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Danilo Zagaria
Anche gli squali sognano di perdere i denti

Anche Gli Squali Sognano Di Perdere I Denti Zagaria Cover
biologia clima Scienza

Tanta anidride carbonica in atmosfera significa più acidità in oceano. Le conseguenze sono numerose e possono sembrare di poco conto, ma nel complesso equilibrio degli ecosistemi il problema di uno è un problema di tutti

Shark Bay è una delle mete più amate e frequentate della costa occidentale dell’Australia. È un dedalo di isolotti, scogliere a picco sul mare e praterie sottomarine che offre riparo a un gran numero di specie. In queste acque vivono moltissimi dugonghi, delfini, pesci e, ovviamente, i numerosi squali che danno il nome alla baia. Tuttavia, Shark Bay è famosa soprattutto per una formazione sedimentaria particolare: gli stromatoliti.

A pochi passi dalla riva non è raro imbattersi in piccoli scogli dalle forme bizzarre che emergono dall’acqua. Si tratta in realtà di colonie di batteri che effettuano la fotosintesi e, grazie alla loro attività metabolica, producono sedimenti che si accumulano strato dopo strato. Oltre a essere delle straordinarie strutture che mostrano in modo evidente la connessione fra la componente biologica e quella abiotica (cioè non vivente) del mondo, gli stromatoliti fossili sono una delle testimonianze più antiche della vita sulla Terra. Alcune formazioni risalgono al Precambriano e sono databili a più di 3,5 miliardi di anni fa.

È proprio a Shark Bay, fra gli stromatoliti, che inizia il nuovo libro di Peter Godfrey-Smith, filosofo della scienza e autore di libri di straordinario successo, fra cui Altre menti (2018) e Metazoa (2021), pubblicati in Italia da Adelphi. In questo nuovo volume, Vivere sulla Terra. La vita, la coscienza e la costruzione del mondo naturale, che va a completare un’ideale trilogia sull’esplorazione delle forme e delle coscienze animali, l’autore si propone di allargare il proprio orizzonte e di includere nel suo discorso anche un elemento che fino ad ora era rimasto ai margini: Homo sapiens. Il risultato è un vertiginoso salto, un viaggio di miliardi di anni che mette in evidenza le connessioni più profonde che legano gli organismi (batteri, uccelli, esseri umani e non solo) al pianeta. In che modo una specie cambia il mondo? È possibile che il nostro agire influenzi l’ambiente e la sua evoluzione? Possedere quella che chiamiamo “mente”, cambia le cose oppure no?

Si tratta di domande a cui è molto difficile rispondere, ma Godfrey-Smith sa muoversi in modo molto agile in mezzo ai grandi temi e utilizzare a proprio vantaggio molti esempi tratti dall’etologia, dall’evoluzionismo e più in generale dalla biologia. E sebbene questo libro risulti un azzardo – è in un certo senso il più confuso della sua produzione – contiene alcuni spunti assai stimolanti, che possono essere utili per guardare all’attuale crisi climatica e della biodiversità da un’altra prospettiva.

Un’altra caratteristica che si è rivelata parimenti ubiquitaria, forse in modo meno sorprendente, è la capacità di produrre effetti, di cambiare l’ambiente circostante. Inizialmente potrebbe essersi trattato soltanto del consumo di sostanze nutritive e dell’eliminazione di scarti, eppure, fin dall’inizio, la vita non ha mai lasciato le cose inalterate.

Partendo da questo assunto, il filosofo australiano descrive alcuni grandi eventi che hanno modificato la storia della vita e il pianeta stesso. Ed è in questo senso che propone un parallelismo fra gli effetti più drammatici dell’operato attuale dell’umanità e quanto successo in passato a causa dell’attività di altri organismi, spesso piccoli batteri. Sono stati infatti i batteri fotosintetici – come quelli che hanno formato gli stromatoliti nel profondo passato della Terra – a espellere come prodotto di scarto l’ossigeno. Iniziando a diffondersi 3,5 miliardi di anni fa, col tempo, questo elemento ha raggiunto un’elevata concentrazione in atmosfera, portando all’estinzione quelle forme di vita per le quali l’ossigeno era un veleno e un grande evento ossidativo, poiché l’ossigeno reagiva con altri elementi già presenti. La Terra di oggi è il risultato di quel processo trasformativo e catastrofico. In un processo simile ma molto più veloce, pure Homo sapiens sta modificando la composizione dell’atmosfera bruciando idrocarburi fossili e liberando grandi quantità di anidride carbonica.

Il libro di Godfrey-Smith ci invita a fare attenzione alle conseguenze, al modo in cui un evento – che può essere straordinariamente benevolo per una o più specie – può modificare talmente tanto il contesto da risultare determinante per la sopravvivenza di altre forme di vita o per la stabilità di processi che durano da tempo. Ci sono ricercatori che a questi legami, spesso invisibili, dedicano anni del loro lavoro, se non intere carriere, cercando di mostrare che un problema globale come la crisi climatica ha delle ripercussioni drammatiche per alcuni viventi. Un esempio classico viene ancora una volta dal mare e riguarda la cosiddetta acidificazione delle acque oceaniche.

Oggi sappiamo che gli oceani, a causa dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, stanno diventando più acidi. Questo avviene perché gli oceani, proprio come le foreste, la assorbono trasformandola in acido carbonico. Il grande problema è che gli oceani, per tamponare tale eccesso di acidità, ricorrono a un composto chiamato carbonato di calcio, lo stesso che molluschi e coralli utilizzano per costruire le loro strutture. In altre parole, aumentando la quantità di anidride carbonica in atmosfera, sottraiamo il “materiale da costruzione” a un gran numero di esseri viventi sottomarini, mettendone in difficoltà la sopravvivenza.

A causa degli umani che da poco meno di due secoli bruciano combustibili fossili per vivere e modificare il proprio stile di vita, fra qualche secolo gli squali avranno denti deboli e non più sagomati come un tempo, diventando incapaci di procacciarsi il cibo.

Ma non è finita qui. Se, come previsto, gli oceani diventeranno ancora più acidi, animali come gli squali potranno andare incontro a una serie di problemi causati da un’acqua decisamente più corrosiva che in passato. A farne le spese saranno i loro denti, come racconta uno studio pubblicato su Frontiers in Marine Science. I ricercatori hanno studiato gli effetti di un’acqua con un pH di 7,3 (cioè ben più acida di quella attuale, che si attesta su un pH di 8,1 e che gli scienziati prevedono potrà caratterizzare i mari del 2300) sui denti di squali pinna nera del reef (Carcharhinus melanopterus). Essendo animali di modeste dimensioni e che spesso sono ospitati in piccoli acquari, non è stato difficile portare a termine lo studio, e i risultati non sono affatto incoraggianti. 

La catena di cause ed effetti è sorprendente: a causa degli umani che da poco meno di due secoli bruciano combustibili fossili per vivere e modificare il proprio stile di vita, fra qualche secolo gli squali avranno denti deboli e non più sagomati come un tempo, diventando incapaci di procacciarsi il cibo. Quali effetti potrebbe avere questo deficit sul loro stile di vita, sulla loro sopravvivenza e più in generale sull’evoluzione e sull’ecologia delle specie interessate dal fenomeno? Per adesso non possiamo dirlo.

Il quadro è reso ancora più complesso dal fatto che l’acidificazione degli oceani è accompagnata da altri fenomeni, come l’aumento delle temperature, in grado di incidere in modo combinato sugli ecosistemi marini e i loro abitanti, generando effetti ancora poco chiari alla comunità scientifica. Uno recente studio pubblicato su Communications Biology ha indagato il modo in cui piccoli organismi noti come briozoi reagiscono a questo tipo di stimoli. Si tratta di esseri particolarmente interessanti perché ogni individuo presente nelle loro colonie diffuse sui fondali a cui sono ancorate costruisce l’involucro che lo accoglie con il carbonato di calcio, cioè il composto che l’acidificazione sta progressivamente riducendo negli oceani del pianeta. Gli scienziati hanno preso in esame due specie (Pentapora ottomuelleriana e Myriapora truncata), entrambe diffuse nelle basse sorgenti vulcaniche sottomarine dell’isola di Ischia, per comprendere come reagiscono in acque con un pH più acido del normale e in un contesto, quello del Mediterraneo, caratterizzato come sappiamo da temperature più alte della media negli ultimi anni.

I risultati di questo studio pionieristico sottolineano quanto ancora poco sappiamo su questi organismi e sugli habitat che li ospitano. I ricercatori hanno però scoperto che queste due specie di briozoi, pur possedendo grandi capacità di adattamento agli shock ambientali, possono comunque andare in crisi quando più pressioni ambientali, come in questo caso, si rafforzano a vicenda e ne mettono a repentaglio la sopravvivenza. Lo studio mette anche in evidenza, ancora una volta, un fatto drammatico ma incontrovertibile: non tutte le specie reagiscono allo stesso modo.

Pentapora ottomuelleria sembra maggiormente esposta rispetto a Myriapora truncata e quindi a rischio in un contesto in rapida evoluzione come il Mediterraneo. I ricercatori sottolineano anche come sia importante tentare di comprendere non soltanto come si comportano le specie in esame in mari che cambiano sempre più velocemente, ma anche quelle che vivono a stretto contatto con loro o addirittura al loro interno, come batteri, archei, virus, di cui per ora sappiamo pochissimo. 

Secondo uno studio pubblicato lo scorso giugno su Global Change Biology, la situazione globale per quanto riguarda l’acidificazione degli oceani è molto più critica di quanto non si pensasse. Gli scienziati, infatti, ricalibrando alcuni calcoli e raccogliendo i dati provenienti da molti altri studi effettuati negli ultimi anni, hanno compreso che sarebbe accettabile un aumento dell’acidità del 10% rispetto ai valori preindustriali, cioè prima che l’umanità iniziasse a bruciare idrocarburi. Secondo le stime, però, quel valore soglia è stato superato circa venticinque anni fa. La situazione è poi peggiorata ancora sia in profondità (nel 60% dei casi) sia in superficie (nel 40% dei casi). Con questo studio si è voluto mettere in evidenza come un altro dei cosiddetti planetary boundaries – cioè quei parametri ecologici fondamentali definiti da un team guidato dall’ecologo svedese Johan Rockström nel 2009 in un articolo seminale dal titolo quanto mai esplicito: A Safe Operating Space for Humanity (Uno spazio di manovra sicuro per l’umanità) – sia stato a tutti gli effetti superato.

Tornano quindi alla mente le parole di Godfrey-Smith sull’importanza di comprendere i nessi causali, i legami profondi e più in generale la complessità della rete ecologica che ricopre il pianeta su cui viviamo.

Mentre andiamo avanti insieme, siamo parti vive di un sistema più vasto che include viventi e non viventi. Pur non somigliando molto a un organismo, si tratta di un sistema dove la parte vivente è strettamente legata a quella non vivente. La Terra è stata trasformata in qualcosa di vivo dagli organismi che ospita, pur non essendo viva in sé.

Danilo Zagaria

Danilo Zagaria è biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale. Scrive di libri, scienza e animali su diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale è La Linea Laterale. Nel 2020 ha fondato la rivista letteral-scientifica «Axolotl». Con add editore ha pubblicato In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene, finalista dell’edizione 2023 del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, e Il groviglio verde. Abitare le foreste dal Mesozoico alla fantascienza.

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