È da vent'anni che ci aiuta a orientarci e registra i cambiamenti del nostro territorio. Oggi la sua fotografia della crisi climatica è impietosa.
Dal suo lancio nel 2005, Google Maps è entrato nelle nostre vite diventando, in poco tempo, uno strumento fondamentale per orientarsi nel mondo. Ma a distanza di vent’anni, con due miliardi di utenti mensili, questo strumento può avere una funzione collettiva? In altre parole, può essere d’aiuto per instradarci non solo nello spazio, ma anche nel tempo?
Questa domanda mi è sorta comparando le mappe dell’Italia nel 2005 e oggi: né più né meno che una cartella clinica sullo stato di salute della nostra penisola. Vent’anni di Google Maps svelano come è cambiato – in peggio – il nostro paese, sempre più esposto a fenomeni metereologici estremi e diventato, per questo, un ecosistema molto fragile. Ghiacciai che si ritirano, coste che si erodono, città che si espandono: basta seguire l’evoluzione di questi elementi, Maps alla mano, per rendersi conto che siamo ormai a un punto di non ritorno. Non solo in Italia.
“Quando parliamo di ghiacciai, per esempio, non sono solo le Alpi a essere in condizioni gravi, ma tutto il globo” spiega Sofia Farina, meteorologa e divulgatrice scientifica. Il suo mestiere è sfidante, in un ecosistema social che, per svariati motivi, talvolta rende difficile comunicare i dati e presentare scenari di certo poco confortanti. Nel mondo dei content creator, talvolta l’attenzione ai temi sensibili come gli effetti del cambiamento climatico sul paesaggio dura nello spazio dell’intrattenimento. È il caso di un video andato virale che mostra una ragazza su un gonfiabile che si lancia nelle acque di un ghiacciaio in fusione: il divertimento di questa experience addolcisce l’amarezza del fenomeno irreversibile in corso, e la reazione emotiva che ne scaturisce dura il tempo della performance. Così, a galoppo tra un contenuto divertente e una news che si aggancia al sentiment dei suoi utenti, non facciamo che cavalcare da un’emozione all’altra, anche quando un po’ di buon senso ci dovrebbe indurre a riflettere – come nel caso dei recenti crolli multipli di roccia che hanno interessato la cima Falkner, nel gruppo delle Dolomiti del Brenta, a causa della degradazione del permafrost. “In condizioni normali – spiega Farina –, il ghiacciaio dovrebbe crescere durante i mesi invernali, avere quello che gli esperti chiamano un aumento di massa. Invece, la crisi climatica è così avanzata che la neve che si posa sul ghiacciaio si fonde prima della fine dell’estate. Negli ultimi vent’anni tutti i ghiacciai sono arretrati”. La gravità della fusione dei ghiacciai è simboleggiata dal Glacier Loss Day: una data che, come l’Earth Overshoot Day, indica il momento in cui la neve accumulatasi l’inverno sui ghiacciai si è sciolta e comincia la fusione del ghiaccio: “Nel 2025 questo giorno è caduto il 4 luglio scorso, ed è arrivato in anticipo di sei settimane rispetto agli ultimi vent’anni, complici anche le ondate di calore che hanno fuso la poca neve accumulatasi”.
Secondo Farina, davanti a questo punto di non ritorno sarebbe urgente imparare a gestire una montagna con un aspetto e criticità nuove: “La montagna sta cambiando il suo volto, con la diminuzione del permafrost diventa anche più fragile e quindi vanno gestiti i nuovi rischi connessi. Al netto di importanti campagne di monitoraggio, che finora hanno messo in sicurezza luoghi e persone come nel caso di Blatten, il villaggio svizzero distrutto quasi totalmente da una frana lo scorso maggio, non siamo pronti” spiega. Se in alta quota la situazione appare irreversibile, di poco attenuata dall’utilizzo di teli che servono a mantenere una minima quantità di ghiaccio, diverso è lo scenario lungo le coste. Le ultime proiezioni mostrano che nel mondo, fra 75 anni, potrebbe scomparire la metà delle spiagge sabbiose, e va da sé che vivere in un hotspot del cambiamento climatico come l’Italia non sia proprio confortante: “Nella nostra penisola l’erosione delle coste è determinata in parte dalla sua conformazione, che la accentua, ma poi è legata ai fenomeni atmosferici sempre più estremi, come la fusione dei ghiacci e l’espansione termica degli oceani, che innalza il livello del mare, oppure a fenomeni violenti come le mareggiate” spiega Serena Giacomin, fisica climatologa. Giacomin è anche direttrice scientifica dell’Italian Climate Network, un’associazione nata a Roma nel 2011 da un gruppo di persone animate da un sentimento comune per la lotta al cambiamento climatico e oggi impegnata a portare avanti progetti di advocacy, formazione e divulgazione: “Ormai è chiaro che il cambiamento climatico impatti anche su aspetti non strettamente ecologici, come i diritti e la salute. Per questo il nostro vuole essere un approccio olistico. È questo metodo alla base dei meccanismi di miglioramento”.
“Tra i 664 comuni costieri dell’Italia, più di 50 hanno visto arretrare il loro tratto costiero di oltre il 50%”.
Come puntualizza il Dossier coste di WWF Italia, negli ultimi 50 anni gli oltre 7mila chilometri di coste italiane hanno raggruppato gli ecosistemi che più hanno subito le maggiori trasformazioni ambientali. Le attività umane, come l’edilizia aggressiva e la deforestazione del passato, hanno, in pratica, facilitato i processi di erosione costiera in atto, di cui i fenomeni legati al global warming sono un boost: “Non è una situazione spacciata – rassicura Giacomin –, tuttavia è importante essere consapevoli che i margini di miglioramento possono dipendere solo da noi. Si può rallentare il processo di degenerazione, ma sarebbe importante avere le istituzioni preparate e una comunità davvero consapevole che l’equilibrio sulle nostre coste è fragile”. Arrestare questo fenomeno significa preservare la biodiversità costiera, con il 25% di specie animali marine considerate a rischio. Consultando la mappa delle coste elaborata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), è possibile farsi un’idea dell’impatto umano specialmente lungo la retrospiaggia, che demarca la spiaggia dalle zone dove comincia la vegetazione o gli edifici. Gli ultimi dati ISPRA pubblicati nel 2020 e relativi a un monitoraggio di circa vent’anni, mostrano una coperta di sabbia sempre più corta: tra i 664 comuni costieri della penisola, più di 50 hanno visto arretrare il loro tratto costiero di oltre il 50 per cento. Per Serena, se si vuole toccare con mano questa fragilità, occorre andare sul Delta del Po, dove un timelapse di Google Maps rivelerebbe il suo stato di salute sempre più precario: “È un ecosistema molto esile, reso tale dalla subsidenza naturale, dall’innalzamento del mare e dalla minaccia del cuneo salino, un fenomeno naturale caratterizzato dalla risalita dell’acqua di mare lungo il corso del fiume. Questo produce effetti a cascata, come l’impossibilità di irrigare i campi”.
A pagare lo scotto dei fenomeni meteorologici estremi ci sono le città, sempre meno adatte a reggere l’urto di nubifragi e alluvioni. Eppure, negli ultimi vent’anni non si è mai arrestata l’espansione delle metropoli italiane. Secondo i dati ISPRA, nel periodo dal 2005 al 2022 l’Italia ha registrato un ritmo medio di consumo di suolo pari a circa 19 ettari al giorno, per un totale di 69 chilometri quadrati soltanto nel 2022. Il 2024 è stato, peraltro, un anno spartiacque, data la sempre maggiore diffusione della popolazione nelle aree più urbanizzate. Secondo Michele Cerruti But, docente di urbanistica presso il Politecnico di Torino, le ragioni sono culturali: “Solo 20 anni fa valeva ancora la retorica globale delle città come salvezza. Prima della crisi del 2008, infatti, si nutriva una grande fiducia nelle metropoli, poi tradottasi in città europee e, in senso lato, occidentali, sempre più dominate da logiche finanziarie”. Come spiega Cerruti But, nei primi anni Duemila questa fiducia si rifletteva per esempio nel riutilizzo di spazi dismessi e di grandi progetti iconici realizzati negli anni Novanta, come quelli di Bicocca a Milano o del Lingotto a Torino: “Con la crisi della manifattura, le città ereditano luoghi giganteschi e investono in essi grandi speranze”.
Qualche anno dopo, però, la periferia ha visto il graduale abbandono delle attività industriali, così lo sforzo di recuperare edifici dismessi non ha tenuto più. I patrimoni familiari si sono gradualmente erosi e i cittadini impoveriti, con istituzioni pubbliche sempre più incapaci di garantire servizi in centri sempre più popolosi. I satelliti di Google Maps non possono fare una tomografia socio-antropologica delle nostre città, ma uno sguardo alla costellazione dei grandi capoluoghi italiani è pur sempre una cartella clinica che può dire tanto sull’impatto ambientale di centri così densi”. Come spiega Cerruti But, la bulimia territoriale di una metropoli non segue gradualità né schemi precisi, tanto che: “Dopo la crisi le grandi città arrancano e c’è un ritorno di attenzione verso l’Italia di Mezzo, quel territorio provinciale che era stato in parte dimenticato. Un’espansione a cui si guarda criticamente solo da dopo la pandemia, quando l’impatto urbano sull’ambiente e il cambiamento climatico entrano anche nelle politiche – Europee e nazionali”. Perché a rischio non è più solo la fragile Venezia, ma ogni città: “È da almeno vent’anni che nella ricerca si parla di Isole di Calore Urbano (UHI), le bolle roventi della densità urbana di cui oggi leggiamo anche sui giornali”. Nonostante questo, la moltiplicazione di nuovi cantieri sembra negare l’impatto climatico di città come Milano, che vanta un decimo delle volumetrie di edifici realizzati in Italia negli ultimi dieci anni. Secondo «la Repubblica», il capoluogo lombardo assorbe da solo circa un terzo degli investimenti immobiliari totali che arrivano ogni anno in Italia, passando da 1,75 miliardi nel 2023 a 3,5 miliardi nel 2024.
“Nel periodo dal 2005 al 2022 l’Italia ha registrato un ritmo medio di consumo di suolo pari a circa 19 ettari al giorno, per un totale di 69 chilometri quadrati soltanto nel 2022”.
E così le aree urbane rese impermeabili dalla cementificazione continuano a creare vere e proprie bolle microclimatiche che accumulano calore e restituiscono temperature più alte della media, con implicazioni sulla vivibilità e – cosa molto più seria da affrontare – sulla salute delle persone: lo mostra una recente ricerca coordinata dal Cnr-Ibe, in collaborazione con Ispra. Analizzando le immagini satellitari di Google Earth Timelapse in vent’anni, invece, è possibile rendersi conto di come la città abbia fagocitato le aree dell’hinterland con nuove aree residenziali, logistiche e commerciali, spesso sottraendo superfici ad uso agricolo e contribuendo alla frammentazione del paesaggio. Eppure, la sensibilità climatica in Italia ha già partorito iniziative interessanti; fra queste l’ecovillaggio di Torri Superiore, esempio di recupero di un borgo medievale sottratto all’oblio e trasformato in una vibrante comunità di residenti dediti ad attività agricole a impatto zero, all’arte e, soprattutto, a un senso di comunità in dialogo con l’intero ecosistema. Questo esempio di ecologia integrale – per mutuare un passo dalla Laudato si’, l’enciclica verde di papa Francesco – sfuma nella soverchiante concentrazione abitativa delle grandi città, percepite più come spazi da occupare, place to be dove riscattarsi socialmente, che luoghi da abitare in chiave comunitaria: “Certo, ci sono alcuni luoghi magici – continua Michele – in cui per alcuni anni l’Innovazione Sociale ha prodotto un nuovo modo di immaginare la città, anche fuori dalla città. Un modello che non sempre funziona, e che mette la metropoli di fronte a una tripla sfida per il futuro: la gestione delle crescenti disuguaglianze, l’adattamento al clima che cambia e il progetto della mobilità – un diritto e una urgenza contemporanea”.
Più di quarant’anni fa, in una canzone dal titolo profetico, Crisi metropolitana, Giuni Russo cantava: “Vedere la società mi cambia spesso di umore. Io mi dissocio da me”. Oggi, in un mondo attraversato da crisi non più soltanto urbane ma climatiche, ecologiche, sociali, forse è il momento di ribaltare quella dissociazione. Forse è il momento di associarci, di ritrovare legami, mappe comuni, orizzonti condivisi. E chissà, magari anche uno strumento nato per orientarci tra le strade come Google Maps può diventare il punto di partenza di un nuovo cammino.