Le ricerche scientifiche contemporanee sulla creazione della vita artificiale si fondano sulla sorprendente persistenza di due miti opposti: uno radicato nella capacità della materia stessa di evolversi e crescere, l'altro nel soffio vitale con cui il linguaggio e il calcolo animano un mondo altrimenti inerte.
Un misterioso testo arabo medievale, successivamente tradotto in latino con il titolo Liber Aneguemis, contiene uno tra i primi resoconti sulla creazione artificiale della vita. Il testo descrive con precisione come produrre artificialmente una creatura cosciente: una mucca deve essere inseminata con sperma umano e rinchiusa al buio per quaranta giorni, fino a quando l’embrione non inizia a prendere forma. Una volta estratto dal grembo, il feto va nutrito con sangue umano e sostanze minerali, e fatto crescere fino a diventare un piccolo essere antropomorfo. Il testo sostiene che questa creatura, una volta completato il suo sviluppo, parlerà al suo creatore e gli trasmetterà la conoscenza dei segreti nascosti della natura. Questo testo è la prima descrizione di ciò che gli alchimisti europei avrebbero in seguito denominato homunculus: un essere umano in miniatura a volte descritto come un’aberrazione mostruosa, altre come un essere perfetto e immacolato dotato di poteri miracolosi. Il medico e occultista tedesco del XVI secolo Paracelso era ossessionato da queste creature e ne descrisse a sua volta il procedimento per produrli in recipienti di vetro sigillati. La storia dell’homunculus è raccontata in dettaglio dallo storico della scienza William R. Newman nel libro Promethean Ambitions. Alchemy and the Quest to Perfect Nature, in cui sostiene che questi esseri, nonostante le loro origini magiche e mitiche, anticiparono molti dei dilemmi etici e filosofici che avrebbero in seguito caratterizzato la scienza e la tecnologia moderne. Fin dalla sua nascita, l’homunculus, una creatura tanto naturale che mostruosa, al contempo organismo e artefatto, ha suscitato dibattiti e interrogativi sulla possibilità di produrre artificialmente la vita.
L’homunculus alchemico, del resto, non è l’unico mito tecnologico-culturale che si confronta con il sogno della vita artificiale. Dalle tradizioni mistiche ebraico-europee emerge il golem: un corpo umanoide di argilla o fango, animato dalla magia piuttosto che dal sangue. Il mito del golem affonda le sue radici in una tradizione mistica che ha sempre enfatizzato la capacità del linguaggio nel plasmare il cosmo: l’oscuro testo Sefer Yetzirah (“Libro della Creazione”), datato tra il III e il VI secolo d.C., suggerisce che la creazione dell’intero universo sia emersa da un processo di ricombinazione delle lettere dell’alfabeto ebraico. Così come, nel mito di creazione, Dio produce il cosmo attraverso un’operazione puramente linguistica, nel mito del Golem riecheggia lo stesso principio: in questo caso è l’essere umano ad animare la materia senza vita incidendo la parola ebraica emeth (“verità”) sulla sua fronte. Per annientare la creatura, che spesso sfuggiva al controllo del suo creatore, bastava cancellare la prima lettera della parola magica, trasformando emeth in meth (“morte”).
È interessante notare che questi due influenti miti sulla vita artificiale emergono in cornici cosmologiche distinte. L’homunculus incarna la ricerca della continuità tra il mondo vivente e quello inanimato, una continuità che nasce dalla coltivazione della capacità della materia stessa di evolversi e crescere. Il golem, al contrario, appartiene a un universo in cui la materia risponde ciecamente al potere creativo del linguaggio, e in cui, senza la forza delle parole che li animano, i materiali rimangono inerti e impotenti. Insieme, questi miti tracciano due traiettorie persistenti nella ricerca della vita artificiale: l’uno radicato nel potenziale generativo della materia, l’altro nella forza animatrice del linguaggio e del simbolo. È sorprendente che questi retaggi continuino a plasmare il modo in cui immaginiamo e creiamo la vita artificiale ancora oggi. Nel 2008, gli artisti Oron Catts e Ionat Zurr esponevano al MoMA di New York un’opera d’arte intitolata Victimless Leather: A Prototype of a Stitch-less Jacket grown in a Technoscientific “Body”. Un’opera senza precedenti: una scultura semi-vivente di forma umana, ottenuta coltivando tessuto connettivo di topo su un’impalcatura artificiale biodegradabile. Per essere mantenuta in vita l’opera necessitava di cura e nutrimento costanti in condizioni perfettamente sterili. Sospesa all’interno di un recipiente trasparente, Victimless Leather incarnava l’immagine mitica dell’homunculus. Dopo diverse settimane di esposizione al MoMA, probabilmente a causa di una contaminazione, il tessuto iniziò a cambiare in modo incontrollato, trasformandosi gradualmente in una massa informe. Tra le polemiche dell’opinione pubblica, gli artisti presero la decisione controversa di sottoporre l’opera a “eutanasia”, e spensero il suo sistema di supporto vitale: un gesto performativo che metteva in evidenza la complessità etica della creazione artistica con substrati viventi.

L’opera Victimless Leather di Oron Catts e Ionat Zurr (2008, TC&A Project)
L’opera faceva parte del Tissue Culture & Art Project (TC&A), un progetto fondato nel 1996 presso la University of Western Australia in cui Catts e Zurr sperimentavano l’uso di substrati viventi nelle pratiche artistiche. Il progetto rappresentava un’esplorazione pionieristica della bioarte, una branca dell’arte contemporanea che, manipolando i substrati biologici, riflette sulle implicazioni delle biotecnologie. In un’epoca di crescente controllo tecnico sui processi biologici, il lavoro di Catts e Zurr ambiva a illuminare l’agentività e l’autonomia della materia vivente rispetto ai dettami del controllo umano. “Più la vita viene strumentalizzata, e resa un prodotto per la manipolazione umana, più alla materia – vivente, semi-vivente o non vivente – viene attribuita vitalità e agentività”, hanno commentato gli artisti. “La nostra pratica si colloca nell’ambito di un dialogo con la natura piuttosto che del controllo di essa”.
Simili approcci sottolineano la plasticità e l’autodeterminazione della materia vivente, un’idea che era già centrale nell’antica mitologia dell’homunculus, ma la ricerca sulla vita artificiale ha seguito anche una strada molto diversa. Quest’altra traiettoria, più vicina all’eredità del golem che alle procedure chimiche e biologiche dell’alchimia, è nata in parte dal pensiero cibernetico del dopoguerra, che ha iniziato a sottolineare la crescente importanza dell’informazione e del linguaggio nel plasmare la vita. In un breve e provocatorio libro intitolato God & Golem, Inc., Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica, speculava sulla possibilità di inviare un essere umano “attraverso una linea telegrafica”, convertendo la totalità del suo corpo biologico in una stringa lineare di codice. Come già nel mito del golem, il linguaggio, qui, detiene tutto il potere: la dimensione corporea è indifferente, se non irrilevante, rispetto alla forma di vita che ospita.
Al centro di molti approcci cibernetici alle scienze della vita, specialmente all’interno della cosiddetta “prima ondata” del pensiero cibernetico, c’è l’idea dell’informazione come fondamento della complessità sia negli organismi che nelle macchine. Da questa prospettiva i computer e gli organismi, nonostante le loro differenze materiali, manifestano, di fatto, le stesse funzioni. Negli anni Sessanta lo scienziato sovietico Efim Liberman propose un modello della cellula come “computer molecolare”, in cui suggeriva che le entità biologiche fossero sistemi di elaborazione dell’informazione le cui funzioni potevano, in linea di principio, essere realizzate in modo equivalente nella materia organica o nei circuiti elettronici. In altri termini, la vita stessa poteva essere concepita come una manifestazione specifica di un “computer universale”, che poteva operare tanto sulla materia biologica quanto su un substrato inorganico. Questa idea della vita come processo computazionale implicava la sua indipendenza da qualsiasi specifica incarnazione, riservando al substrato materiale non il ruolo di collaboratore attivo, ma di supporto neutrale su cui la vita, in quanto funzione disincarnata, poteva essere inscritta.

Diagramma esplicativo dell’equivalenza tra un computer convenzionale e la cellula vivente. (Efim Liberman, 1979)
Per quanto separare la vita dal corpo che la ospita possa sembrare un’impresa improbabile, gli approcci alla vita artificiale che prescindono dalla materialità dei corpi continuano ad esercitare una forte influenza ancora oggi. Un esempio significativo è il progetto OpenWorm, iniziativa open source lanciata nel 2011 con l’obiettivo di costruire un gemello digitale perfetto del nematode Caenorhabditis elegans. Questo minuscolo verme, poco più largo di un capello umano, ha meno di mille cellule in totale (302 delle quali sono neuroni), una semplicità che lo ha reso uno degli animali più studiati in biologia. Come ha recentemente scritto Claire L. Williams su Wired, OpenWorm mira a simulare il verme con precisione cellulare, persino molecolare, integrando ogni dettaglio conosciuto della sua anatomia e fisiologia in un modello funzionale che si comporta esattamente come la sua controparte vivente. Se il progetto dovesse avere successo, avremmo la prima forma di vita (se di vita si può parlare) completamente virtuale. La portata del progetto è titanica: con l’attuale potenza di calcolo, simulare solo cinque secondi di comportamento del verme richiede circa dieci ore di elaborazione. Per portare a termine l’opera, se mai sarà possibile, potrebbe essere necessario un altro decennio, decine di milioni di dollari e esperimenti su centinaia di migliaia di vermi reali per registrare e mappare ogni singola attivazione neurale. Pur riconoscendone il valore scientifico, nel suo articolo Williams si mostra sospettosa delle implicazioni epistemologiche e ideologiche di una simulazione totale della vita. Sebbene l’obiettivo di OpenWorm sia quello di far progredire la conoscenza biologica, e non quello di creare una sorta di “Matrix dei vermi”, ricerche di questo tipo sono inevitabilmente foriere di considerazioni filosofiche ed etiche sul rapporto tra la vita, i suoi substrati e i suoi simulacri computazionali. “Nessuno potrebbe scambiare un modello biologico con la realtà. Ma una simulazione così totalizzante apre un vaso di Pandora ben diverso”, osserva Williams. “È una mappa perfettamente sovrapponibile al territorio, e, in quanto tale, invita a nuove speculazioni sulla natura di quel territorio… Se un modello aiuta gli scienziati a rispondere alle loro domande, una simulazione ne solleva di nuove. Ad esempio, cosa separa un verme virtuale dalla sua controparte vivente, se i due sono identici molecola per molecola?”

Screenshot di una simulazione di OpenWorm.
Alla luce dei rapidi sviluppi nel campo della vita artificiale, la domanda di Williams è tutt’altro che retorica. In un articolo del 2024, un team di ricercatori di Google DeepMind, guidato dall’ingegnere Blaise Agüera y Arcas ha reso pubblico un esperimento sorprendente: in un “brodo” digitale di programmi casuali scritti in un linguaggio di programmazione semplicissimo, piccoli frammenti di codice hanno acquisito spontaneamente la capacità di replicarsi ed evolversi. Dopo milioni di interazioni, queste stringhe di codice, lunghe solo 64 byte, hanno iniziato ad auto-replicarsi, organizzarsi, e competere tra loro, proliferando come organismi rudimentali in provetta. Dovremmo considerare questi processi digitali come forme di vita? E, soprattutto, dovremmo trattare la vita stessa come un processo indipendente dal substrato, ugualmente realizzabile nella carne o nel silicio? In una recente pubblicazione intitolata What Is Life?, Agüera y Arcas, capo del team che ha realizzato l’esperimento, si colloca in continuità con l’eredità intellettuale di scienziati come Turing e von Neumann, e sostiene che la vita e la computazione sono, di fatto, la stessa cosa. “Le nostre simulazioni suggeriscono che, in generale, la vita nasce spontaneamente ogni volta che le condizioni lo consentono. Tali condizioni sembrano semplicissime: poco più di un ambiente in grado di supportare la computazione, un certo grado di casualità e una sufficiente quantità di tempo”. Da questa prospettiva, i frammenti di codice emersi dal brodo digitale “cucinato” da Agüera y Arcas e i suoi collaboratori non sarebbero soltanto simulacri della vita, ma forme di vita vere e proprie.

Un “ecosistema” artificiale di programmi auto-replicanti su una griglia digitale. Fonte: Agüera y Arcas et al., 2024.
Dall’homunculus intriso di sangue al corpo di argilla del golem, dalle sculture semi-viventi coltivate nel vetro ai vermi simulati “in silico”, il sogno di creare la vita oscilla sempre tra due poli: uno che concepisce la materia stessa come fertile e dinamica, e un altro che vede la vita come il prodotto di una logica simbolica astratta. Entrambe le visioni sono ancora influenti, ed entrambe hanno portato a straordinari risultati scientifici, plasmando non solo le nostre tecnologie, ma anche la nostra comprensione della natura. Davanti a queste ricerche, dobbiamo immaginare la vita artificiale come un prodotto della tenace vitalità della materia o come una funzione universale, fondamentalmente separata dal substrato che la ospita? È chiaro che, in un mondo ecologicamente fragile e sempre più avviluppato dal controllo dei sistemi digitali, questa domanda non è affatto priva di implicazioni più profonde. Difendere l’idea che esista qualcosa, nel vivente, che non possa essere simulato, ridotto a un dato, o astratto in una “funzione” non è una questione meramente scientifica. Pensare alla materia come un fondamento esistente significa anche pensarla “resistente” alla logica estrattiva di sistemi tecnologici sempre più pervasivi e affamati di informazione. In ogni caso, il golem, l’homunculus e i loro discendenti moderni mettono in luce la complessità di orientarsi in un mondo in cui la frontiera tra naturale e artificiale è sempre più permeabile. Entrambe queste entità cercano di varcare quel confine, ma lo fanno in modi radicalmente diversi, plasmati da, e dando origine a, cosmologie altrettanto differenti.