Breve storia della pittura sottomarina.
È un fenomeno curioso quanto poco ricordato nella storia della pittura: alla fine del XIX secolo alcuni artisti s’immergono sott’acqua per dipingere il paesaggio marino. Si tratta di un corpus (se tale si può chiamare) esiguo, sconosciuto, inclassificabile per quanto dalle radici antiche se pensiamo ai racconti mitici sui viaggi sottomarini, a partire da Alessandro Magno.
Per semplificare, ci sono due fasi nella pittura sottomarina: quella dei pionieri (1880-1890) e quella moderna (a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso). Nella prima, su cui insisterò, emergono due figure di cui ci è giunta notizia, per quanto assenti dai manuali di storia dell’arte: il barone Eugen von Ransonnet-Villez (1838-1926) e Walter Howlison “Zarh” Pritchard (1866-1956).
Artista-esploratore, austriaco come il fotografo subacqueo Hans Hass, a soli 12 anni Ransonnet frequenta corsi all’Accademia di Belle arti di Vienna e matura il suo interesse per la biologia marina a Nizza, dove vive la zia. Dopo aver studiato diritto diventa, appena ventenne, funzionario del ministero imperiale degli Affari esteri, un lavoro che gli permette di viaggiare molto. Nel 1862, a 24 anni, è in un piccolo villaggio sul mar Rosso per osservare i coralli a bordo di un’imbarcazione o immergendosi in apnea. Ne fornisce una descrizione e due litografie per la rivista della Società zoologica e botanica austriaca di cui è membro, confrontandosi in modo proficuo con i suoi colleghi.
Insoddisfatto del suo resoconto visivo e aspirando a una maggiore esattezza scientifica, nel 1864 si reca tre mesi a Ceylon (attuale Sri Lanka), dove progetta e fa costruire una campana subacquea su misura. Alta quasi un metro, larga 80 cm per quasi 40 kg di lamine di ferro, è dotata di due piccoli oblò spessi 2,6 cm, uno all’altezza degli occhi e uno sulla sommità che utilizzerà poco – forse perché offriva una vista troppo disorientante del mondo sottomarino.
Il 25 novembre 1864, nelle acque costiere di Galle – città fortificata e dotata di un importante porto sul lato sud-ovest dell’isola – prova la campana. Prima di immergersi intravede un cane morto che galleggia: non è un cattivo auspicio ma, al contrario, la prova che non ci sono squali nelle vicinanze. Confinato in questo spazio angusto, dove ogni rumore rimbomba, resta diverse ore a bocca aperta davanti e dentro a un mondo sconosciuto. Attraverso l’oblò – che diventa la sua finestra albertiana – disegna i coralli tropicali.

Eugen von Ransonnet-Villez, Motivo all’ingresso della grotta blu di Busi, acquarello, 1884 ca., Musée océanographique de Monaco
“Mette a punto una carta verniciata che, anche quando bagnata, gli permette di disegnare con la matita. Una volta finito, lo schizzo viene messo in una scatola di latta e portato in superficie, dove viene steso un secondo strato di vernice per proteggerlo prima di applicarvi il colore a olio”, precisa Marie Bournonville del Musée océanographique di Monaco nel catalogo di Bleu profond. L’océan révélé. Questi disegni sono considerati “the very first authentic underwater sketches in history” (i primissimi disegni subacquei della storia); non è un peccato continuare a ignorarli?
Di Ransonnet ci resta poco: alcuni dipinti a olio, litografie e acquerelli, in parte confluiti in due libri in tedesco, introvabili, oltre alla sua collezione di coralli e animali marini, tra cui quelli donati al Museo di scienze naturali di Vienna. I suoi disegni erano esposti proprio qui, nella sala dei coralli, così che il pubblico poteva farsi un’idea precisa dell’ambiente da cui quegli specimen ormai scoloriti erano stati estrapolati. Così procede anche Ransonnet, a conferma della sua attitudine scientifica: gli schizzi del milieu acquatico sono completati, in un secondo momento, copiando gli specimen pescati e raccolti in recipienti di cristallo riempiti d’acqua marina.
L’artista biologo Ernst Haeckel, che conosceva le immagini di Ransonnet, lamentava di non avere una campana subacquea ma, per quanto l’invenzione fosse ingegnosa, quella di Ransonnet doveva essere difficile da manovrare. Se ne è accorto lo staff del museo viennese che l’ha ricostruita nel 1998 e testata a Opatija in Croazia (dove Ransonnet aveva una villa). Nonostante 400 kg di contrappeso, stabilizzarla è stata un’impresa, ma era necessario perché, se la campana si fosse inclinata, l’aria sarebbe fuoriuscita trasformandola in una trappola mortale.
Lo stesso Ransonnet del resto non ripeterà l’esperienza srilankese e in seguito, nel mare Adriatico, utilizzerà un sistema di specchi o un periscopio sottomarino su cui restano poche informazioni. È così ad esempio che, nel 1884, osservando il fondale, scoprirà la Grotta Azzurra nell’isola Busi (oggi Biševo) in Croazia.
Nato a Madras nel 1866 da genitori anglo-irlandesi, Pritchard cresce in Scozia dove comincia a immergersi in apnea a Portobello, sul fiordo di Forth vicino Edimburgo. Qui studia arte e riceve il suo primo riconoscimento grazie a Sarah Bernhardt, incontrata nel 1890 dopo una rappresentazione di Cleopatra. Comincia così una collaborazione col teatro, disegnando costumi e accessori a tema marino per una dozzina d’anni. In California gli viene suggerito di dipingere sott’acqua.
Inconsapevole dei tentativi precedenti di Ransonnet, nel 1904 a Tahiti Pritchard s’immerge in apnea e abbozza dei disegni a matita su carta oleata incollata a un supporto di vetro. In seguito, grazie a uno scafandro ossigenato da un narghilè, dipinge su una tela di cuoio di pelle di vitello ricoperta con olio di lino. “Utilizza dei pastelli a olio o dei colori molto densi, che aderiscono alla tela senza mescolarsi con l’acqua circostante” (Marie Bournonville). Scende tra i 5 e i 20 metri di profondità per circa mezz’ora, fissando il cavalletto con sacchi di piombo. Quando risale in superficie per una pausa o a fine giornata lascia tutto dov’è, visto che non c’è corrente, come se avesse un vero e proprio atelier subacqueo.
Con questa tecnica realizza centinaia di disegni che poi riporta sui quadri, nei quali si vedono gli effetti del suo trascorso teatrale.

Zarh Pritchard, Vallée sous-marine au large de la côte ouest d’Ecosse, 1916, Huile sur cuir. 62,5×81,5 cm Monaco, Musée océanographique © Coll. Institut océanographique, Fondation Albert Ier, Prince de Monaco
Ad accomunare Ransonnet e Pritchard, entrambi esposti in Bleu profond. L’océan révélé (Les Franciscaines, Deauville, fino al 21 settembre 2025, a cura di Jean de Loisy) è un aspetto geografico su cui non si è riflettuto: i primi dipinti abissali del mondo occidentale provengono dallo Sri Lanka e da Tahiti. Non solo la pittura acquatica si situa ai margini della storia millenaria di questo medium, ma anche la sua geografia è periferica, legata a doppio filo alla storia del colonialismo europeo. Osservando le loro opere, a distinguerle sono differenze estetiche quanto tecniche, inscindibili nel caso della pittura sottomarina.
Entrambi realizzano degli schizzi sott’acqua elaborati una volta riemersi. Tuttavia, mossi dalla volontà di restituire un’immagine verosimile dell’abisso, Ransonnet è protetto all’interno della sua campana, per quanto traballante, mentre Pritchard è a contatto con l’elemento acquatico, diventando di fatto il primo artista a dipingere en plein mer.
Ransonnet cura in ogni dettaglio i suoi fondali marini e ha come modello l’illustrazione scientifica. Pritchard invece ha il gusto per le atmosfere sottomarine, le gradazioni cromatiche e le prospettive ampie. Le sue vallate, foreste e catene montuose subacquee anticipano l’immaginario onirico surrealista. Non sorprende che una delle sue ispirazioni sia Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne.
Tuttavia, per comprendere la pittura sottomarina, il confronto decisivo è con gli acquari, diffusi a partire dalla metà del XIX secolo. La frontalità che scinde chiaramente la parte emersa e quella immersa con una linea netta e orizzontale, l’osservazione limpida e a distanza debita grazie all’involucro di vetro trasparente. In quanto dispositivo ottico, questo oceano domestico e in miniatura offre un’immagine vivace, realistica e, allo stesso tempo, rassicurante degli abissi, alla portata di un osservatore che resta all’asciutto e comodo in poltrona.
Gli atteggiamenti di Ransonnet e Pritchard divergono. Ransonnet mantiene parzialmente le convenzioni dell’acquario, rappresentando ad esempio la superficie dell’acqua o lasciando intuire che la parte superiore del quadro coincida col pelo dell’acqua. In qualsiasi momento lo spettatore inquieto può risalire in superficie, prendere una boccata d’aria, ritrovare il mondo emerso. Pritchard d’altro canto è attratto dalla profondità verticale: indifferente al fondale e alla pelle dell’acqua, immerge gli spettatori in un milieu avvolgente, evitando ogni effetto riflettente della lastra di vetro tipica dell’acquario. Così, sebbene Pritchard esponga in vita all’Aquarium di New York e, oggi, in musei marittimi o di storia naturale, la sua “prospettiva acquatica si libera dai vincoli dell’acquario” secondo quanto Margaret Cohen scrive nel bellissimo saggio The Underwater Eye.

Yiannis MANIATAKOS, Sans Titre, 1980, Huile sur toile, 48×65 cm. Avec l’aimable autorisation de la succession de Yiannis Maniatakos et Sylvia Kouvali, Londres / Le Pirée – Copyright La Succession de Yiannis Maniatakos
Cohen coglie bene le differenze tra acquario e ottica sottomarina. La prima è l’immersione, assente nell’acquario, e un’altra la distorsione: luce, forme, dimensioni e colori sono alterati sott’acqua; gli oggetti appaiono più grandi, la loro distanza da noi incerta. Difficile restituirne una visione prospettica e lineare. Anche perché sott’acqua non si riesce a restare immobili e resistere alle correnti. Lo riconoscono anche Ransonnet o Pritchard che, sul retro della tela, annotava le distanze tra lui (e quindi tra lo spettatore) e quanto rappresentato, o l’altezza delle rocce di basalto o delle statue di corallo.
Non potersi fidare di quanto si percepisce: è una delle lezioni e delle esperienze più radicali della pittura sottomarina.
La diffusione di fotografia e cinema sottomarini ne causano però presto la caduta nell’oblio, ma quello che poteva restare un hapax nella storia della pittura conosce una seconda vita grazie a figure non meno eclettiche di Ransonnet e Pritchard: il greco Yiannis Maniatakos (1935-2017); il francese André Laban (1928-2018), che nel 1952 s’imbarca come ingegnere chimico a bordo della Calypso e collabora per oltre vent’anni col navigatore Jacques-Yves Cousteau; lo spagnolo Alfonso Cruz (1958) fino a una generazione più giovane come l’italiana Ely Phenix.
Come nella prima fase, si tratta anzitutto di opere inclassificabili: né pienamente documentarie (come la fotografia sottomarina) né frutto dell’immaginazione (come letteratura e cinema). Da qui deriva l’ambivalenza espositiva, per cui possiamo ammirarle in mostre didattiche organizzate da un museo della scienza o in mostre collettive d’arte contemporanea. Sono opere segnate dall’assenza della figura umana; l’unica è quella, invisibile e presupposta, dell’artista, che aspira non solo a immergersi ma a confondersi col milieu circostante come una goccia in un oceano. Che si tratti di una forma di escapismo, una fuga elegante da contesti socio-politici tesi? Così è a volte considerata l’opera di Maniatakos rispetto alla Dittatura dei colonnelli.Si tratta infine, ed è il punto più attuale, di una pittura che coglie un’inedita “prospettiva acquatica” (Cohen). Osservando questi paesaggi marini prendiamo infatti coscienza, per la prima volta, di un elemento affatto scontato: che la pittura è un medium sviluppatosi esclusivamente en plein air e che il nostro sguardo è inestricabilmente terrestre, perlomeno da quando siamo bipedi che respirano. Esiste invece un dipingere (in) blu, una pittura en plein mer che, stanca di rappresentare il pelo dell’acqua, l’incresparsi delle onde, mari in tempesta o pompose composizioni di battaglie marine – le cui dimensioni colossali sono pari solo alla loro monotonia – prende fiato e si immerge.
in copertina Eugen von Ransonnet-Villez, Paesaggio sottomarino, olio su tela, 68 x 49 cm ca., realizzato prima del 1889, NHM Vienna, foto A. Schumacher