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Agnese Codignola
Chi vuole il riarmo nucleare ha la memoria corta

Chi Vuole Il Riarmo Nucleare Ha La Memoria Corta Codignola
fisica guerra politica Scienza

La bomba atomica non è un'arma come tutte le altre. Ora che si parla di un suo uso "razionale", ricordarne la storia è più importante che mai.

Alla fine di marzo, la commissaria europea per la gestione delle emergenze Hadja Lahbib ha diffuso un video nel quale mostrava che cosa conteneva la sua borsa della resilienza. Il tono, maldestramente ironico, ha suscitato molte critiche e soprattutto ha impresso un significato contraddittorio al messaggio, che però, in realtà, era chiaro: viviamo tempi pericolosi, ed è opportuno prepararsi. 

Pochi mesi prima, milioni di svedesi avevano ricevuto a casa un libretto di una trentina di pagine. La copertina, nella quale una soldatessa protegge una donna con due bambini, era in una bicromia non casuale: in giallo e nero, ovvero nei colori che, a livello internazionale, definiscono il pericolo nucleare. E anche se il titolo (inizialmente “In caso di guerra”) è stato poi sfumato in “In caso di crisi o guerra”, è sembrato subito evidente che l’iniziativa fosse una risposta all’aggiornamento della dottrina nucleare russa, e che oggi il timore principale, per gli svedesi, è quello atomico.

Negli stessi giorni, anche i Paesi vicini hanno promosso campagne simili: la Norvegia ha distribuito un suo manuale, la Danimarca ha aggiornato il sito dedicato, e la Finlandia ha pubblicato un suo volumetto digitale.

Come prepararsi tenendo in casa le scorte più utili di cibo, acqua, medicinali, coperte, carburanti per generatori, come riconoscere i segnali di allarme, che cosa mangiare o bere, che cosa fare nelle diverse tipologie di crisi e che cosa, invece, evitare. Tutti i materiali informativi contengono questo genere di indicazioni, indispensabili per evitare il caos e superare le prime ore, in attesa dei soccorsi. In teoria in qualunque tipo di calamità. In pratica soprattutto in caso la sabbia candida delle spiagge nordiche, come quella del deserto del New Mexico nei test Trinity sulla prima bomba atomica, diventi verde: di vetro verde.

In Svezia, in realtà, il manuale è un aggiornamento di un’iniziativa che ha una cronologia sinistra. La prima versione risale agli anni della Seconda guerra mondiale. Le revisioni precedenti alla guerra fredda. La penultima al 2018, dopo l’invasione della Crimea da parte della Russia. E ora arriva questa, che nelle prime pagine reca una frase evidenziata in giallo, destinata a contrastare la propaganda russa, che riecheggia la resistenza ucraina: «In caso di attacco, la Svezia non si arrenderà mai. Chiunque dica il contrario, mente».

1. Un riconoscimento tardivo

Poche settimane prima della distribuzione dei libretti, il Comitato norvegese del premio Nobel aveva lanciato il suo segnale: il premio per la Pace era stato attribuito a Nihon Hidankyo (nome nome con cui è nota la Japan Confederation of A- and H-Bomb Sufferers Organisations) , l’associazione di sopravvissuti alle bombe di Hiroshima e Nagasaki (chiamati Hibakusha) fondata nel 1956 grazie allo sforzo congiunto di questi ultimi e delle vittime dei test atomici nell’Oceano Pacifico. A quasi ottant’anni dalle bombe, il mondo ha riconosciuto i meriti di quegli infaticabili sopravvissuti, che per decenni hanno sfidato lo stigma, l’oblio, la negazione che aveva avvolto come una cappa di piombo il loro dramma. E lo hanno fatto nonostante le malattie che le radiazioni avevano provocato nel loro organismo, mossi dall’idea che le loro parole potessero servire da antidoto. Lo slogan dell’associazione, il cui logo è l’origami di una cicogna, è: Mai più Hibakusha.

Toshiyuki Mimaki, il cofondatore dell’associazione, che nell’agosto del 1945 aveva tre anni, ha fatto in tempo a vivere – quasi incredulo – quel momento, con una commozione che è apparsa evidente a tutto il mondo. Ma, purtroppo, ha visto anche ciò che è accaduto nei mesi precedenti e in quelli successivi, che sembra annullare gli sforzi suoi e dei suoi compagni. Perché l’umanità pare aver dimenticato che cosa accade quando la sabbia diventa vetro verde o, quantomeno, sembra averne un ricordo falsato, attenuato, avvolto da un fallout amnesico che la spinge a puntare ancora, e di nuovo, sull’atomo bellico, come si farebbe con un ordigno qualunque, solo un po’ più potente.

In tutta evidenza, il tabù nucleare descritto dalla politologa americana Nina Tannenwald nel 1999, ossia il freno morale all’utilizzo delle armi atomiche come strumento di offesa, sta mostrando forti segni di erosione, come lei stessa ha sottolineato nel 2022. Lo zeitgeist è cambiato, e negli ultimi tre anni sono state decine le dichiarazioni su un uso “razionale” di bombe nucleari tattiche, trattate come strumenti che potrebbero essere risolutivi e che, tutto sommato, comporterebbero un rischio accettabile.

E allora vale forse la pena di raccogliere il testimone degli Hibakusha per continuare a ricordare che cosa è stata, dal loro punto di vista drammaticamente privilegiato, la convivenza con la deterrenza atomica, così come quella con il nucleare civile. E che cosa si è capito, negli anni, di ciò che accade alla salute umana e all’ambiente quando l’uomo diventa «distruttore di mondi», secondo la celeberrima citazione di J. Robert Oppenheimer. E quali sono, però, anche le spore di speranza lasciate cadere dai funghi atomici.

Il primo vero momento di consapevolezza dell’Occidente sulle conseguenze delle bombe sul Giappone ha una data: 31 agosto 1946. Quel giorno, infatti, il «New Yorker» pubblica un numero monografico, di cinquantatré pagine – in seguito diventerà un libro da tre milioni di copie vendute in tutto il mondo, a firma John Hersey – intitolato semplicemente Hiroshima

Nel reportage Hersey racconta nei più piccoli dettagli la giornata di sei persone sopravvissute alla bomba: un’impiegata, un medico di una clinica privata, una vedova, un gesuita tedesco, un giovane chirurgo della Croce Rossa, un pastore della chiesa metodista. Le loro vite vengono risparmiate per casualità assolute, e questo fa di loro degli Hibakusha. Nelle loro parole c’è tutto: stupore, incredulità, difficoltà a interpretare ciò che i loro sensi stavano vivendo, e poi orrore, fuoco, l’agonia dei feriti, i simulacri di corpi per le strade, il fiume pieno di cadaveri carbonizzati, il deserto nero che aveva rimpiazzato la loro città, l’impossibilità di curare o anche solo alleviare dolori terrificanti, gli effetti in gran parte strani e inattesi su chi era rimasto in vita nelle settimane successive, l’ottundimento necessario per continuare a vivere durato anni, e molto altro. 

Quel racconto smuove le coscienze degli americani, e inizia a incrinare l’interpretazione univoca data fino ad allora dell’accaduto. Forse non è stata del tutto giustificata la decisione di sterminare oltre centomila persone inermi, azzerare due grandi città e lasciare ai sopravvissuti un’eredità segnata dalla malattia. Forse si sarebbero potute percorrere altre strade, o almeno provare a farlo. 

2. Il nuclearismo

Pochi anni dopo, un altro grande studioso del trauma descrive la realtà atomica dal punto di vista delle vittime, ma anche da quello di chi aveva sganciato la bomba: lo psichiatra e psicanalista Robert Jay Lifton, che per settant’anni ha indagato i complessi rapporti tra violenze, vittime, carnefici, società e cervello umano. Lifton trascorre sei mesi a Hiroshima, durante i quali osserva e intervista gli Hibakusha, e scrive Death in life: Survivors of Hiroshima, uscito nel 1968 e vincitore del National Book Award in Science.

Uno dei comportamenti su cui lo psichiatra rifletterà per tutta la vita è quello che lui stesso ribattezza nuclearismo, cioè la scelta di dotarsi di armi nucleari per la risoluzione dei conflitti. Di più: l’impegno al loro utilizzo. Per spiegare in che cosa consista, in una lunga intervista rilasciata a Masha Gassen per il «New Yorker» nel 2023, Lifton, vicino ai cento anni, parte da una critica al film di Cristopher Nolan Oppenheimer  e dalla totale assenza, in esso, delle discussioni tra lo scienziato e il suo mentore Niels Bohr. Nella realtà, i due avrebbero a lungo riflettuto sulla dualità delle armi atomiche mentre erano a Los Alamos: da una parte distruzione e caos, dall’altra unico strumento per evitare guerre future. E avrebbero deciso di usarle, assecondando così il loro nuclearismo.

Nonostante i ripensamenti seguenti, secondo Lifton, Oppenheimer fu per tutta la vita profondamente ambiguo riguardo a ciò che aveva realizzato e alle sue decisioni, e questo lo catapultò in un intorpidimento non dissimile da quello degli Hibakusha, che alla fine lo devastò come le radiazioni avevano fatto nei corpi dei sopravvissuti. 

Sempre secondo lo psichiatra, anche Putin è vittima del suo nuclearismo, rafforzato, nel suo caso, dalle venature messianiche della sua figura in Russia e del suo regime. Chi pensa di avere Dio dalla sua, è certo della propria salvezza, terrena o ultraterrena: saranno sempre e solo gli altri a soccombere.

Da notare che l’intervista è stata rilasciata da un Lifton che non aveva ancora visto il Trump II  e la foto dalla Sala Ovale con i religiosi raccolti in preghiera né quella di Trump vestito da papa. 

Negli stessi anni in cui Lifton lavorava su Hiroshima, iniziavano a venir fuori le prime testimonianze del fatto che il nuclearismo non aveva affatto abbandonato l’umanità. Le bombe nucleari erano il cardine della guerra fredda, e continuavano i test – soprattutto nel Pacifico – per renderle sempre più potenti, quasi sempre a totale insaputa degli abitanti delle isole coinvolte e perfino, in molti casi, dei militari occidentali che prendevano parte agli esperimenti. Ma la società civile lo percepiva, soprattutto laddove le bombe nucleari erano state ben più di un’astrazione sperimentale, e ne era terrorizzata. Una delle prime dimostrazioni del clima di panico latente fu il film Godzilla, uscito in Giappone il 27 ottobre del 1954. Il protagonista era Gojira, un mostro marino alto più di cinquanta metri e capace di sparare raggi dalla bocca risvegliato, guarda caso, da un’esplosione nucleare. Il regista del film Ishiro Honda in effetti si ispirò alle prime notizie che arrivavano dal Pacifico. Ma quelli erano solo i vagiti della nuova era. 

Negli anni successivi, sempre restando al solo Pacifico, la Gran Bretagna attraverso le operazioni Grapple e poi gli Stati Uniti attraverso l’operazione Dominic condussero rispettivamente sei e ventiquattro test atomici, tutti finalizzati ad avere la bomba più distruttiva mai realizzata. Secondo alcune stime, in quegli anni i test di esplosioni nucleari di Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica furono più di cento. E anch’esse lasciarono migliaia di Hibakusha, a tutte le latitudini.

3. Gli altri Hibakusha

La loro storia, in particolare quella delle vittime degli esperimenti inglesi, è tornata alla ribalta nei mesi scorsi con l’uscita del documentario della giornalista investigativa della BBC Susie Boniface Britain’s Nuclear Bomb Scandal: Our Story, che ha riacceso l’attenzione sul destino delle quasi 40.000 persone esposte a loro insaputa alle radiazioni nelle isole del Pacifico. Il film riporta la testimonianza di cinque veterani e la storia di Woomera, una piccola città australiana sede di una base militare, con annessa zona proibita in pieno deserto dove si stima vi sia stata la più elevata concentrazione di radioattività mai raggiunta sulla Terra prima di Chernobyl, a causa dei fallout dei test. Ciò che ne rimane oggi va cercato nel cimitero: nelle piccole tombe bianche che ricordano il numero esorbitante di bambini morti in seguito a malformazioni, tumori e altre malattie (più di sessanta in pochi anni). 

Che cosa sia stata quella stagione lo si capisce, anche, dalle parole di Hibakusha come Teeua e Teraabo, due sorelle native dell’isola di Kirimati, che nel 1958 avevano rispettivamente otto e quattro anni, che hanno raccontato la loro storia su «The Conversation». Entrambe avevano accolto con curiosità e allegria quella luce bianca e quella strana cenere, e si erano prestate con entusiasmo agli esami medici del personale americano, o ai cartoni della Disney offerti sulle navi di evacuazione inglesi, nelle rare occasioni in cui furono allontanate dal sito. Le evacuazioni furono infatti ridotte al minimo per risparmiare e perché, «dalla riduzione (la distanza dai test) deriva solo un rischio molto lieve per la salute delle persone, e solo per i popoli primitivi». Le conseguenze, molti di quei sopravvissuti, le pagano ancora oggi, anche se questo non sembra turbare tutti allo stesso modo. Nel 2023, e quindi a un anno dall’invasione dell’Ucraina e dalle relative minacce nucleari russe, Francia e Gran Bretagna, seguendo l’esempio proprio della Russia e del suo fedele alleato Corea del Nord, hanno votato contro una risoluzione delle Nazioni Unite proposta da Kirimati e Kazakhstan per l’assistenza alle vittime e ai luoghi danneggiati dai test atomici degli anni Cinquanta e Sessanta. Centosettantuno Paesi hanno votato a favore, e sei si sono astenuti: la mozione è passata.

4. Da inferno a oasi naturale

Probabilmente, nelle decisioni dell’ampia maggioranza dell’ONU risuonavano anche le minacce poste dall’occupazione della centrale di Zhaporizha da parte dei russi, che oltre a colpirne i dintorni l’hanno utilizzata per mesi come base, ben sapendo che nessuno avrebbe cercato di neutralizzare i missili che partivano dai reattori. 

Nel vedere le immagini della centrale più grande d’Europa a rischio incidente a molti sono di certo venute in mente quelle di un’altra centrale nucleare ucraina, di cui i russi si sono impadroniti all’inizio della guerra: Chernobyl, tornata di attualità solo pochi anni fa, nel 2019, grazie alla serie omonima. 

Lo scorso febbraio, quando un drone russo ha colpito il sarcofago del reattore 4 provocando un foro di una quindicina di metri, la storia è sembrata andare all’indietro. I danni, per fortuna, sono stati limitati a incendi senza fuoriuscita di radiazioni ma, com’è evidente, entrambi i siti saranno costantemente a rischio, fino a quando non li si escluderà del tutto da qualunque operazione militare. 

5. Un osservatorio specialissimo 

Chernobyl, nei quasi quarant’anni passati da quell’aprile del 1986, è diventato qualcosa di unico: un osservatorio privilegiato per studiare le conseguenze di una contaminazione che era stata quasi venti volte quella delle bombe di Hiroshima e Nagasaki sia sulla salute dei circa cinque milioni di cittadini investiti più o meno da vicino dal fallout che sull’ambiente.

Secondo le stime ufficiali del Chernobyl Forum dell’ONU, i morti nel 1986 furono 65, e negli anni successivi i decessi per tumore alla tiroide circa 4000. Tuttavia, secondo molti osservatori, stabilire le conseguenze delle radiazioni su un arco di tempo più lungo, e su uno spettro amplissimo di malattie potenzialmente aumentate nella popolazione di Paesi come Russia e Bielorussia (l’Ucraina era già molto più allineata agli standard occidentali), è molto complicato, quando non impossibile. Le cifre oscillano moltissimo, ma è indubbio che vi è stato un aumento di tumori del sangue, malformazioni e di numerose altre malattie sia tra i sopravvissuti che nelle generazioni successive.

Non sono interpretabili, invece, gli effetti sull’ambiente, particolarmente chiari nella zona di alienazione, un’area con un raggio di circa trenta chilometri detta anche quarta zona (in quanto cuore di una serie di quattro anelli concentrici a limitazioni crescenti) dove nessuno, da allora, può entrare senza permesso, e dove la natura sta reagendo senza interferenze.

Esclusa agli interventi esterni, la quarta zona ha vissuto e sta vivendo una specie di boom ecologico: la rigenerazione spontanea è aumentata del 50% e due terzi del terreno sono ormai ricoperti da boschi, al punto che l’intera area è a tutti gli effetti una riserva naturale (la terza d’Europa per estensione). Una realtà talmente interessante che, come ricorda in un lungo reportage Fred Pearce, giornalista e scrittore specializzato in temi ambientali, Chernobyl potrebbe diventare un modello per l’Ucraina post bellica, dove la decontaminazione richiederà anni. Si potrebbe pensare di tutelare amplissime zone del Paese e trasformarle in laboratorio per un modello di sviluppo antitetico rispetto a quello post sovietico. Miniere di terre rare e relativi padroni permettendo. 

L’incredibile vitalità della quarta zona di Chernobyl è resa possibile dal fatto che gli animali e i microrganismi hanno saputo adattarsi: l’evoluzione, da quelle parti, agisce sotto gli occhi dei ricercatori, e lo fa rapidamente e con successo. 

“Il batterio Deinococcus radiodurans, è stato ribattezzato «Conan il batterio» per la sua straordinaria resistenza”.

Nel tempo sono state studiate numerose specie di uccelli, roditori, lupi, vermi, cavalli, piccoli mammiferi e soprattutto cani, perché ce ne sono non meno di ottocento esemplari, di decine di razze diverse. Come ha notato Katherine Wu in un articolo uscito nel 2023, dopo le prime generazioni – che hanno accusato danni al DNA e sviluppato tumori e malformazioni – i cani di Chernobyl oggi stanno bene, ma il loro genoma è del tutto particolare, perché reca, ben visibili, le tracce di tutto ciò che è accaduto. Sono diventati razze nuove, uniche e presenti solo lì. Ideali, quindi, come modelli. Di loro si stanno studiando, nel tempo, i meccanismi di adattamento, perché le soluzioni trovate dai loro geni potrebbero essere utili anche all’uomo, sia per capire che cosa fare in caso di contaminazione, sia per riuscire a contrastare le radiazioni cosmiche, uno dei principali ostacoli alla permanenza nello spazio.

Un altro esempio, che conferma indirettamente quanto osservato nei cani, ossia la grande plasticità genetica di molte specie sottoposte a uno stress di quel tipo, è quello dei tardigradi, creature antichissime, millimetriche, capaci di sopportare dosi di radiazioni almeno mille volte superiori a quella degli esseri umani. Secondo uno studio i tardigradi del genere Hypsibius exemplaris, quando esposti alle radiazioni, attivano quantità enormi di geni riparatori di lesioni e danni al genoma. 

Qualcosa di simile fa anche il batterio Deinococcus radiodurans, ribattezzato «Conan il batterio» per la sua straordinaria resistenza ai raggi ionizzanti, che gli permette di sopportare, se congelato, una dose di radiazioni pari addirittura a 28.000 volte quella che ucciderebbe un essere umano.

E poi ci sono le star assolute del settore, ossia i funghi neri, le uniche creature che hanno continuato a vivere dentro il reattore 4 di Chernobyl. Il Cladosporium sphaerospermum e altri funghi crescono grazie alla radiosintesi, cioè, letteralmente, mangiano radiazioni: convertono i raggi gamma in energia chimica grazie alla melanina che conferisce loro quel colore così fosco. Per questo alcuni di essi sono stati anche inviati sulla Stazione Spaziale Internazionale, per vedere se sia possibile utilizzarli come scudo biologico. 
Nel frattempo, tra gli esseri umani, c’è chi si occupa di trovare colture che resistano a una crisi nucleare o di altro tipo, in modo da poter assicurare cibo agli eventuali sopravvissuti: Allfed, no profit fondata nel 2011 da David Denkenberger, con adesioni in tutto il mondo.

Denkenberger, esperto di funghi, nel 2014, anno dell’invasione della Crimea da parte della Russia, ha scritto con Joshua Pearce un libro intitolato: Nutrire tutti, qualunque cosa accada: gestire la sicurezza alimentare dopo una catastrofe globale. Il testo ipotizza come nutrire gli esseri umani in caso di super eruzione vulcanica, impatto di asteroidi, super pandemia e simili e, ovviamente, inverni nucleari: sarebbe da allegare ai volumetti distribuiti dai Paesi nordici. Volumetti che, nelle prossime edizioni, potrebbero contenere anche il consiglio di tenere sempre in casa una piccola coltivazione di funghi neri vitali, da espandere in caso di necessità, facendoli crescere attorno a porte e finestre, con la certezza che, a prescindere dall’entità del danno e da eventuali sopravvissuti, e dalla possibilità di usarli come cibo, loro sarebbero sicuramente al loro posto: in ottima salute.

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

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