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Manuela Gialanella
Che ci fa una medusa cinese vicino a Trieste?

Che Ci Fa Una Medusa Cinese Vicino A Trieste Cover Gialanella
animali biologia

Racconta quel che ancora non sappiamo sulle specie aliene e dimostra quanto è complesso il nostro rapporto con loro.

Immaginare un omino che corre sul guardrail accanto alla macchina, velocissimo.

Osservare la gara fra due gocce d’acqua sulla finestra quando piove.

Camminare senza mai calpestare le righe tra le piastrelle.

Forse pensavate di essere le uniche persone al mondo a farlo, e invece gran parte dell’umanità si intrattiene ogni giorno con questi piccoli giochi mentali. Da piccola io ne facevo uno in particolare: mettevo le mani a coppa intorno agli occhi, a imitare un binocolo, e mi guardavo intorno fingendo di essermi persa in un mondo misterioso e disabitato. Potevo passare ore a immaginarmi come un’esploratrice solitaria in cerca di avventure e creature sconosciute. Per far funzionare il gioco, però, dovevo far rientrare nella mia inquadratura solo elementi naturali. Niente case, macchine o insegne del Minimarket da Cesidia che denunciassero la presenza di esseri umani.

Con il tempo mi sono accorta che questo gioco diventava sempre più frustrante. Anche stando seduta su un prato circondato dalle montagne abruzzesi o sdraiata sul fondale sabbioso del mare di Pozzuoli, non riuscivo mai a escludere del tutto le prove della nostra presenza dal mio campo visivo. C’era sempre un traliccio dell’elettricità, un brandello di spazzatura, una strada che rompeva l’illusione. Le nostre tracce sono ovunque nel mondo, anche nei luoghi più “naturali” che ci vengono in mente.

Justin Adams, all’epoca membro dell’ONG ambientalista The Nature Conservacy, commentò la questione in un’intervista ripresa dalla BBC nel 2016: “Senza dubbio stiamo influenzando l’intero pianeta. Da un certo punto di vista, non c’è più nessun posto sulla Terra che non sia stato toccato dagli esseri umani”.

“Le specie aliene minacciano non solo la biodiversità, ma anche la salute e il benessere umano. Avrebbero causato danni per quasi duemila miliardi di dollari in cinquant’anni”.

Prendiamo la grotta di Luftloch nel Carso triestino: si affaccia sul fondo di una dolina e scende giù, fino a 300 metri di profondità. Luftloch era già nota agli inizi del Duemila, ma l’esplorazione di tutte le sue complesse ramificazioni continua ancora oggi. Soltanto l’anno scorso si è scoperto che al suo interno correva parte del fiume Timavo, in una delle sue porzioni ipogee. Proprio in quel fiume sotterraneo, di recente, un gruppo di ricerca dell’Università di Trieste ha scoperto la presenza di una medusa d’acqua dolce proveniente dalla Cina. Si tratterebbe di una piccola medusa lunga circa 1 cm, appartenente alla specie Craspedacusta sowerbii. Quando ho letto questa notizia sui giornali locali sono rimasta perplessa all’idea che una minuscola creatura gelatinosa potesse aver viaggiato per migliaia di chilometri, partendo dalla valle dello Yangtze e arrivando a stabilirsi nelle fredde acque di un fiume europeo. Così ho aperto la sezione contatti dell’articolo scientifico in cui veniva annunciata la scoperta e ho telefonato a Chiara Manfrin, biologa dell’Università di Trieste che ha coordinato la ricerca.

Per essere precise, non è che l’abbiamo vista. Sai, quando lavori in una grotta è tutto buio, si riesce a vedere qualcosa solo nel cono di luce della torcia. A Luftloch bisogna considerare anche il flusso del fiume che trasporta sedimento e rende più difficile il tutto. In più, questa particolare specie è molto piccola, quasi invisibile. Quindi è veramente difficile da osservare, servirebbe una buona dose di fortuna. Per fortuna esiste il DNA ambientale.

Il termine DNA ambientale si riferisce al fatto che ogni essere vivente lascia tracce del suo DNA, impronte genetiche uniche e riconoscibili, nell’ambiente in cui si muove. Può essere contenuto nelle feci, può essere rilasciato da organismi in decomposizione, può nascondersi in ciuffi di pelo abbandonati. Il punto è che, raccogliendo e analizzando tutto il DNA presente in un campione di qualche litro d’acqua, si può avere una buona idea di quali organismi la abitino. È con analisi di questo tipo che è stata trovata la Craspedacusta sowerbii. Questa tecnica è sorprendente e l’entusiasmo di Chiara nel raccontarla è contagioso. Mi sento quasi in colpa però perché, mentre la ascolto, mi distraggo pensando a una nuova domanda che adesso mi ronza in testa. 

Che la si veda o no, la medusa c’è, lo indicano le analisi del DNA ambientale. Chiaramente, visto che la specie a cui appartiene è originaria della Cina, e considerato che le meduse di acqua dolce non hanno abitudini migratorie, gli esemplari presenti nel Timavo si trovano fuori dal loro areale, cioè della regione geografica in cui normalmente vivono. Ora, ci sono due classi di motivi per cui una specie può trovarsi così lontano da “casa”.

La prima riguarda l’ordine extra-umano delle cose: migrazioni annuali o eventi di dispersione, animali o piante che si spostano in giro per il mondo senza il nostro intervento. Una chiocciolina attaccata a una foglia può essere trasportata dal vento su un’isola, dove, dopo un lungo isolamento, i suoi discendenti daranno origine a una o più nuove specie (in passato è davvero accaduto). Questo tipo di eventi si verifica da sempre e continuamente, ed è alla base della nascita di molte nuove specie e di un’intera branca della biologia, la biogeografia, a cui Darwin stesso attribuì molta importanza nell’Origine delle specie

La seconda classe di motivi, invece, comprende tutti gli spostamenti causati da noi, più o meno volutamente. Piante esotiche che importiamo per i nostri giardini, animali marini intrappolati nelle acque di zavorra delle navi, animali domestici liberati in luoghi inadeguati. Calate in contesti ecologici con cui non avrebbero niente a che fare, talvolta queste specie finiscono per fare danni enormi. Sono le cosiddette “specie aliene”. 

Lo spiega Piero Genovesi nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle (Laterza, 2024):

Le specie che chiamiamo aliene (anche dette esotiche o alloctone) sono quelle piante, animali o altri organismi viventi che noi umani trasportiamo lontano dai loro ambienti naturali – in maniera volontaria o accidentale – introducendoli in luoghi che non avrebbero mai potuto raggiungere, senza un aiuto da parte nostra. […] La definizione è valida […] purché lo spostamento avvenga per azione diretta dell’uomo, ovvero non si tratti di un’espansione naturale legata a modificazioni ambientali operate dall’uomo.

Secondo l’ultimo rapporto IPBES del 2024, le specie aliene minacciano non solo la biodiversità, ma anche la salute e il benessere umano. Avrebbero causato danni per quasi duemila miliardi di dollari in cinquant’anni. Scoiattoli grigi, granchi blu, tartarughe dalle orecchie rosse, rientrano tutti in questa categoria. Le dinamiche ecologiche che li riguardano sono tante e complesse ma, data la rapidissima proliferazione delle loro popolazioni e i danni che apportano alle specie locali, vengono definite “specie aliene invasive”. Infatti, anche i giornali che annunciavano la comparsa delle meduse nel Carso parlavano di specie aliena invasiva. L’ipotesi più quotata per il loro arrivo, però, sembrava essere legata agli uccelli acquatici: le larve di medusa avrebbero viaggiato fin qui attaccate alle zampe di qualche uccello migratore. In questo quadro, noi non c’entriamo e quindi non dovrebbe risultare come specie aliena, né invasiva. Chiara Manfrin mi aiuta a chiarirmi le idee:

La prima segnalazione di questa specie in Europa risale all’inizio del Novecento. Anche allora, da sola non sarebbe potuta arrivare fin qui con le sue sole forze. E lì potrebbero aver giocato un ruolo gli uccelli acquatici: mettendo a mollo le zampe nei corsi d’acqua, possono raccogliere gli stadi larvali della medusa, microscopici ma più resistenti dell’adulto, e trasportarli in altri specchi d’acqua più lontani. Ma occhio. Dalle analisi del DNA vediamo che ci sono delle differenze fra le popolazioni di Piemonte, Lombardia, Sicilia, Friuli… si parla di firme molecolari diverse. In questo caso indicano che la medusa non è arrivata con un solo evento, si è spostata più volte. In alcuni di questi spostamenti, noi probabilmente abbiamo avuto un ruolo.

Come spesso succede, la realtà sfugge al nostro desiderio di etichette. Quasi tutto quello che vive e striscia su questo pianeta prospera nelle aree grigie, liminali. Anche la questione del danno apportato agli ecosistemi locali, altra caratteristica fondamentale per definire una specie invasiva, non è chiarissima per quanto riguarda questa medusa:

Se cerchi online troverai che questa medusa è innocua, perché non dà fastidio all’uomo, e noi siamo sempre antropocentrici. Ma nel momento in cui una specie aliena si stabilizza in un nuovo areale, cambia tutto. In ogni ambiente le risorse, lo spazio, l’ossigeno, sono limitate per cui, se una specie aliena nuova arriva e li utilizza, vuol dire che le sta sottraendo alle specie locali. Al momento non conosciamo le dinamiche ecologiche che sta influenzando Creaspedacusta sowerbii, non sappiamo che effetto ha o potrebbe avere sugli ecosistemi. Forse nessuno, forse dannoso.

Non lo sappiamo. Non lo conosciamo. Ed è normale: muoversi nel buio è ciò che fa la scienza da sempre, non solo in quella grotta. Si scoprono man mano nuovi pezzi del puzzle, ma non si conosce a priori l’immagine che comporranno. Quello che non possiamo fare però è assumere un atteggiamento troppo rilassato di fronte al nostro non sapere: la realtà è che le dinamiche interne agli ecosistemi naturali sono così ramificate, e la nostra interazione con essi così complessa, che rischiamo di fare danni enormi senza saperlo, senza vederlo. Non sappiamo, non conosciamo, eppure continuiamo a trasformare l’ambiente in maniera così profonda e duratura che mi domando sinceramente per quanto tempo avrà ancora senso distinguere fra le specie che si spostano da sole, e quelle a cui “diamo una mano”. La temperatura media del pianeta è in costante aumento, i paesaggi si frammentano e cambiano da un giorno all’altro, le risorse si esauriscono più in fretta di quanto riescano a riformarsi, e tutto per effetto delle nostre attività. Se, in un futuro ipotetico, un uccello esotico volasse fino a stabilirsi in una Norvegia ormai torrida potremmo davvero dire che lo ha fatto senza il nostro intervento “diretto”? Riusciremo ancora a distinguere qualcosa di davvero “naturale”?

Bella domanda. Mi piacerebbe dirti di sì, e in parte la risposta che ti darei sarebbe comunque vera. Questo perché spero che le cose cambino: la sensibilità ambientale è aumentata rispetto a pochi anni fa. Se io guardo a come ragiono su questi temi, è diverso rispetto a come ragionano i miei genitori. Le mie figlie ragionano in maniera ancora più estrema, ma estrema nel senso positivo. Sono sempre più attente.

Rimuginando su queste ultime parole di Chiara Manfrin, ripenso al gioco che facevo da piccola, e mi domando come sarebbe giocarci oggi. Mi chiedo se io stessa, da biologa, riuscirei davvero a distinguere qualche brandello di ambiente incontaminato (ammesso che abbia ancora senso parlarne) o se finirei a fissare un bellissimo albero verde pieno di foglie, senza sapere di star guardando un ailanto, pianta importata come albero ornamentale dalla Cina e oggi uno dei vegetali più invasivi nel nostro continente. A dispetto di tutto, forse, vorrei continuare a illudermi che il nostro impatto sul mondo non sia così pervasivo. Sbircio fuori dalla finestra e provo.

Manuela Gialanella

Manuela Gialanella è una biologa evoluzionista che da diversi anni lavora nel campo della comunicazione della scienza. Dai musei, alle aule di scuola, passando per byte e inchiostro: qualsiasi mezzo le va bene per parlare di temi legati all’evoluzione, ma anche ai dilemmi e alle contraddizioni che possono nascere in ambito scientifico. Napoletana di origine, vive e lavora fra Milano, Padova e Trieste.

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