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Matteo Motterlini
Un cervello antico per sfide moderne

Un Cervello Antico Per Sfide Moderne Motterlini
Cervello politica

Perché spendiamo per prepararci alla guerra ma non per prevenire il collasso climatico? È la diagnosi di un retaggio evolutivo oggi dannoso, che deve spingerci a superare i limiti della nostra immaginazione.

Mentre la concentrazione di CO₂ in atmosfera cresce tre volte più di sessant’anni fa, il pianeta arranca. Secondo la World Meteorological Organization, nel 2024 abbiamo toccato quota 423,9 parti per milione: un record assoluto. Ma il problema non è solo quanto emettiamo, è quanto non riusciamo più ad assorbire. Gli oceani e le foreste, i due grandi polmoni della Terra, stanno perdendo capacità di stoccaggio, soffocati da calore, siccità e incendi. È il segno inequivocabile di un circolo vizioso climatico: più CO₂ immettiamo, meno il sistema Terra riesce a contenerla. E intanto salgono anche metano e protossido di azoto, spinti da allevamenti intensivi, fertilizzanti e combustibili fossili. I dati della WMO ci consegnano una verità impietosa: non stiamo rallentando, stiamo accelerando.

A essere insostenibile non è solo il nostro modo di produrre e consumare. È il nostro modo di pensare. Sono le nostre menti, prima ancora del clima, a essere fuori controllo. Abbiamo cervelli programmati per reagire a minacce immediate, visibili, localizzate – ma il cambiamento climatico si distribuisce su un arco temporale lungo, è ancora troppo astratto, è globale. Così, di fronte alla più grande emergenza della nostra epoca, restiamo immobili. Preferiamo minimizzare, rimandare se non addirittura negare. Cerchiamo conforto in gesti simbolici e rassicuranti – piantare alberi, fare la raccolta differenziata – ma evitiamo le scelte strutturali e scomode, come ridurre i sussidi ai fossili o tassare il carbonio. È una forma di autoinganno collettivo: congeliamo i cervelli, mentre i ghiacciai si sciolgono

Continuiamo a ragionare con categorie del passato, inseguendo un’idea di sicurezza che, paradossalmente, ci rende tutti più vulnerabili. Crediamo di proteggerci costruendo confini, eserciti, arsenali. E mentre il pianeta brucia, ci riarmiamo. Il numero di conflitti armati in corso è il più alto dalla Seconda guerra mondiale, e i Paesi NATO stanno aumentando significativamente la spesa militare. A dominare è la logica del “qui e ora”: ci difendiamo da minacce prossime, ignorando quelle sistemiche e di lungo periodo. 

Secondo il Conflict and Environment Observatory, il piano ReArm Europe e l’aumento delle spese militari fino al 3,5% del PIL potrebbero da soli vanificare gli sforzi per contenere il riscaldamento globale. Le attività militari globali sono già oggi responsabili del 5,5% dei gas serra totali, e ogni punto percentuale di PIL in più destinato alla difesa comporta un aumento delle emissioni nazionali compreso tra lo 0,9% e il 2%. Solo per i Paesi NATO (esclusi gli Stati Uniti), un incremento di due punti equivarrebbe a 87-194 milioni di tonnellate di CO₂ in più all’anno, con un costo climatico stimato in 264 miliardi di dollari. Ma c’è anche un costo-opportunità: ogni miliardo investito in armamenti è un miliardo sottratto all’azione climatica. 

Il paradosso è evidente: cerchiamo sicurezza immediata, mentre alimentiamo l’insicurezza futura, che con ogni probabilità genererà nuovi conflitti. Difendersi oggi per rendere il mondo invivibile domani: un capolavoro di miopia strategica. Spendiamo per prepararci alla guerra, non per prevenire il collasso climatico. E in questo cortocircuito cognitivo, la sicurezza diventa l’altra faccia dell’insicurezza. 

Inerna Motterlini

Anche perché il cambiamento climatico non tocca le nostre corde morali. La CO₂ non parla il linguaggio per cui il cervello è stato progettato. Le nostre reazioni emotive si attivano davanti a un colpevole, una vittima, un danno immediato. Il riscaldamento globale, invece, è un crimine senza scena del crimine: invisibile, diffuso, senza volto e senza intenzione. Le comunità di tutto il mondo hanno norme morali per il cibo o la sessualità: c’è chi considera impuro mangiare carne di maiale, chi giudica indecente mostrare certe parti del corpo o vivere liberamente la propria identità sessuale. Ma non esiste un “modulo dell’indignazione” per la concentrazione di gas serra. Ecco perché restiamo indifferenti di fronte alla violazione degli accordi di Parigi. Finché non impariamo a riconoscere il cambiamento climatico come un’ingiustizia – verso i Paesi più vulnerabili e verso chi verrà dopo di noi – il cervello continuerà a ignorarlo. 

Invece viviamo in un’epoca di limitatezza di vedute patologica: i politici guardano solo alle prossime elezioni, influenzati dagli ultimi sondaggi o dalla popolarità di un post; gli amministratori d’azienda sono prigionieri dei bilanci trimestrali, concentrati sul valore per gli azionisti; le nazioni negoziano accordi commerciali in base a miopi interessi sovranisti. Viviamo sempre più a lungo, ma pensiamo sempre più a breve termine, come se il futuro non ci riguardasse. 

Per affrontare la crisi climatica servirebbe un salto evolutivo nel modo in cui percepiamo il futuro e reagiamo al rischio. Ma il nostro cervello preferisce, istintivamente, ricompense immediate anche se minori rispetto a benefici maggiori ma distanti. È ciò che gli economisti comportamentali chiamano “sconto intertemporale”: nella nostra percezione, il valore di una gratificazione diminuisce man mano che la proiettiamo nel futuro. Il prezzo che ci sembra ragionevole pagare per ottenere un bene domani è di molto inferiore a quello che saremmo disposti a spendere per averlo subito. Si tratta di un retaggio evolutivo. Molto prima che la Nutella trovasse posto nelle dispense, i nostri antenati avevano già perfezionato sistemi neurali per l’immediatezza: consumare in fretta tutte le calorie disponibili. Se i primi abitanti della savana avessero dedicato troppe energie a pianificare il futuro anziché a sopravvivere al presente, probabilmente non saremmo qui a raccontarlo. Ma oggi quell’adattamento ci gioca contro. 

“A essere insostenibile non è solo il nostro modo di produrre e consumare. È il nostro modo di pensare. Sono le nostre menti, prima ancora del clima, a essere fuori controllo”.

Quando non resistiamo a controllare i messaggi sugli smartphone, quando scrolliamo compulsivamente il newsfeed dei social network, siamo cavie di un’azienda della Silicon Valley che fattura più del PIL di un Paese europeo di media grandezza, ottimizzando ogni dettaglio per prendere all’amo e mantenere ben agganciato il sistema dopaminergico della ricompensa di quasi la metà della popolazione mondiale. Gran parte della cultura iperconsumistica – dal cibo spazzatura all’obsolescenza tecnologica programmata, dai saldi del Black Friday all’abuso di stimolanti e oppioidi – sfrutta gli istinti ancestrali di quella parte del nostro cervello che vuole tutto e subito. Anna Lembke, psichiatra esperta nel trattamento delle dipendenze, paragona i nostri telefonini a “macchine da masturbazione” che somministrano “dopamina digitale” ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Viviamo in quella che è stata definita l’era del “capitalismo limbico”: un modello di business estremamente lucrativo, tecnologicamente avanzato ma socialmente regressivo. Un sistema in cui le industrie globali, spesso con la complicità dei governi, promuovono beni e servizi che incoraggiano l’eccesso e la dipendenza attraverso ricompense cerebrali rapide e continue. Solo che un cervello costantemente agganciato a gratificazioni istantanee non compromette solo il nostro benessere, ma anche quello del pianeta. La perdita di capitale naturale – suolo, acqua, aria, minerali, biodiversità ed ecosistemi – è in costante accelerazione dagli anni Novanta. Stiamo consumando sempre più rapidamente risorse che hanno impiegato millenni a formarsi come se fossero illimitate. Abbiamo barattato ricchezze ecologiche con ricchezze finanziarie, senza considerare le conseguenze. Il modello di crescita che abbiamo sviluppato somiglia sempre più a un ciclo di dipendenza: la ricerca continua del piacere, l’illusione di eccessi senza conseguenze, la negazione dei costi reali. Fino al punto in cui il sistema non regge più. 

Eppure, per quanto il quadro sembri cupo, non è una condanna. È una diagnosi. E come ogni buona diagnosi, serve per curare. Ma la sfida non è solo ecologica, è cognitiva e culturale. Riconoscere che la sicurezza non nasce dalla sovranità nazionale, ma dalla cooperazione internazionale. Che la prosperità non si misura soltanto in crescita economica, ma in equilibri ecosistemici e giustizia intergenerazionale. Cambiare il clima richiede, prima di tutto, cambiare mentalità: ripensare i nostri desideri, i nostri modelli di consumo, le nostre priorità politiche. Soprattutto, significa riappropriarci di un’idea di futuro. Perché il vero limite non è quello del pianeta, ma della nostra immaginazione.

Matteo Motterlini

Matteo Motterlini è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove dirige il Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale e Applicata. È autore di Scongeliamo i cervelli non i ghiacciai. Perché la nostra mente è l’ostacolo più grande nella lotta al cambiamento climatico (Solferino Libri, 2025).

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