e inarrestabili, immigrazioni di massa sempre più cospicue, siccità in agguato (con essa la secchezza che favorisce la propagazione degli incendi), desertificazioni, anche e soprattutto qui in Europa, tensioni sociali ribollenti, aumento del livello dei mari che renderà inservibili le città costiere coi loro abitanti costretti a cambiare vita (e conseguente invasione di altre città non sul mare), numero in costante crescita dei morti per il troppo caldo… e si potrebbe andare avanti con altri esempi ancora.

Per averne la giusta sensazione orrorifica bisognerebbe metter testa al fatto che sempre più aumenterà il rischio di essere noi stessi i protagonisti di turno, e non i nipoti dei figli dei nostri pronipoti… Non è questo un dramma di proporzioni spaventevoli? Non meriterebbe uno straziante grido di angoscia? (Che arriverà comunque quando si sarà ampiamente fuori tempo massimo, e lo produrrà la gente impaurita). Eppure in quell’articolo mi sentii costretto a contenere lo strazio, mentre invece servirebbero migliaia e migliaia di voci atterrite come la mia (e centinaia ce ne sono) per un coro palpitante e reiterato nei giorni, nelle settimane, nei mesi: un disperato tentativo di convincere la gente che il casino è davvero tremendo. A costo di farsi ammonire pesantemente dalla classe politica inetta che ci ritroviamo. Ma mi fermo qua: scrivo e mi rendo conto della potenziale inanità del tutto. 

Notavo, a seguito della prima tremenda ondata di caldo avuta verso fine giugno senza contare quelle di agosto, che il senso di angoscia, ancora nascosto sotto chili di vago e un po’ inquieto stupore, sta covando e si sta sparpagliando (esclusi i negazionisti ovviamente). E la butto lì: tempo una quindicina d’anni e l’umanità potrebbe cominciare a sentire definitivamente di essere entrata in un bell’incubo. L’angoscia sopravanzerà su molti altri stati dell’essere e il panico comincerà a impadronirsi di noi, lentamente, inesorabilmente. Stando così le cose posso ben dire che una catastrofe, naturale prima e sociale poi, val bene qualche ozioso sbadiglio.

Nella piena consapevolezza di star semplicemente usando parole e zero fatti e azioni se non quelli che compiamo in tanti nella nostra umile quotidianità, uno degli incarichi che penso di sapermi assumere in quanto scrittore è quello di suscitare riflessioni e semmai emozionare, per arrivare a scuotere chi ha bisogno di essere scosso: è una goccia in un oceano, ma la frustrazione e l’indignazione mi fanno impegnare e “lottare” per essa, nonostante tutto. E nonostante il fatto che sia evidente in me quello che penso sia in molti: una rassegnazione di fondo, una accettazione inevitabile della piega presa, ammutoliti nella rabbia repressa. Il fatto che io venga qua a scriverne in forma di considerazioni non ha a che fare con una mia presunta autoinvestitura a intellettuale o a editorialista: io do semplicemente sfogo alla mia paura frustrata, e spero di coinvolgere più persone possibili. È il mio compito sociale, per così dire, tra esigenze personali (salvare la propria e quella dei miei amati pelle) e senso civico universale, inorridendo all’idea di tutto ciò che di bello abbiamo fatto e costruito destinato in molti casi a pietrificarsi nella decadenza e nell’inservibilità dell’abbandono (pensiamo alle città costiere svuotate: prima o poi immagino che accadrà).

La storia dell’umanità passa per le migrazioni e per cinte murarie a protezione delle comunità, ma ci eravamo evoluti, e pensavamo che non fosse una bella cosa escludere l’altro da sé e relegarlo alle sofferenze… Lì però probabilmente torneremo. 

Il primo racconto dei tre ha a che fare con il morire per annegamento a seguito di un incidente fatale della propria imbarcazione disperata: sempre più le migrazioni avverranno perché nei paesi d’origine sarà arduo vivere. Il caldo estremo, che è destinato a farsi ricorrente, sfiancherà, e per istinto e disperazione si fuggirà. Molti moriranno in mare. Gli altri li si vorrà sterminare con qualche bella mina o raffica di mitra durante il loro biblico spostamento? Di certo sappiamo che in America è in costruzione da tempo un bel muro tra Usa e Messico, e Trump ha sottratto fondi a istruzione e ambiente per completarlo in acciaio e cemento: la violenza intrinseca di una mossa simile è evidente (e anche la protervia della stupidità) e lo sarà ancor di più quando il muro in sé, reale o metaforico, diventerà la soluzione adottata da molti altri Stati. Capisco bene che a mali estremi estremi rimedi: la storia dell’umanità passa per le migrazioni e per cinte murarie a protezione delle comunità, ma ci eravamo evoluti, e pensavamo che non fosse una bella cosa escludere l’altro da sé e relegarlo alle sofferenze… Lì però probabilmente torneremo. 

Questo è l’unico dei tre racconti che non ha come scopo primario quello di far sentire all’ascoltatore l’incombenza di un pericolo che lo potrà riguardare. Ben difficilmente noi europei sosterremo a breve viaggi della speranza passando per gommoni e imbarcazioni pericolanti. Di sicuro a un certo punto migreremo anche noi, ma verosimilmente verso nord, e dunque per un tot di tempo sulla terraferma (ma come dal continente chiamato Africa si muovono da ogni dove per raggiungerci, anche dal nostro continente chiamato Europa potremmo ritrovarci a voler andare oltremare, direzione paesi nordici, muovendoci da ogni dove). In un contesto sociale sempre più individualizzato la perdita di empatia e compassione sono conseguenze inevitabili, e lo scopo del racconto è quello di scongiurare tale perdita.

In genere quando lo leggo in apertura di spettacolo la gente resta piuttosto ammutolita: le parole da me usate, volte a “farli salire” sul gommone della morte a partecipare dell’evento ineluttabile in corso, arriva alla loro sensibilità e alla loro empatia, e per davvero in quei momenti c’è vera commozione. Lo scopo del racconto è dunque quello di aiutarci vicendevolmente a non perdere empatia e compassione, che mi paiono requisiti necessari fra altri a resistere a tante degenerazioni, fra cui la prevaricazione della tecnologia su di noi e dentro di noi. Da tempo uso dire che social e piattaforme sono la nostra gabbia: difficile non passare per vecchi tromboni esagerati e rincoglioniti, ma tant’è, la presa di coscienza in merito mi pare si stia rinfoltendo, e sempre più gente in qualche modo se ne sta rendendo conto. 

Il racconto, intitolato Bakary dal nome del protagonista (uno fra decine che trovano la morte in mare), finisce con queste parole:

“Sa che sta per toccare a lui. Col panico sopraggiungono le prime boccate d’acqua ingoiate. Brancola e si dibatte. Il cuore inizia a pulsare a mille. Ancora urla provenienti dall’abisso del terrore: è sua madre che invoca. Grida il suo nome con fiotti di lacrime agli occhi, mentre i battiti del cuore fanno a gara per zittirlo col loro sordo frastuono. Solleva la testa verso l’altro, esattamente come tutti coloro a cui l’ha visto fare quando ancora era aggrappato a un’idea di salvezza. Inspira profondamente per immagazzinare aria, che gli servirà quando la testa tornerà sott’acqua. Il semplice respirare diventa arduo, e anche le forze per strillare si attenuano. Il dramma si fa spietato: il suo corpo e il suo spirito ne sono pervasi, gli occhi sbarrati nel buco nero che sta per fagocitarlo. È il suo ultimo minuto di vita. La testa viene sopraffatta dall’acqua. Ultimo straziante tentativo di trattenere il fiato il più a lungo possibile, dura esattamente 48 secondi. Poi un altro ingoio. Tosse. Sputi. Altri ingoi. I muscoli delle corde vocali si contraggono. Non riesce più a respirare. Un forte bruciore al petto conduce a un paradossale rilassamento, pochi istanti e c’è l’arresto cardiaco.”

Il secondo racconto si prefigge di entrare nel vivo di una situazione realmente accaduta in Italia per far capire alle persone che un evento estremo dovuto al riscaldamento climatico può riguardare anche noi. Perché sì, ho come la sensazione che per troppi ancora certe catastrofi ambientali non ci riguardino. Hanno una allure esotica, verrebbe da dire, e per ora il malfunzionamento dei tombini e simili come giustificazione delle esondazioni in patria tiene bene, relegando certe disgrazie ai paesi lontani. Ma nel luglio del 2022 sulla Marmolada accadde quello che sempre più accadrà: sciogliendosi, il maestoso ghiacciaio di un tempo può provocare situazioni particolari, come ad esempio il distaccamento di un seracco (una parete di ghiaccio), che crollando su se stesso e su un basamento di ghiaccio reso instabile e scivoloso dall’acqua di fusione generatasi per il troppo caldo atmosferico ingenera l’inizio travolgente di una valanga di ghiaccio e detriti, e per chi passa lì sotto nella sua gita in quota (una di quelle camminate accessibili a quasi chiunque), una brutta fine diventa inevitabile. Scopo delle mie parole è dunque quello di far notare la possibilità di un evento estremo ai nostri danni a causa del riscaldamento climatico. 

Gli algoritmi che si prendono cura di me la sanno ovviamente lunga sul mio conto, e il mio scroll quotidiano mi mette sempre in bella evidenza le cose riguardanti il clima. Sono molti i profili internazionali che si occupano di queste cose, mediamente di natura scientifica, e ve ne sono di manifestamente allarmati, quell’allarme di cui ho detto qualcosa sopra. Il tono è tragico, ultimativo, e dal mio punto di vista, che non è quello di un esperto della comunicazione, opportuno. Servirebbe li seguissero coloro che sono ignari o negano, ma i loro algoritmi non li condurranno mai in quei pressi.

Al netto di questi profili molti altri sono più documentativi: non gli sfugge nessuna catastrofe o evento estremo in giro per il mondo, e certe immagini spaventano per la famosa forza della natura, che quando si “ribella”, come ci piace dire, ci spazza via come fuscelli. Infine vi sono i profili nazionali più generalisti, fra cui l’Ansa, e credo sia sotto gli occhi di molti il numero crescente di eventi turbolenti in terra nostrana: piogge eccezionali con “fiumane” d’acqua che invadono le strade delle cittadine, grandinate temibili che fanno passare bruttissimi momenti a chi si trova costretto a subirle nel suo abitacolo-prigione, trombe d’aria in riva ai nostri mari, giornate di caldo fuori scala che iniettano in molti sintomi subliminali di vaga inquietudine, incendi sempre più orrendi e numerosi che attecchiscono facilmente grazie al rinsecchimento di erbe e arbusti e si propagano inarrestabili spesso per anomalie nel comportamento dei venti, devastando tutto ciò che gli arriva a tiro in aree sempre più estese.

A seguirli, tali profili, si verifica poco alla volta l’effetto dell’assuefazione: ci si arrende all’idea che così è e così andrà, sperando non tocchi mai a noi. Il distaccamento di un seracco è un evento possibile fra altri, ed è quello che successe nel 2022 sulla Marmolada, e le persone che vi morirono e di cui parlo nel racconto non sarebbero morte senza il cambiamento climatico. Arriverà un momento in cui la nostra esistenza sarà messa a dura prova a causa dell’affastellarsi di situazioni estreme, e io personalmente, non a mio agio quando salgo su un aereo, credo che arriverò a temere di salirci e forse a non farlo proprio quando il cielo sull’aeroporto sarà troppo scuro: trovarsi in una di quelle tempeste sempre più estreme mi metterebbe a durissima prova. Sono sicuro di non essere l’unico.   

“Piomba giù con un tonfo atroce, il seracco, e si schianta sbriciolandosi, pronto a farsi valanga. È un istante, e subitanei prendono a correre velocemente gli ammassi di ghiaccio ridotto in lastre, frammiste ai detriti che vi si aggregano, raccolti dall’allargarsi del fronte che rotola vorticosamente, metro dopo metro, raggiungendo in fretta la terribile velocità dei 300 km all’ora. (Assumerà, nella sua forma finale, le dimensioni di due campi da calcio messi insieme). Un frastuono sempre più distinto perviene alle orecchie di chi è in quella traiettoria, e provoca uno spavento immediato, un crepacuore che assale all’improvviso, perché quella nuvolaglia minacciosa è già pronta a travolgerli, in un battibaleno, e non c’è nessuna possibilità di fuggire al riparo. Il fragore si fa rombo assordante: aggredisce il loro corpo con le vibrazioni che produce, e intacca il cuore, che prende a battere all’impazzata. Sono tutti con lo sguardo rivolto a quel mostro scuro e informe ormai a pochi metri da loro. Le urla di ciascuno si assommano a quelle di tutti gli altri, e le bocche si spalancano sull’abisso di terrore che i loro occhi esplosi scolpiscono nell’aria circostante, che si sta per oscurare. Sono pochissimi secondi di panico: chi scappa, chi si butta a terra cercando di aderire il più possibile al terreno, quasi a confondervisi per non essere notato, chi si ingobbisce dando le spalle al mostro come ad attutire il colpo, tutti spietatamente travolti da un destino ineluttabile. E quella atrocità arriva, fredda, scura, polverosa, e poi concreta e distruttrice. Lame di ghiaccio e detriti e rocce si rovesciano su di loro, in un travolgimento che è uno strazio. I corpi vengono arpionati e trascinati con violenza proporzionale alla velocità di rotolamento (300 km!), dilacerati, dilaniati, ridotti in brandelli, offesi, martoriati”.

E infine c’è il terzo racconto, che parla della siccità a cui stiamo andando incontro e del caldo che uccide. La sua genesi è molto curiosa. Come ho detto lo scopo di tutti e tre è “far toccare con mano” la portata spaventosa di una situazione in cui potremmo ritrovarci a causa del riscaldamento climatico, cercando di far notare che sempre più nessuno di noi, bunker a parte, potrà esserne dispensato a priori. Tralasciando il fatto che mentre scrivo queste parole mi accorgo che è probabilmente tipico della natura umana comprendere fra i suoi comportamenti quelli irresponsabili nonostante le consapevolezze (penso al fumare le sigarette: si sa che fa malissimo, e si fuma lo stesso. Analogamente il bere alcol), e tralasciando anche il fatto che stando così le cose forse non si può altro che arrendersi alla inevitabilità della stupidità – accettando però che su una questione simile, a differenza del fumare le sigarette, la stupidità altrui travolgerà anche gli avveduti – il mio desiderio di trovare un racconto connesso alla tragedia del morire a causa del troppo caldo a un certo punto ha cominciato ad avverarsi partendo dal tema della complessità.

Mi spiego meglio: per comprendere appieno la faccenda del riscaldamento climatico ci si avventura in tante considerazioni che fanno capire la consistenza di questa complessità. Tanto consistente da non trovare ora il coraggio di provare a farne una sintesi: bisognerebbe partire dalla singolarità della condizione del nostro bel pianeta terra, a cui è toccata in sorte la nascita della vita qualche miliardo di anni fa a seguito di sorprendenti combinazioni di eventi, in assenza dei quali noi saremmo prosciugati come Marte e tutti gli altri pianeti e stelle conosciute (c’è una bellissima frase di non ricordo più chi che dice più o meno: “la nascita della vita sulla terra è uno stratagemma architettato dalle stelle per conoscere sé stesse” a dire che la vita è una forma di conoscenza che l’universo ha di sé stesso, essendo noi fatti della stessa materia che compone le stelle e l’universo. D’altronde che siamo figli delle stelle ce lo diceva anche Alan Sorrenti…).

Epperò il riscaldamento climatico lo si comprenderebbe meglio se proprio di questo ci rendessimo conto, perché una alterazione significativa della temperatura standard della terra (esattamente quello che sta accadendo) altera quei parametri-condizioni la cui magica combinazione ha permesso a tutti noi di nascere e vivere… Cercando l’ispirazione per trovare il giusto racconto, dunque, mi ritrovai impantanato in questo batticuore dovuto al fascino di tale complessità, e a un certo punto decisi di partire dalla nascita della vita sulla terra per sintetizzare quanto più possibile il cammino della morfologia della vita stessa, che da una singola combinazione di cellule si adoperò per diventare innanzitutto… verme, che possiamo considerare il primo essere vivente “simile” all’idea basica che abbiamo noi di essere vivente, cioè essere tangibile con una sua forma visibile e semovente, esattamente come gli animali che vediamo e percepiamo come esseri viventi. Ed esattamente come noi, che, religione e fede a parte, siamo esseri viventi fra milioni di altri, con in dono (per certi versi una sfiga) dell’intelligenza e della consapevolezza di essere consapevoli, ciò che ci differenzia da tutti gli altri esseri viventi piante incluse.

Da tale vertigine ne ebbi un’altra: la magnifica complessità del nostro corpo, mirabile incastro di innumerevoli elementi costitutivi (ferro, rame, zinco, fluoro, iodio, cellule, sangue, arterie, nervi, ossa, milza, fegato, naso, braccia, midollo spinale, capelli, rotule, unghie, cuore, lobi, nocche, polmoni, ecceteraecceteraeccetera). Il progetto artistico del mio racconto si trasformò dunque leggermente, e da un’idea di base narrativa, come gli altri, scrissi qualcosa di più simile a un viaggio nella storia della vita sulla terra, rivolgendo attenzioni particolari all’uomo e alla sua magnifica complessità. Una complessità che il troppo caldo liquefa in anomalie letali a cui sempre più andremo incontro. Chi lo sa che a Milano gli ultimi giorni di giugno a cavallo coi primi di luglio ci sono stati 317 morti dovute al caldo eccessivo? Si rilegga: a Milano, ovvero una sola città, in una manciata di giorni… Dunque il mio terzo racconto a un certo punto si chiude spiegando “come” si muore di caldo, per far venire un po’ di brividini agli ignavi che non pensano toccherà mai a loro…

“Quando il caldo si fa sentire il cervello chiede alle nostre ghiandole sudoripare di produrre sudore: il sudore, evaporando, sottrae calore al corpo. Se l’aria è umida questo meccanismo non funziona alla perfezione, perché l’evaporazione viene rallentata. Con un tasso al 90% di umidità anche 35 gradi diventano pericolosi, e possono morire anche i giovani. Se l’azione delle ghiandole non è sufficiente, e se l’umidità e il caldo opprimono, il cuore inizia a battere e a pompare sangue ricco di ossigeno verso la pelle, per rendere il corpo più caldo dell’aria esterna, e per continuare a favorire la sudorazione. Serve espellere caldo: il corpo sta iniziando a bollire, e il cervello sta cominciando a essere confuso! Tutto questo sangue viene però sviato rispetto alle sue varie funzioni, e fegato reni e intestino ne vengono privati. Più il pompaggio aumenta, più gli organi vitali interni rischiano il soffocamento per prosciugamento di sangue: tecnicamente questo è un colpo di calore, e le persone anziane a questo stadio cominciano ad avere serissimi problemi. Se la temperatura corporea sale oltre i 41 gradi si generano alterazioni fisiologiche e biochimiche, e arrivano scompensi problematici: insufficienza cardiaca, insufficienza renale, aritmia, edema cerebrale, crollo della pressione sanguigna, insufficienza epatica, emorragie, aumento del numero dei globuli rossi, acidificazione del plasma, crollo del livello degli zuccheri nel sangue, proteine nell’urina… Uno sconvolgimento totale del corpo, che rapidamente porta al decesso. I primi sintomi di un colpo di calore sono: nausea, vomito, poi respirazione e battiti accelerati, mal di testa, crampi, debolezza, stato confusionale, perdita di conoscenza. Il cervello lotta per rimanere sveglio, mentre l’eccessivo calore interno combina disastri. Attraverso tutta una serie di avvenimenti repentini, arriva il collasso a cascata degli organi interni, e poi la probabile morte.”

P.s.: qualche giorno fa ho letto che ci sono ottimi progressi in ambito di transizione ecologica (se non erro si parlava soprattutto in merito agli sforzi europei). È bello e incoraggiante saperlo, aiuta a virare in chiave ottimistica. E non avrei alcun problema, in tal caso, a sconfessare me stesso e le mie esagerazioni: preferisco rischiare di essere ridicolo ora pur di sentirmi al riparo domani. Ma azzardo un paragone con un mondo che conosco meglio: mi irritano sempre molto quel tipo di articoli che raccontano di momenti positivi per la discografia, accennando a crescite di fatturati e tendenze confortanti, tipo ritorni in auge del vinile eccetera. A noi musicisti e alle nostre tasche queste tendenze positive non arrivano in verità: dalle vendite della nostra musica ormai un buon 90% di tutti noi, e parlo di chiunque nel mondo, compresi i vari big al netto delle mega popstars dagli streaming multimilionari (centinaia di milioni di streaming appannaggio del 10% residuale), non arriva sostanzialmente nulla, e lo sfacelo è ormai acquisito. Le piattaforme sono in verità un ladrocinio sistematizzato. E perché mi irritano? Perché inducono la gente a pensare che ci vada tutto bene, a noi musicisti: e garantisco che non è vero, semplicemente non è vero.

Cristiano Godano

Cristiano Godano, conosciuto in tutta Italia come frontman dei Marlene Kuntz, band che ha segnato la storia della musica in oltre 30 anni di attività, è un artista poliedrico, cantante, chitarrista, autore, attore e scrittore. Classe ‘66, è nato a Fossano in provincia di Cuneo. I Marlene Kuntz si formano nel 1989 e Cristiano ne diventa il cantante e l’autore di tutti i testi (oltre 130
canzoni). Viene chiamato a gestire workshop, incontri, laboratori di scrittura e lezioni in tutta Italia. Nel 2012 inizia la docenza presso il Master in Comunicazione Musicale dell’Universita Cattolica di Milano. Sempre nel 2019 riceve il Premio Ciampi al MEI.
Esordisce come scrittore nel 2008 con I vivi, una raccolta di sei racconti edita dalla Rizzoli per la collana 24/7. Da questo libro viene tratto il reading Terrore portato in giro per l’Italia accompagnato dalle musiche improvvisate di Riccardo Tesio. Nel 2019 pubblica Nuotando nell’aria (La Nave di Teseo).
Il 26 giugno 2020 esce il suo primo album da solista dal titolo Mi ero perso il cuore. Nel 2021 entra nella cinquina del Premio Tenco, come migliore opera prima: si piazzerà al secondo posto. Dal 2023 porta in tour con Alessandro Asso Stefana lo spettacolo Journey through the past, dedicato a Neil Young e, con Telmo Pievani, nei teatri e nei festival lo spettacolo “Canto d’Acqua”. Nel giugno 2024 esce il suo libro Il suono della rabbia (Il Saggiatore).Ad aprile 2025 esce per Ala Bianca il suo secondo album solista Stammi Accanto.

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